GABRIELLA MONGARDI.
Libro potente e scabro come l’argomento di cui parla, le montagne. Che non sono tre come vuole il titolo, ma una sola, con la maiuscola: la Montagna, la Montagna non come sfondo, non come paesaggio inerte in cui si muovono i personaggi, ma come Alterità, come Personaggio essa stessa, come Essere dotato di vita propria, incommensurabile e incomprensibile all’uomo. E non una “Montagna magica” alla Thomas Mann, ma una Montagna aspra e concreta, con i ghiacciai, le cornici di neve e i ponti di ghiaccio che potrebbero crollare da un momento all’altro, le “creste di sfasciume tra due cime”, le “pietraie instabili”, i “pendii di erba cervina scivolosa”, i “sentieri troppo esposti con la corda fissa ancorata male”: una Montagna che non è fatta per l’uomo…
Tre sono invece le storie che compongono questo libro: quella di un vecchio che tenta un’ultima scalata ma non si sa se ritorna (Svernamento); quella di due amici che si trovano e si perdono sui sentieri della Resistenza (Primo Appennino); quella di un figlio che ascolta le ultime parole del padre in un bosco senza tempo (Pace nel bosco), come recita il risvolto di copertina.
Delle tre storie, solo l’ultima ha la forma classica del racconto, un racconto in prima persona; la prima è un intarsio di testi e di voci, segnalato dall’alternanza di corsivo e tondo nel carattere tipografico; la seconda, come avverte il sottotitolo, è un Canovaccio di piazza, un testo in bilico tra epos e teatro, tra italiano, inglese e dialetto emiliano, tra oralità popolare e raffinata arte allusiva.
Ma non sono le storie in sé che contano, conta l’interazione tra dimensione narrativa, riflessione filosofica e atteggiamento scientifico. Perché l’autore è professore di Antropologia e Geografia all’Università di Palermo, ha studiato il paesaggio in letteratura (in particolare Campana, Biamonti e la Linea ligustica) e svolge ricerche sullo spazio percepito e vissuto in ambito europeo ed extraeuropeo. Ha formulato la Landscape Mind Theory, con cui sostiene che la mente dell’uomo è geneticamente e culturalmente paesaggistica, e ha proposto nuovi modelli interpretativi per l’arte paleolitica franco-cantabrica. La Wilderness, la città e il camminare sono al centro dei suoi saggi scientifici, ma evidentemente lo scienziato che è in lui ha bisogno anche di una scrittura diversa, che non solo argomenti, ma ‘metta in scena’ le idee: e questo lo può fare solo la narrativa.
Il talento specifico del narratore è infatti quello di ‘far vivere’ al lettore ciò che legge e in questo libro – come sottolinea la splendida postfazione di Gian Luca Picconi – Meschiari “ci dà, ci fa avere un paesaggio (un po’ nel senso in cui Calvino poteva dire: «avevo un paesaggio»)”; noi lettori camminiamo in quel paesaggio insieme ai personaggi, attraversiamo con loro il ghiacciaio, scaliamo la montagna, andiamo a caccia nel bosco; abitiamo un paesaggio descritto con la massima precisione scientifica (il lessico è specialistico, da geologo-geografo) e insieme trasfigurato dalla potenza metaforica-metonimica delle immagini (alcuni esempi: I continenti di cespugli diventarono arcipelaghi radi e il vecchio si incagliò all’inizio di una salita più dura, dove una frana aveva straccato rottami; Da prati e pietraie emergevano dorsi di balene, striati dai ramponi dei giganti bianchi, macchiati da madrepore di terraferma…). Noi lettori viviamo lo struggimento per la datità delle cose (La sensazione è appunto quella di struggimento, perché senti che di tutto ciò che vedi, degli spigoli, della polvere, della roccia, vorresti saperne di più, ma è ovvio che non c’è un di più da sapere, e tu resti lì fuori, e quella cosa ti esclude, si esclude nella vicinanza, tendendoti le dita ma negandoti il contatto) – e viviamo anche la fatica dello scrivere (Le parole e i nessi tra le parole andavano letteralmente cercati nell’aperto, la connessione tra le frasi erano subordinate e coordinate che nascevano da un sentiero tra i boschi o tra macchie diverse di paesaggio: poesia come residuo)…
Ma vorrei evitare di cadere nell’inadeguatezza del critico (definita il sovrapporsi di un discorso descrittivo sul tentativo muscolare della poesia), a cui vengono paragonate le voci importune di due alpinisti, nel silenzio di una caotica pietraia. Il mio “discorso descrittivo” perciò finisce qui, sulla soglia di un libro sicuramente “muscolare”, un libro di montagna, certo, ma anche filosofico: una profonda riflessione sull’uomo, sul senso dell’esistere e del morire, sul parlare e sul tacere, affidata al fascino di tre semplici storie, che ci prendono per mano e ci portano lontano, molto lontano, in un punto dello spaziotempo dove non avremmo mai creduto di poter arrivare.
(MATTEO MESCHIARI, Tre montagne, Fusta editore, Saluzzo 2015 – www.fustaeditore.it)
Margutte a ottobre 2013 aveva dedicato un’intera ‘pagina’ alla Montagna. Di seguito i link:
Franz Kafka, Prometeo
Attilio Ianniello, Un primo rifugio per gli alpinisti monregalesi
Gianni Bava, Cammina cammina
Laura Blengino, Sposa la Bisalta
Lorenzo Barberis, Colombatto e la Montagna Assoluta
Silvano Gregoli, Visioni lunari
Gabriella Mongardi, Barba Nadìn: 4 sonetti per 4 rifugi
Jolanda Moletta, Paolo Bessè Attimo limpido di infinito
Gabriele D’Annunzio, Alle Montagne