Il gazzettiere della Pravaterra

Balbis

FRANCA ALAIMO

Giannino Balbis ha abituato i suoi lettori ad una scrittura ipercolta, raffinata  e, tuttavia, cristallina nei suoi esiti formali (qualità assai rara nella poesia contemporanea, che sembra compiacersi di oscurità e capziosità spesso gratuite). Se, dunque, una sola lettura sarà sufficiente a cogliere contenuti e affezioni dei testi raccolti nella silloge Il gazzettiere della Pravaterra,  soltanto un’ulteriore indagine ed un’analisi attenta  della sapiente orchestrazione degli strumenti retorici  e della qualità lessicale potranno svelarne i tanti echi letterari e significati simbolici che ne costituiscono la tessitura più intima.

Balbis non lascia mai nulla al caso; e, perciò, bisognerà domandarsi subito il senso di un titolo i cui termini, “gazzettiere” e “pravaterra”, attingono al passato.  Il primo, ormai in disuso,  più che un significato dispregiativo, come viene suggerito da diversi dizionari di lingua italiana, in questo caso sembra ammantarsi di una sfumatura malinconica  e luttuosa (che, comunque, si potrà cogliere bene solo dopo avere letto la silloge); il secondo fa venire in mente una tremenda profezia  di sventura e morte per gli abitanti della Marca Trevigiana (“la prava terra”) pronunciata  da Cunizza da Romano, figlia del tiranno Ezzelino, nel canto nono del Paradiso dantesco. Quest’ultima suggestione sembra confermata dall’immagine di copertina: un particolare (codice medioevale) degli affreschi quattrocenteschi della chiesa di San Nicolò di Bardineto, località di nascita dell’autore: quella che ha visto nascere e morire i suoi affetti più cari e che da tempo ha smarrito la sua felice cultura contadina.

Questa Pravaterra, insieme ai contenuti della silloge, è già del tutto delineata a partire dai “Trafiletti”. A questo punto, però,  prima di proseguire,  è necessario sottolineare che la silloge è strutturata (per necessaria e voluta coerenza con il titolo) come un giornale, a cui rimandano le varie sezioni: “Trafiletti”, come s’è già ricordato, “Servizio”, “Reportage”, “Inchiesta”, “Interviste”, “Editoriale”, “Corsivi”, “Elzeviri”, “In memoria di”, “Appendice”.

Nella prima sezione si leggono quattro distici i cui temi sono: la desolazione della morte (resa attraverso uno spoglio e gelido paesaggio invernale che allude a quello psichico dell’autore);  il disincanto profondo nei confronti del futuro (“Terra a rovai, terra che mai/ più gemmerà. Vento che va”); la funzione della poesia come canto che custodisce i “racconti brevi” e i “tramonti”  dei molti personaggi,  testimoni di un’epoca e di una civiltà ormai in declino,  e che Balbis  ritrae  con  tratti  veritieri e sensibili.

Tutta questa materia, velocemente annunciata in questa sezione iniziale, si dispiega e dispone, sempre governata da un intenso gusto musicale e da un aristocratico senso della bellezza, secondo una composita e complessa strategia verbale che, all’interno di versi di classica misura, si impreziosisce di rime, assonanze, consonanze e di molte figure retoriche, tra le quali appaiono particolarmente privilegiate quelle relative al suono. A quest’ultimo Balbis  sembra volere affidare il compito di veicolare sentimenti e stati d’animo alla ricerca di quella coincidenza  significante-significato che è l’aspirazione più segreta di ogni autentica poesia.

L’analisi del primo dei due testi (“Neve”) che compongono la sezione “Servizio” potrebbe costituire un valido esempio. Alla prima strofa in cui prevalgono le ripetizioni dei suoni palatali e velari della “c” e della “g” per descrivere un paesaggio montano  con una dolcezza descrittiva  – appena velata da una  “grigia nuvolaglia”-   che culmina nella bellissima e quasi sacrale immagine della neve discesa ad “impartire dell’invernale quiete il sacramento”,  si contrappone la seconda in cui la dura sonorità dei “gorghi” delle “fratte secche”, dei “ ginepri umiliati nel castigo/dell’altezza”  prepara l’ingresso della lupa, annunciatrice di vendetta.  La prevalenza simbolica del  suono della “u” nella seconda strofa  (acuta, umiliati, lupa, fumi, annusare, ululare) richiama alla mente l’affascinante teoria espressa da Jünger sui suoni vocalici, seconda la quale “nella u si incontrano i misteri della generazione e della morte; essa sta al di sotto del mondo colorato e molteplice. Il suo segno abbraccia le profondità…” Nel secondo testo della sezione quell’ululo diventa la voce offesa e dolente dell’uomo spogliato dei suoi affetti più cari, delle “…antiche /speranze risospinte/ negli aridi sepolcri”.

Di fatto tutte le poesie di questa silloge parlano “dei misteri della generazione e della morte”. Una poesia come “Le ragazze e l’asino”, affollata di creature animali e vegetali, i cui  significati simbolici alludono, da una parte, alla femminilità ed alla gravidanza (tigli e sambuchi) e dall’altra alla sventura (gazze e ortiche: quest’ultime, secondo una diceria popolare, crescevano sul sangue dei morti), ne è una perfetta dimostrazione. Le ragazze senza figli che cantano all’aria appaiono ignare tanto del sesso quanto della morte. Il gemito del ciuco (e il ciuco è senz’altro ciascun uomo) che chiude la poesia è, invece, testimonianza dello scontentezza e dell’amarezza che assalgono chi ha già sperimentato la vita come un accumulo di “fatiche amare”.

Ma quella rima tra “ignare” detto delle fanciulle e l’aggettivo “amare” è  più di un legame sonoro, in quanto rappresenta  le condizioni  opposte dell’adolescenza e della vecchiezza: da una parte l’ignoranza del dolore e dall’altra la sua consapevolezza amarissima. Ita docet  il caro Leopardi, cantore per eccellenza delle beatitudini dell’adolescenza e della loro caduta “all’apparir del vero”. Ma il sapore misterioso, l’allusione erotica dei versi ricordano due testi del Pascoli:  “Digitale purpurea”  in cui due fanciulle , dialogando, alludono al sesso; e “Il gelsomino notturno”, i cui petali sgualciti all’alba ricordano i fiori, pur essi bianchi, del tiglio che si orlano di nero in questa poesia di Balbis.

La poesia pascoliana è un riferimento costante nella poesia di Balbis, sia per l’attenzione al mondo agreste, sia per il ricorso ad una nomenclatura sistematica di piante ed animali che sembrano quasi fotografare un ambiente reale, sia per il messaggio di solidarietà fraterna, che è così affermato in “Ubi sunt?”:  “E resistere al dolore, / confratelli federati”. E, come il Pascoli,  Balbis dimostra una particolare attenzione nei confronti degli umili, che sono i protagonisti della sezione  “Reportage”:  Silvestro, Papilio, Ghita, Leonzio, l’eremita sono persone offese dalla stanchezza, dai ricordi,  torturate dalla “rabbia degli inutili perché”, sconvolte dai mutamenti della storia; afflitte dalla solitudine non voluta, oppure scelta, come fa l’eremita,  perché “rende la fine/ leggera leggera: padrone/ di quello che devi lasciare…”.

Al mistero della generazione e della morte appartiene anche il tema del silenzio, che non è, per lo più, quello contemplativo, in quanto esso non si colloca all’interno di un rapporto sacro con l’Assoluto ( con il quale spesso intercorre un dialogo tra risentito e sconfortato ), ma piuttosto rappresenta la cessazione di quei suoni che fa la vita attraverso le molteplici voci delle sue creature: ululi, sibili, sbotti e riborbotti, pianto, canti, gemiti, risa, richiami, fruscii, parole. È il silenzio del nulla, quello in cui le voci dei propri cari  zittiscono, e solo, di tanto in tanto,  per un’illusione del cuore, “flebili, leggere/ come l’odor dei colchici”, “e brevi”  tornano alla memoria, come si legge in “Voci”, uno dei testi più delicatamente “cantanti” della silloge, che richiama una poesia di Antonia Pozzi: “Tristezza dei colchici”, nella quale pure figurano questi fiori anche qui alludenti  con il loro “smunto sorriso” al loro prossimo finire travolti dai “ricci duri” che piombano giù dai castagni.

E, tuttavia, il tema del silenzio si allarga ad altre significazioni in poesie quali: “Silenzio-parola”, e “Il silenzio di Dio”,  in cui l’impotenza della parola di fronte alla morte, la sua energia oscurata, si caricano di riflessioni metapoetiche  che  si intrecciano – in nome del rapporto tra Verbum divino e verbo umano -  con altre di natura metafisica. Il silenzio di Dio, che si fa materia, nientemeno, che dell’Editoriale,  è inquietante, corrosivo, e addirittura  sembra ipotizzare una divinità indifferente, remota che abbandona l’umanità al nulla. Così la fragilità della parola e il mutismo di Dio annullano allo stesso tempo le illusioni dell’eternità e della gloria. Umilmente Balbis si interroga sulla sorte della sua stessa poesia, non senza lanciare i suoi strali ironici contro le case editrici dell’Einaudi (Bianca) e della Mondadori (Specchio),  concludendo che, quando scrive i suoi versi, gli “piace pensarli in silenzio/ nel cuore d’un amico perfetto”.

Ma sono l’ultima sezione “In memoria di” e l’ “Appendice” a costituire il nucleo più intensamente emotivo di questa silloge. Il clima di morte e desolazione dei testi precedenti, le domande, i dubbi, gli sconforti, che agitano l’autore,  sono stati fin qui tenuti a freno da un ragionare  estetico-filosofico, da una scrittura ampiamente suggestionata da un notevole background culturale, e, talvolta, da un agro accento ironico. Adesso,  a contatto con la materia incandescente dei propri recenti lutti, Giannino Balbis  a stento trattiene la commozione attraverso la rete delle belle immagini e dei bei suoni, specialmente quando rievoca la sorella Elda, alla quale dedica un poemetto che ne canta la soavità e la bontà del temperamento,  i gesti affettuosi e materni, l’angelica bellezza, la capacità di gioire “d’ogni briciola-tepore”, “d’inverdire / i bronchi più nodosi, / le fronde fosche e tossiche più amare”. Solo con lei, sia pure “senza voce” il poeta intreccia “ininterrottamente” un dialogo e, talvolta, avverte la sua presenza rasserenante. Altro carissimo morto è Stefano, il cui trapasso è confortato dall’abbraccio della madre che lo porta con sé nel suo cielo, “in fondo, laggiù”,  smentendo la frattura fra l’uomo ed il regno divino, fra la vita e la morte.  Infatti, il messaggio che Balbis consegna alla piccola Agata in “Appendice”  è che i morti “ancora ritornano…/ e vivono…e ci amano ancora”,  e che, soprattutto, la vita va consegnata con fiducia al tempo terreno ed all’amore. In tal modo il testo finale riaccende una speranza e mitiga il dolore senza sosta fiottante dai testi precedenti.

Giannino Balbis, Il Gazzettiere della Pravaterra, Aracne editrice, Roma, 2015

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