LORENZO BARBERIS.
(In una Mondovì alternativa, il 15 agosto 2013…)
“Che bello, zio, andiamo a vedere il Mostro di Ceramica!”
Sbuffai. Non so come, mia sorella era riuscita a mollarmi per Ferragosto quella piccola peste di suo figlio, un bambino di dieci anni con problemi di iperattività, che ora saltava allegramente sul sedile anteriore della mia Cinquecento.
“Sta buono, Timmy. Intanto non è un Mostro, ma una Mostra. E poi, in teoria, si chiama Mostra dell’Artigianato, anche se in effetti ha ottenuto la certificazione di mostra regionale della ceramica…
ma non so perché spiego queste cose a un bambino come te.”
“Allora è la mamma del mostro.” annuì convinto il piccolo Timmy. E passò i restanti minuti a simulare un combattimento con la sposa di Frankenstein, o qualcosa del genere.
Non ero mai stato così felice di arrivare a Piazza.
La mostra, ovviamente, non era questo granché.
Mi domandavo perché si ostinassero a farla. Pochi turisti, qualche svogliato residente che, come me, ci veniva solo per il piacere di criticarla.
Timmy invece era ancora pervaso da quell’eccessivo entusiasmo infantile che lo prendeva… beh, per tutto, se non prendeva le sue medicine. Il suo modo di procedere era il solito: si faceva le domande, e si dava le risposte. E mescolava costantemente la realtà con la fantasia.
Peccato, perché se non fosse stato per quello, avrebbe potuto almeno essere un bambino intelligente.
Le sue cognizioni erano superiori a quelle di un bambino delle elementari, o almeno così mi sembrava.
Del resto, non è che Timmy avesse molti amici, e passava il tempo in casa a leggere i libri sui dinosauri, o tutto quel che gli capitava a tiro. Specialmente i libri che i suoi genitori cercavano di nascondergli, ovviamente.
“Zio, zio, lo sai quando è stata creata la Mostra? Nel 1966!”
“Veramente era il 1967.” Lo corressi.
“No, no, quello è quando hanno fatto la mostra, ma l’idea è venuta l’anno prima! L’anno di Satana!”
“Non avrai mica di nuovo letto i libri del bisnonno?” chiesi in tono severo.
Mio nonno Mercurio – ma che razza di nome davano, a quei tempi? – era un tipo strano, e in cantina
conservavamo una sua vecchia collezione di libri di magia nera, o roba simile.
Dovevamo deciderci a liberarci di quei vecchi tomi, ma mia sorella Olimpia sosteneva che forse potevano valere qualcosa. Io ne dubitavo, ma in fondo, finché se li teneva in casa lei…
“No, no, sono i cartoni animati giapponesi!” rispose Timmy, iniziando subito a simulare, credo, la trasmutazione di Dragonball in un demone dell’oltremondo.
Intanto, eravamo arrivati sulla Piazza Maggiore, dove di solito c’era qualcosa di decente da vedere tra le mostre pagate dal comune. Incisioni lugubri, mortifere fotografie in bianco e nero, sculture di alieni inquietanti alle cantine napoleoniche… una mostra di ceramica: “I Guerrieri”.
“I Guerrieri! I Guerrieri! Dobbiamo andare a vedere i guerrieri!” Esplose Timmy, inevitabilmente. “Mah, sì, credo che sia il menopeggio.” Dissi sbirciando l’orologio. Un rapido giro a vedere un po’ di statuette in raku, almeno così sembrava dal manifesto, e poi avrei potuto riportare Timmy da Olimpia.
Le ceramiche si trovavano al piano inferiore dell’Antico Palazzo di Città, dove c’era la sala per le esposizioni di scultura. “Una volta, da questo palazzo governavano la città, lo sai?” Dissi a Timmy, cercando di rendere la sua giornata proficua. In teoria, era per questo che ogni tanto Olimpia me lo rifilava, anche se in verità sospettavo fosse più che altro per farsi un aperitivo con le sue amiche snob.
“Sì, sì! Come in alto, così in basso!” si infervorò Timmy. “Ci sono questi alieni, che hanno invaso la terra milioni e milioni di anni fa, e si sono nascosti sottoterra, per controllarci meglio! E poi ogni tanto fanno uscire uno dei loro mostri per tentare di ucciderci!”
“Non sapevo trasmettessero ancora Mazinga Z.” sorrisi tra me. Mi divertivo sempre a identificare le
fonti degli sproloqui del piccolo Timmy, quando risalivano a riferimenti culturali che conoscevo.
La mia citazione anni ’70, purtroppo, diede il via a una serie di battaglie immaginarie ad opera di pugni rotanti. Forse portare la peste in una mostra di ceramica non era stata l’idea più vincente, ma per fortuna le opere erano imprigionate in grandi cubi di metallo. Alcune rappresentavano appunto dei guerrieri, altre raffiguravano delle singole armi o delle componenti dell’armatura.
“Vedi, i cubi di ferro sono magici, perché il ferro blocca gli spiriti maligni, e così il mostro non può ricomporsi!
Se no questo pezzo va qui, quello si collega lì, e si forma l’armatura e poi prende la spada e poi BLAM, ZAM, AAARGH!” Mi spiegava il piccolo Timmy. Annuivo con la pazienza di Giobbe. La mostra era quasi finita.
“No, andiamo sotto, zio! C’è un altro pezzo della mostra, sotto! Andiamo, andiamo, dobbiamo andarci!”
In effetti Timmy stava indicando una porta che non avevo mai notato.
“Ceramiche di Aroldo “Harry” Coppola – Asti” recitava la scritta.
E più sotto: “L’Alchimista dei Colori”.
Mi strinsi nelle spalle. Una sala in più o in meno non faceva grande differenza.
Una scala scendeva di parecchi metri nelle fondamenta del palazzo.
“Figo, hanno restaurato i sotterranei del palazzo”. osservai.
I pezzi erano simili a quelli esposti al piano di sopra. Solo, qui l’esposizione era più spartana: non c’erano cubi di metallo, e i pezzi erano posati su cubi neri appoggiati sul pavimento.
Inoltre, questi pezzi erano colorati, e le linee di colore facevano risaltare i decori delle varie parti delle armature. Erano delle rune celtiche, a quanto pareva, ora che ci facevo caso.
Erano molto più belli così: sembravano vibrare di vita propria.
“Zio, zio, eccolo, ecco l’alchimista!” Esclamò Timmy, che sembrava quasi sapere dove stava andando.
“E’ un modo di dire, Timmy. Ormai, dopo Dan Brown, non c’è pittore che non sia un mago, uno sciamano,
un cabalista…” Ma mi interruppi. L’uomo che mi appariva davanti era il ritratto sputato dell’occultista ottocentesco.
Basso, gobbo, ritorto su se stesso, un gran naso ricurvo copriva una bocca sghemba atteggiata a un sorriso che si voleva mellifluo ma era inquietante. Con mani adunche e nervose si accarezzava la lunga barbetta caprina in un gesto di nervoso compiacimento. A sottolineare forse il parallelo con l’alchimia, vestiva solo di una lunga palandrana nera, con al centro ricamato un quadrato rosso contornato di simboli arcani.
“Bene, bene, Timmy. L’hai portato, come ti avevo richiesto.”
“Cosa gli hai portato, Timmy…” iniziai. Ma la frase mi morì in gola.
Una ciclopica armatura di ceramica era apparsa alle spalle dell’uomo. I vari pezzi erano ognuno al suo posto, e componevano una figura alta quasi due metri, che avanzava a stento sotto la bassa volta del sotterraneo, stringendo in pugno una corta spada dalla lama rossastra, l’impugnatura, chissà perché, una testa di gallo.
Era un guerriero come gli altri, anche se questo, sì, di innegabile aspetto femminile, dalla forma dell’armatura che fasciava il suo corpo. Una raggiera di mille serpenti di ceramica ne adornavano l’elmo, da cui tralucevano occhi verdi, brillantissimi, che mi fissavano magnetici. Non riuscivo a staccare lo sguardo.
L’istinto mi diceva di fuggire, ma ero pietrificato.
“Sei stato proprio bravo, Timmy.” diceva l’uomo, suadente. “Ora, col suo sangue, avrò la tintura per fare altri golem. Molti altri golem per la Madre, sì. E presto…”
Ma mentre la spada penetrava nelle mie viscere e tutto si faceva nero in un lampo di dolore lancinante, non potei sentire le ultime parole dell’alchimista. Timmy stava gridando, estasiato:
“LA MOSTRA DI CERAMICA! LA MOSTRA DI CERAMICA!”
FINE
“La mostra di ceramica”, racconto di Lorenzo Barberis.
Foto di copertina di Lorenzo Barberis (opera di Persea)