Nirvana Pink

Nirvana Pink

RINO GIACHINO

Manuela è affascinata dallo yoga, dallo zen, dai prodotti biologici, dal Vipassana, dagli stati ipnotici e dai trattori a testa calda.
Io sono affascinato da Manuela.
Invitarla a cena è stato un’impresa, tra sedute di rilassamento, lezioni guidate sulla respirazione con il diaframma, carezze ai cavalli zen e domeniche in sfilata sui Landini d’epoca.
Infine ha acconsentito di essere accompagnata al ristorante un sabato perché era saltato il raduno “Trebbiatura del grano biologico”.
Per farla contenta ho scelto il “Nirvana Pink” sulle colline di Amarildo.
Se vi capita di andarci mettetevi una tuta da lavoro sopra il vestito perché entrando nel prato adiacente al ristorante sarete assaliti da Zenith e Zorba, due San Bernardo che vi zomperanno addosso e vi slingueranno come dei ghiaccioli sotto lo sguardo compiaciuto dei proprietari del ristorante.
Con un gesto delle mani come preti nel momento della preparazione dell’ostia sacra vi inviteranno a carezzarli. «Teneri cani, non abbiate riserve, godetevi le loro coccole».
Mi sono lasciato invadere dalla bava pestilenziale di Zenith per non sembrare sgarbato con Manuela e con due papi colorati.
Quando finalmente me li sono tolti da torno sono andato in bagno a lavarmi e mi sarei fatto anche la barba fosse stato possibile, ma non c’erano asciugamani e allora mi sono asciugato alla buona con dei pour-pourri alla violetta.
Ero stordito dal profumo e dalle effusioni canine e ho cercato riparo e conforto in una sedia che non trovavo, ma mi hanno ripreso con un sorriso bonario: dovevamo officiare il saluto al sole prima di iniziare cena.
Alzando le braccia al cielo abbiamo inspirato e poi le abbiamo lasciate scendere dolcemente espirando. «Più rilassati», ha ammonito Lankapurj, uno dei due papi arancioni. «Rilassiamoci come dei fiori che si aprono alle gioie del giorno».
Se scegliete di andare al “Nirvana Pink” portatevi una sedia da casa, magari quelle pieghevoli, perché lì di sedie non c’è traccia.
Seduto come un indiano Navajos, dopo quindici minuti ero anestetizzato nella parte inferiore del corpo e guardavo rancoroso un vecchietto di Bergamo Alta che la sedia se l’era portata, giustificandola con un artrosi che non gli permetteva la posizione del loto.
Sorrideva dall’alto guardandoci sprezzante.
Sui tappeti veniva riversata mielosa una musica New Age appena accennata.
Eravamo intorno ad un tavolo circolare e basso ed ero stretto tra una signora fanatica dell’agopuntura e un trombone che non la finiva di raccontarmi come la sua vita fosse cambiata con la pratica del Thai-Chi-Chuan.
Manuela due posti più in là, sorridente e serafica, ogni tanto mi lanciava sguardi melensi, poi immediatamente si ritraeva.

Prima portata:
Sufflè di valeriana alla crema di camomilla.
Alla terza forchettata ero entrato in pieno stato rem, sono stato svegliato dal suono cristallino di campane tibetane.
«Ora ci alzeremo e a coppie congiungeremo le nostre mani per sentire l’energia» … «Lasciatevi andare, chiudete gli occhi».
Mi era toccato il trombone del Thai-Chi, aveva mani sudaticce e mi palpava come un’iguana infreddolita.

Seconda portata:
Zenzero affogato nei fiori di Bach.
Dentro il piatto macchie gialle e violacee da mangiare immergendo un cucchiaino di plastica come quello in dotazione negli sciroppi per la tosse.
«Ora ci alziamo e compiamo il movimento della scimmia che raccoglie la pesca».
Schivai opportunamente il trombone ma fu inutile. La fluttuazione della scimmia e della pesca era da compiersi individualmente. Più che una pesca doveva essere una specie di mongolfiera perché Lankapurj, che ci guidava nei movimenti, inarcava le spalle e allungava le mani come se dovesse abbracciare il monumento di Pavarotti.
Ci fu un gemito.
Il tizio di Bergamo Alta era stato colto da un colpo della strega spietato, rimase in posizione della culla in movimento, pallido e distrutto.
Dio è poco presente, ma a volte nomina qualche suo sostituto con un grande senso della giustizia.

Terza portata:
Farfalline di Kamuth assopite in un morbido letto di petali di rose.
Una gelatina tremolante, colorata e dolcissima. Un petalo mi si incuneò perfidamente nella trachea, costringendomi a una tosse convulsa, bevetti una sorsata di succo di albicocche con susine acerbe e feci un lungo respiro, con il diaframma.
Mi sentivo soffocare.
Si appannarono gli occhiali, mi accasciai sul tappetto che raffigurava cigni bianchissimi e primule che sembravano disegnate da un malfermo Van Gogh e mi trovai attorniato dai commensali.
La signora dell’agopuntura mi puntava uno stuzzicadenti sotto il lobo dell’orecchio, un signore con un turbante ridicolo sfoggiava tra indice e pollice un piccolo cristallo di quarzo e intuivo con grande turbamento che avrebbe voluto infilarlo in qualche punto delicato del mio corpo.
Svenni.
Quando mi svegliai ero sul divano, insieme a Manuela e uno dei papi arancioni. Avevo una gran voglia di andarmene.
Lankapurj in segno di saluto, con un gesto teatrale mi strofinò il suo pollice sulla fronte disegnando un piccolo Tilaka, il segno rossastro usato in India.
Pagai un conto esorbitante e uscendo schivai con un calcione le zampacce di Zorba.
Riportai a casa Manuela, i miei fari puntarono per un attimo il suo Landini d’epoca parcheggiato nel garage poi, rimasto solo, diedi gas e andai incontro alla notte.

Ho acceso una Malboro, messo Jimmy Hendrix a palla e caricato due puttane.
Abbiamo fatto il giro della città, riso sguaiatamente sparando cazzate e cantando canzoni strampalate in lingue che fino a quella sera pensavo non esistessero.
Mi sono fatto imprestare le scarpe con tacchi così alti da soffrire di vertigini, abbiamo fatto un giro su piazza San Paolo suonando a tutti i campanelli che trovavamo e poi correvamo abbracciati, come adolescenti dopo la cena dell’ultimo giorno di scuola.

Ora scusatemi, devo andare a buttare acido solforico sulle rose di quella bacchettona della mia vicina.

(Illustrazione di Franco Blandino)

Di Rino Giachino su Margutte: Il mercato di Cunu