GABRIELLA MONGARDI.
Per fortuna il volume La fin dël mond (La fine del mondo), Premio di poesia “Giovanni Pascoli” 2013, non ha segnato la fine della poesia di Remigio Bertolino.
A dicembre 2015, per l’editore Aragno, è uscita una nuova, intensissima raccolta, Litre d’ënvern (Lettere d’inverno), costituita da sette sezioni tematiche: Anni di apprendistato, Segnavento, Il profeta, Cin, Il chierico, Lettere d’inverno, La guerra del sale, ciascuna delle quali è autonoma e conclusa in se stessa – a costituire quasi un poemetto – e insieme legata alle altre da una fitta rete di rimandi interni – echi, riprese, anticipazioni che creano una architettura nitida e delicata, salda e leggera, elegantissima. Non ci troviamo cioè di fronte a delle “rime sparse”, disposte in ordine semplicemente cronologico (anzi, la sezione che chiude il libro risale al 2010, mentre quella di apertura è stata l’ultima ad essere composta, nel 2014), ma a un “canzoniere” vero e proprio, quasi un unitario “poema lirico” alla maniera di Federico Garcia Lorca.
Dal punto di vista tematico e formale le sezioni si possono suddividere in due gruppi: la prima e la penultima sono quelle in cui parla direttamente l’io lirico; nelle altre invece il poeta cede la parola a personaggi di quel “mondo dei vinti” in cui affondano le sue radici, risalendo addirittura agli anni della Guerra del sale (1680-1699) e si nasconde (o piuttosto si manifesta) nel timbro e nel flusso inconfondibile delle sue immagini-emblemi – la neve in primo luogo, poi le stelle, il cielo, le montagne, il fuoco, la notte, gli alberi… Immagini che si danno la mano da un testo all’altro, come danzando una catena inglese; immagini che circolano come una corrente vitale e unificante in tutte le sezioni del libro, ricombinando in modi sempre diversi le parole-chiave, in un regime analogico ardito, originalissimo, ma mai barocco o artificioso, perché incardinato alla naturalezza del rapporto metro-sintassi, a una sostanziale coincidenza tra pause metriche e sintattiche (rarissimi gli enjambement, e perciò tanto più espressivi).
Alcuni esempi in traduzione italiana, per comodità e di comprensione e di scrittura: conigli d’ombre; slavine di ricordi; Medaglia del Papa, il sole, / ostia sulla lingua bianca / dei monti; Sta appeso / come un pipistrello bianco / il silenzio / agli archi dei portici. Che si tratti di metafore o similitudini, di sinestesie o personificazioni, il risultato è un’espressione potente e piana, che trasfigura in emblema le ‘cose’ più umili, attraverso un processo di astrazione e rastremazione della realtà che ne coglie l’essenza profonda aderendovi empaticamente, ma da lontano: non a caso, uno dei motivi della sezione proemiale è quello dell’amor de leugn; e l’inverno stesso del titolo, con il suo gelo, è metafora della distanza, del distacco necessari alla creazione artistica.
La lontananza qui è innanzitutto temporale, del tempo sia biografico che storico: tutto il discorso poetico è filtrato dalla memoria, individuale o storica. Ma è una memoria assoluta, imperiosa, che impone il suo tempo come attuale: e infatti il tempo verbale dominante nelle liriche è il presente, gli indicatori temporali sono quelli del presente: ora, oggi, stamattina. Solo così il poeta può testimoniare la sua adesione al tempo perduto e salvarlo, recuperarlo con la sua pietas – non importa che si tratti dei suoi goethiani “anni di apprendistato”, delle microstorie ‘recenti’ di personaggi come Cin o il Profeta o il Chierico, o degli anni remoti di una guerra inutile e feroce, come tutte le guerre: la poesia si immerge nella storia e nella geografia dei luoghi e ridà voce alle voci rimaste lì impigliate. Come suggerisce Patrick Modiano in L’orizzonte: «E se tutte quelle parole restassero sospese nell’aria fino alla fine dei tempi e bastasse un po’ di silenzio e di attenzione per captarne l’eco?». Per fare questo, per captare le parole tormentose sospese nell’aria natia, il poeta ha bisogno di una distanza anche spaziale, di un lassù mitico contrapposto al “quaggiù” della scrittura, ma soprattutto ha bisogno che sulle sue parole soffi il vento, le scrolli, le torca come i rami ghiacciati nella notte…
Come quelle di Emily Dickinson, le poesie di Bertolino sono una “lettera al mondo” scritta con fatica e con forza, la forza graffiante del vento invernale, in una lingua aspra e terragna come il dialetto montaldese (vera “lingua materna” dell’autore) – una lingua che, grazie alla magia dell’inverno e a un altissimo ‘esercizio di scrittura’ all’insegna della levità e della bellezza, diventa un favo di miele nelle orecchie, dove i grovigli neri / sul foglio, / dentro l’anima, si dissolvono in lettere di luce / alle notti d’inverno.
REMIGIO BERTOLINO, Litre d’ënvern (Lettere d’inverno), Nino Aragno editore, Torino 2015.
QUI una delle liriche comprese nella raccolta