SILVIA PAPI
Emil Nolde ha cantato la natura coi colori magnifici della sua tavolozza. L’ha resa splendente, fantastica, gioiosa e stupefacente. Figlio di contadini, nacque nel 1867 nell’omonimo villaggio tedesco presso Tondern, vicino al confine con la Danimarca. Il suo vero nome era Emil Hansen ma, a partire dal 1902, si fece chiamare come il paese natale, per sottolineare il legame con la sua terra.
Appartiene alla generazione di Toulouse-Lautrec, Edvard Munch e Jawlensky (del quale divenne amico), di Kandinskij, Bonnard e Matisse ma, fino al momento in cui lasciò la scuola per iniziare l’apprendistato come intagliatore del legno a Flensburg, non era mai andato oltre l’ambito ristretto del suo villaggio. Furono quindi i comportamenti e gli orizzonti mentali di un gruppo sociale strutturato in maniera prettamente rurale e intatta a segnare la sua formazione. «Guardandomi indietro, gli anni dell’infanzia trascorsa nel mio villaggio natale mi stanno davanti come un soleggiato mattino di primavera. (…) Nella casa dei miei genitori regnava la pace, molta bellezza e una certa religiosità».
Cresciuto in mezzo alla campagna si sentiva come fiore o albero che si nutre e vive della terra su cui vive:«vedevo il cielo e le grandi nuvole e quelli erano i miei amici (…) facevo un buco profondo e stretto nella terra e mi distendevo dentro a sognare, nel vago desiderio che tutto il nostro mondo meraviglioso fosse la mia innamorata» . Passati i trent’anni, tornando nei luoghi dove era nato, ebbe una gran quantità di visioni immaginarie: «da qualsiasi parte mi girassi la natura, il cielo, le nuvole erano vivi. In ogni sasso, nei rami di ogni albero, dappertutto, le figure delle mie visioni si alzavano e vivevano la loro vita, restando immobili o agitandosi selvagge. E mi entusiasmavano, ma allo stesso tempo mi tormentavano perché mi chiedevano con insistenza di dipingerle».
Emil Nolde divenne uno degli artisti maggiormente considerati e popolari del ‘900. Appartiene alla stirpe dei pittori inquieti, che convivono con la propria fatica quotidiana, per sondare dentro di sé le profonde ragioni dell’essere, il senso caparbio di una ricerca senza approdi rassicuranti che coincide con la ragione stessa della vita. Ciò nonostante quello che Nolde ci ha mostrato e ci mostra non supera mai la soglia della comunicazione immediata, non impedisce mai che il rapporto tra immagine e realtà possa essere ristabilito, compreso e valorizzato.
La sua vita fu segnata da avvenimenti fondamentali quali, come si è detto, il legame con la terra di origine, l’idiosincrasia per la vita di città (Berlino in particolar modo), un viaggio nei Mari del Sud e un controverso rapporto con l’ideologia del Terzo Reich, ma la sua pittura non devierà mai dal solco primigenio che la determinò per diventare accondiscendente veicolo di propaganda. Rimase sempre testimonianza di antichi affetti, intensa nostalgia per una natura originaria e incontaminata, crescente percezione di elementi mistici e visionari legati alla cultura nordica.
Le sue opere – come quelle di molti altri artisti – furono dichiarate dal regime nazista “arte degenerata”, ne furono impedite le mostre, i quadri furono tolti dai musei e gli fu impedito di dipingere. Molti artisti scapparono dalla Germania, Nolde invece si ritirò nella casa che aveva acquistato vicino al suo luogo d’origine e lì rimase, anche dopo la fine della guerra, per il resto della sua vita. Non obbedì alla proibizione nazista e di nascosto in quegli anni dipinse piccoli acquarelli che chiamò “quadri non dipinti”.
Fuori dalla sua casa aveva creato un giardino e in quel giardino (ancora esistente e visitabile) fu sepolto nel 1956 accanto ad Ada, la compagna della sua vita.
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