Ventitreesima puntata - Ma Mossul non è un posto per frati
FRANCESCO PICCO
Bagdad fu come sempre la causa di tutto. Sua Beatitudine il patriarca nestoriano di Mossul, dove frate Vittorio Amedeo e frate Giovanni Battista erano giunti da appena un mese, aveva inviato a Bagdad un suo giovanissimo nipote perché facesse la propria professione di fede cattolica nelle mani di Sua Eminenza Reverendissima monsignor Baillet, console di Francia e Navarra nonché medico personale del Pascià di Mesopotamia. Il ragazzo andò, professò, e tornò a Mossul sorridente. Il patriarca nestoriano diede una festa per l’avvenimento, una sobria festa da dhimmi, e invitò a questa onesta festa religiosa tutti i cristiani della città. Frate Vittorio non voleva andarci, qualcosa nel suo animo presagiva inquietudine e angoscia; ma frate Giovanni Battista non volle saperne di astenersi dal partecipare, convinto – e come dargli torto? – che in partibus infidelium fosse dovere dei cristiani d’ogni confessione condividere le gioie e le sofferenze dei fratelli.
Come spesso accade, invece, i cristiani si dimostrarono pronti a dividersi fra loro, dando scandalo di sé ai musulmani e agli ebrei, non meno che ai sabei e agli yazidi adoratori di Satana. E colui che diede avvio alle divisioni, in quel caso, fu proprio frate Giovanni Battista. Trovandosi a discutere con il patriarca, aveva buttato lì quasi come un’osservazione superficiale, detta en passant e senza alcuna importanza, che le modalità con cui la professione di fede era stata fatta dal nipote gli parevano contrarie al diritto canonico e perciò, sostanzialmente, non valide. Sua Beatitudine non la prese invece come un’osservazione superficiale, anzi: e inarcando le sopracciglia si allontanò cercando un frate domenicano con cui lamentarsi. Il patriarca sapeva che la sua ricerca non sarebbe stata delusa, perché Gesù nel Vangelo dice “cercate e troverete”: e lui cercò e trovò senza troppa difficoltà frate Garzoni, anche lui domenicano, presente anche lui alla festa. Questi prese le parti del patriarca, criticando aspramente in francese – ma sottovoce, senza farsi sentire – il proprio confratello piemontese verso cui aveva da subito nutrito una cattolica, fratesca, italianissima antipatia. La festa durò tutta la sera, fino a un’ora onesta, né vennero mai meno i sorrisi e i convenevoli su cui aleggiavano le delicate armonie vocaliche della lingua francese; ma in disparte, in aramaico gli uni, in toscano gli altri, si andavano intrecciando quei discorsi carichi d’odio e di strisciante insofferenza così comuni fra i cristiani di ogni denominazione e così scandalosi per gli altri, che cristiani non sono.
Nondimeno, oportet ut scandala eveniant: così disse Nostro Signore, e anche in quel frangente mesopotamico puntualmente avvenne così. Ma non subito, naturalmente, perché nessuno più dei religiosi cattolici sa che la vendetta va assaporata sempre e solo come un piatto freddo. Così frate Giovanni Battista e il suo alter ego frate Vittorio Amedeo non sospettarono nulla quando al convento si presentò una giovane donna nestoriana dall’aspetto molto compunto e dimesso, con il viso coperto da un velo che le lasciava liberi solo gli occhi, limpidi azzurri e vivaci come un lago alpino. La donna –accompagnata da un’ancella giovanissima – si avvicinò ai due frati quasi di soppiatto, al termine della Messa; e volle parlare loro in disparte, nella penombra della cappella laterale dedicata a San Pietro. Disse di essere la figlia di un abitante cristiano della città e di avere bisogno di un favore molto particolare, che solo due medici occidentali sarebbero stati in grado di concederle. Per questo aveva scelto di parlare con entrambi, insieme, perché nessuno avesse dubbi su quale fosse stata la sua condotta…
Tutto il discorso parve strano a frate Vittorio Amedeo, ma non se ne stupì troppo perché la donna parlava arabo e l’arabo, lui, non lo conosceva bene come il suo confratello. Il quale invece annuiva, sorrideva, confermava, facendo roteare i suoi occhi di fuoco. L’unica cosa che frate Vittorio capì, in realtà, non gli piacque per niente. La donna, proseguendo,spiegò che in realtà non veniva per sé, ma era per così dire in avanscoperta: sondava il terreno, insomma, per conto della sua padrona – della quale non fece capire nulla di particolare, se non che era molto, ma molto ricca; che era cristiana nestoriana; e che aveva un padre molto severo a cui voleva evitare uno scandalo. Un’ultima cosa frate Vittorio comprese distintamente: ed era che la donna aveva bisogno di un tabibmasihi, di un medico cristiano. Frate Giovanni Battista rispose che se le cose stavano così, non c’era problema: i medici erano addirittura due, entrambi a disposizione della sua padrona. Ed erano entrambi molto cristiani, così cristiani da essere addirittura frati.
Per la prima volta da quando era iniziata questa sua assurda avventura con Giovanni Battista Boetti, frate Vittorio Amedeo sentì qualcosa rompersi dentro di sé. Uscì dalla chiesa senza salutare per non dire, davanti al Santissimo, cose contrarie ai doveri di un frate. Perché mai doveva decidere sempre tutto lui, quel monferrino maledetto? Chi gli dava il diritto di parlare per gli altri? I medici sono due. E chi l’ha detto? Parli per sé, quel pezzente casalese che ha più vite di uno zingaro…
Uscito dalla chiesa, Vittorio Amedeo imboccò a passi decisi il chiostro.
Arrêtez, abouna.
Vittorio Amedeo trasalì. Chi aveva parlato in francese, nella penombra degli archi moreschi? E da dove veniva, quella voce di donna?
(Continua)
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Illustrazione di Franco Blandino