MICHELE GHIBAUDO
Perché il tre è il numero imperfetto
POESIA A TRE ricordi di Natale
Il Viale
Quell’ovale che sbuca da sotto sabbia, la luce gialla, la nebbia, sabbia, pare agata, terracotta raku, riflessi del latte, stras lucenti, stralucenti sulle guance e negli occhi. Il tutto negli occhi… m’imbavaglia nella profondità di un viale. Platani, alberi dei tulipani, quando guardo quel viso, la scia d’alberi prosegue negli occhi di quella donna, diviene soltanto più verde, agata, riflesso nel raku. Stras lucenti, stralucenti, che vedo il bianco ghiaccio indurito notturno come le guance a racchiudere gli occhi viali, in un due volte infinità di un mondo profondo, profondo, profondo, profondo, profondo, oltre la nuca, sabbia, la luce gialla, la nebbia, sabbia e nel ricordo, mi sembra ancora di camminarci inalando materia, luce, come pregare.
Il Tappeto
Rido, che sento grattare la pancia che mi solletica e rido di ridolini vergognoso, che insistono con vocii sottili, tagliati quasi a fili, sottili, sottili, sottili, sottili, sottili, e le risate sul tappeto dodger e porpora e senape, solleticante da fa ridere sottile, sottile, vergognosi, pochetto, nell’angolino, con la mano grande che gratta la pancia e poi a lavarsi tutti le mani piccole, piccolette, medie, medio grandi e poi quelle grandi sotto l’acqua calda, come un tappeto di lana si arrotola e pervade e sale, scende e scalda tiepido il nostro lavare, acqua, tiepido, tappeto, mano, non smettere, fili di luce, come pregare.
Le Lenzuola
Insisto ad aver ricordi impetuosi che strappano l’ego e vi si crogiolano come panni stesi al sole ma io voglio i panni raggelati, lenzuola dimenticate prima di una nevicata, dure che sembrano icebergs galleggianti nel liquido, netti duri, che sono, senza brandelli, che sono interi, stop, sono, lenti, galleggiano, voglio quelli, di freddo, di quando corri con la neve nel naso e vai senza sapere che la neve è sole, che sei sole … e passi scostando in morbidezze piccole, piccole, piccole, piccole, piccole. Il sole non strappa, destina, non è impeto è lentezza, duro come ghiaccio, è chi ti scrive di essere commosso quanto te, una mancanza lancinante … vedi, non si può … uno strappo di luce, come pregare.
POESIA A TRE tre odori
odore 1
Pian ta to chiodo, inserito fosso, profondo, su, storto, fin dentro, verso l’occhio, a far piangere, caruncola lacrimale, ortica fuori veloce e poi rovo tirato via come dai campi dalle radici arcigne tra i lamponi marci che giacciono a terra misti fanghiglia e tarassaco calpestato, sulle mani nere portate al viso ad asciugare fatica dietro al portone del fienile.
odore 2
Prima primula strofinata alla parete del lavabo bagnato, caldo, sapone di Marsiglia, grosso dado cotto al sole, crepato di calura, lucertola senza coda, prugna nettare resinoso, di vespe ingorde di dolce z zza, rose bagnate a pioggia al primo caldo a fianco a casa, così bagnato bimbo da un grande sole.
odore 3
Umido cassetto, cipria rosa, verde la luce, umido fresco, persiane accostate, acqua di colonia, bergamotto, alcool, muffa, muro fiorito, umido cassetto di fotografie straripante, polvere sui lampadari con i diamanti, stoffe fiorite, libro che sa di carta del bimbo e gli animali del buio, ruvidi copriletto inumiditi, centrini stropicciati sotto alle cornici, vernice lucida, polvere, vernice lucida riflette la luce lunga dalle persiane accostate, tendine ricamate umide pregne, pregne di silenziooo antico, su cui danzano all’infinitooo bimbi di luce.
POESIA A TRE davanzale tavolo tazza
Il davanzale
Appoggiando le braccia ad un sospiro nel vetro tramuto in vetro e mi vedo attraverso le perplessità … riflessi di un fiume di vetro che sono io, sento fermo, davanti ad un vetro, corso d’acqua vitreo che attraversa i noci, la meliga, le perplessità … i pensieri di De La Fontaine, le giacche a sventolare di città vecchia, le cascine nel quadro sul muro in corso Nizza, tuffi nella terra friabile fin sotto alle cantine odorose di muffa e grandi risalite fin sopra la grossa sequoia in via delle Acque, l’acque scorrono da sopra la mia testa, Fontaine de Vancluse, fino al rivo che ritorna vitreo, che sono io, ritornano perplessità e riflessi di vita asciugata al sole o per aridità di chi non conosce l’umido dell’umanità, non l’ha mai conosciuto e mai lo conoscerà e ha bruciato anche le prime radici di un puro vecchio bosco di persone, una famiglia e mi siedo a bere qualcosa che mi scorra dentro, a bagnarmi di vita sin dentro la mia poltrona che sa di camino.
Il tavolo
Ribolle, ribolle, ribolle, ribolle, la cucina è come noi, il profumo dell’attesa si mescola a quello che nell’attesa ci beviamo, ribolle sul fuoco quello che siamo stati, scende nella gola ciò che siamo.
La tazza
È entrato per rasserenare (e vedo colorarsi il muro del tuo passaggio, il riflesso è come stordito in quest’immensità tra quattro mura ma poi ci incontra), (dai riflessi accecanti, di parole al vento) (perdute nei suoi perché). Un’ultima tazza di vino e il riflesso di un’ultima auto mi taglia gli occhi, mi ricorda che ora sei lì … soltanto più in tutti i riflessi.
Michele Ghibaudo dovrebbe essere nato a Cuneo. Sono della sua leva Ernestino il tutto fare della parrocchia di Valdobbiadene e Pietro l’ abusivo. Una volta gli hanno chiesto se il nome fosse Ghibaudo o Michele, da lì ha iniziato a chiedersi se il nome del pesce rosso fosse rosso oppure pesce, o se l’ erba si chiamasse erba perché è verde o perché è erba, o il perché i colori non fossero profumi ed alcune altre domande di questo tipo, ormai fondamentali per Michele (non lo avessero mai incontrato …) È stato a Noli e gli è piaciuta molto, l’ altra settimana voleva andare a visitare il Presepe di Pianfei ma non ci è riuscito perché ha dovuto spostare dei mobili. Ha fatto diverse decine di altre cose ma qui non c’è lo spazio. L’autostrada gli fa venire l’ansia, come l’aereo e alcune altre cose. Si vergogna a farsi vedere piangere e quindi piange di vergogna e diventa un circolo. Crede nella natura. Gli piace esplorare la polvere, la luce, i profumi ecc … Pensa che non si debba pagare per scrivere, come pensa che il tabaccaio non debba pagare per parlare con un suo affezionato cliente di quanto siano carnosi i pomodori quest’anno, o di come sia bello alzarsi con la luce. Pensa che qualcun altro ce la faccia già pagare abbastanza nella vita (non soldi). Pensa che la matematica sbagli spesso. Pensa che poter scrivere anche la parola CANE (che meraviglia) sia un dono, come poter parlare dei pomodori o della luce. Pensa che sia un dono riuscire a pagare, anche su una gamba sola, ciò che ti vogliono far pagare. Pensa che gli uomini neri esistano ma che anche loro abbiano paura di qualcosa, magari delle donne bianchetto. Gli piace molto mangiare e andare per funghi e poi mangiarli, ed alcune altre cose. Crede che scrivere possa far anche male, come altre cose, ma crede che poi ci sia il bene a fare bene. Ha scritto centinaia di poesie (volevo scrivere milioni), un racconto arrivato circa trecentosettantesimo su quattrocentottantatacinque e altre cose. Sta scrivendo il suo ultimo romanzo anche se è il primo, ora pubblica su Margutte, sperando che non si accorgano ancora per un po’ di com’è realmente. Spera sempre in qualcosa, fino ad ora (poi troverà qualcos’altro).
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