LORENZO BARBERIS
Spoiler alert: vedere prima il film.
“The Hateful Eight” è l’ottavo film di Quentin Tarantino, come al solito intriso di citazioni ai film suoi e di altri, alla letteratura e a molteplici piani di lettura. In questa breve analisi “a caldo” non riusciremo certo a evidenziare tutti i dettagli che possono rendere più intrigante una seconda visione, ma cercheremo di evidenziare i punti più salienti.
Innanzitutto, il consiglio è di apprezzare il “primo livello”: il film di Tarantino come uno “spaghetti western” (anche se questa definizione, come vedremo, è molto scivolosa) o perlomeno un “western”, indubbiamente, e di altissimo livello. Per poi scoprire, a una seconda visione (magari domestica, col telecomando sotto mano pronti a pause riflessive) che c’è molto di più.
Il titolo, “The Hateful Eight”, è già in sé un complesso gioco di parole. “Hateful” deriva da Hate e Full, “Pieno d’odio”, “carico d’odio”: nel duplice senso di soggetto e portatore d’odio. Una definizione che si adatta perfettamente agli otto personaggi principali, quasi archetipi del Western.
“Portatore d’odio” era però il nome del principale eroe classico, Odisseus, come si intuisce da una facile etimologia della radice del nome. Anche Ulisse, il proto-eroe occidentale, è malvagio, spietato e ingannatore come quelli del film, che sono quasi dei suoi possibili avatar.
Tra l’altro, la natura di universalità del “western”, che ultimamente è divenuto la cifra stilistica di Tarantino con Django e questo film (invece del noir) rimanda forse anche al concetto di “western civilization”: civiltà dell’occidente in senso proprio, e “civiltà del Western”, legata a questo immaginario collettivo.
Anche graficamente, poi, si sottolinea l’omofonia di “hateful” ed “eight”, scrivendo la prima parola come “8ful” (e l’otto è formato da due colpi di proiettile). Una locandina che rimanda molto agli spaghetti western, e al loro stile grafico spaccone, iperviolento e spesso sottilmente ironico. Ma, come recita una scritta a inizio del film, sottolinea anche trattarsi dell’ottavo film di Tarantino (gli altri sono, ovviamente, “Le Iene”, “Pulp Fiction”, “Jackie Brown”, “Kill Bill”, “Grindhouse”, “Bastardi senza gloria” e “Django”)
Un elemento che mira a dare programmaticità a questa pellicola, quasi un (rovesciato) “Otto e non-mezzo” tarantiniano.
Naturalmente i riferimenti esistono: Tarantino vuol solo mostrare la sua capacità di cogliere la “lectio difficilior” dello Spaghetti Western. Innanzitutto, un primo riferimento (ma sono convinto che, a ben cercare, troveremmo otto film rilevanti) è “Il grande Silenzio” di Sergio Corbucci, il principale spaghetti-western innevato; da Corbucci, Tarantino aveva già tratto il suo precedente “Django”, e inizialmente questo “Hateful Eight” doveva quasi esserne un seguito.
Ma lo snow-western esiste anche nella tradizione originale americana, a cui Tarantino non può non fare riferimento (è un italo-americano che cita italiani che citano americani…): Wired suggerisce “Day of the Outlaw”, del 1959, con una situazione simile: tutti chiusi in un rifugio mentre fuori infuria la tempesta. Il “western da interni” è una variazione minore ma diffusa, anche perché – rispetto alla modalità “da esterni”, che si basa anche sul fascino dei grandi panorami e della grande fotografia – è di costo oggettivamente più contenuto, a parità di altri fattori.
“Rio Bravo” (1959) di Howard Hawks con John Wayne ne è il modello più famoso, anche per la notoria ripresa che ne ha fatto Carpenter in “District 13″. In questo senso, la lectio difficilior di Tarantino è duplice: western, ma con neve invece che deserti, e molto più interni che esterni.
Il contrasto centrale però non è nemmeno tanto tra violenza e cristianesimo, quanto in due piani, parimenti paradossali: schiavismo e cristianesimo, da un lato (il cristianesimo aveva cancellato lo schiavismo in forma pura, in Europa; rinacque negli USA intrisi di un maggiore zelo religioso cristiano), e tra pena di morte e cristianesimo, dall’altro.
La storia può anche leggersi come il lungo ed eterodosso calvario della protagonista femminile fino alla sua crocifissione-impiccagione (due mitologemi ambiguamente collegati: Cristo è crocifisso, subito dopo Giuda impiccato). La sua unicità femminile potrebbe rimarcare la specifica importanza del tema (oltre a rendere più disturbante la violenza), come unico è il protagonista nero nella storyline principale.
Per quanto riguarda il tema dello schiavismo, ci troviamo a qualche anno dalla fine della guerra civile americana, che ha portato all’abolizione della schiavitù: un tema centrale anche in Django, ma presente in tutti i film di Tarantino, cosa che ha causato la lunga querelle con Spike Lee, che ha vissuto male “l’invasione di campo”.
Invece, Tarantino ha rivendicato di essere l’erede della Blacksploitation: film americani pensati per un pubblico nero, dagli anni ’70 in poi. Il tratto identificativo di tali film (che possono poi declinarsi nei vari sottogeneri action, western e poliziesco/gangster movie principalmente) è che il protagonista nero può eliminare dei bianchi e, nonostante questo, farla franca: cosa prima impensabile.
Ovviamente anche la blackspoitation era detestata, come consolatoria, dal marxismo nero (e dal neo-islamismo nero) di Malcom X, delle Black Panthers, di cui Spike Lee è stato cantore e a suo modo erede spirituale. Tarantino la riprende in molti suoi film, ed è sicuramente centrale, in chiave moderna, già in “Jackie Brown”.
Ma qui il protagonista nero, mentitore e ambiguo come tutti gli altri, è accusato di uccidere i bianchi con compiacimento: e non solo quelli del Sud schiavista, ma anche quelli “buoni” del Nord. Non sarà chiarito quanto di vero ci sia in questo (nemmeno gli altri personaggi verranno pienamente risolti, lasciando ampli margini di lettura “aperta” del film). Il tratto centrale, insomma, della blacksploitation, di cui è ripresa anche la componente pornografica, in senso proprio, nella scena in flashback del figlio del generale.
Il cocchiere (che non è negli otto) trasporta Il Boia, un cacciatore di taglie che non uccide le sue vittime, e Daisy, donna criminale di notevole importanza. Sulla strada raccoglie Warren, il suddetto cacciatore di taglie nero, e in seguito Chris Mannix, presunto nuovo sceriffo di Red Rock, dove vanno a impiccare la fanciulla. Di Mannix non si saprà mai se è davvero o meno il nuovo sceriffo, essendo un sudista con un passato di crimini di guerra.
Accanto allo schiavismo e alla pena di morte, la guerra appare come la grande “sospensione della credulità” nel mondo cristiano specie americano: crimini di guerra orrendi dalle due parti, ma compiute in guerra, vengono condonate dato il particolare contesto. Crimini più lievi, ma compiuti nel contesto della vita civile, meritano invece la pena di morte, che è invece pienamente accettabile e legale (comminata dal Boia, o dal cacciatore di taglie stesso, grazie al celebre Wanted Dead Or Alive). Questa è ovviamente la forma della legge, che diviene appunto un ghiaccio sottile (come evoca il “vero” boia) nella “legge di frontiera”.
Ma nella sostanza, nessuno la accetta (nessuno degli Hateful Eight, perlomeno, di sicuro): i propri morti, anche se uccisi “all’interno della forma della legge”, ma in modo crudele, provocano il focolaio dell’odio che condurrà tutti alla reciproca distruzione. Non si accettano nemmeno le convenzioni “positive”: Warren è un nero libero, ma per i sudisti resterà sempre uno schiavo (in Django eravamo prima, qui siamo dopo lo spartiacque della Secessione) e, oltretutto, il loro stato, un tempo legittimo, ha posto su di lui una taglia che ora solo formalmente è caduta (ma che molti tentano ancora di riscuotere).
Interessante è a tale proposito il “tema delle carte”: tre personaggi hanno carte che in qualche modo li certificano: la Lettera di Lincoln di Warren (che è un falso, e che apre e chiude la storia: anche Lincoln, del resto, non è immune all’Odio) che lo certifica come “nero eroico”, la lettera del Boia, che lo certifica come legittimo possessore di Daisy, in quanto bounty killer (è vera, ma lui non è un “vero” Boia: questa è la sua finzione); le referenze del boia di Red Rock (che sono vere, ma sono state rubate al vero boia dall’impostore che lo sostituisce). A queste si può aggiungere il tema delle referenze dello sceriffo (che sono assenti).
La seconda parte inizia col capitolo tre, “L’Emporio di Minnie” (ci sarà un rimando a Minnie Mouse e Daisy Duck?), che avvia l’enigma della stanza chiusa. Ad attendere i quattro Odianti (più il cocchiere O.B.) vi sono altri quattro odianti: tre clienti e un nuovo tenutario messicano, Bob. Come i nuovi arrivati sono cinque (col cocchiere), in verità anche gli Odianti Ospitanti sono cinque, essendosi nascosto il fratello di Daisy.
Uno è il “vero” boia della città, di origine inglese, uno un fattore in viaggio e uno un vecchio generale sudista. Naturalmente è una trappola, come si capisce fin da subito con una minima cultura delle regole del genere (il nuovo tenutario che cerca in ogni modo di non far entrare i nuovi clienti nella stalla, dove ovviamente avrà i corpi dei tenutari) e viene ribadito anche dai nuovi arrivati, che cercano uno o più traditori tra i loro ospiti. Inoltre, un piccolo confetto rosso (Red Rock è la destinazione del viaggio…) mostra che è avvenuta una qualche colluttazione, come la porta sfondata.
Il riferimento di Tarantino, dichiarato, diviene qui Ten Little Niggers di Agatha Christie, opera tra l’altro censurata per la presenza della “N words” con un nuovo titolo Ten Little Indians (cadendo dalla padella alla brace, e spostando solo avanti di qualche decennio l’irritazione al politicamente corretto: oggi le squadre americane col nome Indians stanno venendo rinominate).
Come nel modello del giallo classico (filmico, ma anche letterario), i personaggi muoiono uno ad uno, e devono trovare tra di loro (sono isolati) il colpevole o i colpevoli. Tra l’altro, nonostante il titolo rimandi ad Eight (e sia associato anche dalle locandine ad otto personaggi), nella camera chiusa vi sono in realtàten little niggers (se aggiungiamo O.B. il cocchiere e il fratello di Daisy, nascosto).
L’eliminazione da parte di Warren del vecchio maggiore, con l’episodio dell’ignominiosa morte perpetrata da lui al figlio (anche qui: storia vera o strumentale?) gli permette di sfruttare la quarta eccezione della legge ai principi cristiani: dopo schiavismo, guerra e pena di morte, la “legittima difesa” intesa in modo molto estensivo (Warren mette in scena in pratica un omicidio, raccontando a un vecchio la morte estremamente umiliante da lui impartita al figlio).
Tuttavia, anche questo è apparente: Warren di certo vuole umiliare e uccidere il vecchio, ma questi potrebbe cadere nella trappola oppure sfruttare l’occasione per farsi dare una morte rapida (egli è l’unico ad essere estraneo alla congiura dei quattro “Odianti” che si trovano già nella struttura.). Anche qui una ambiguità, mentre invece rispetto al tema del formalismo (dimostra di essere generale mostrando i suoi galloni, la sua “carta”, che sono veri) è uno dei pochi ad essere davvero quello che si dice (è anche Il capitolo quattro, “Il segreto di Daisy”, introduce un altro grande bugiardo, l’undicesimo uomo in campo: il Narratore Onnisciente, figura retorica più letteraria che filmica, che ci depista ulteriormente conducendoci verso il finale. I nuovi arrivati quasi muoiono del caffè avvelenato (non si chiarisce chi sia stato, ma è irrilevante: sono ormai tutti rivali), Warren inizia a svelare le sue scoperte (una scena molto da giallo classico) ma viene improvvisamente interrotto da un violento bathos: Jody, il fratello di Daisy, dalla cantina gli spara ai testicoli.
La rottura del giallo classico non è tanto nella violenza della castrazione (simmetrica all’umiliazione della fellatio imposta da Warren ai bianchi che cercano di ucciderlo), ma nell’improvviso apparire di un nuovo personaggio non previsto, che sconvolge i piani della detection tradizionale. Dopo aver citato Ten Little Niggers, Tarantino lo butta via.
Il capitolo cinque, che ci mostra i Quattro Passeggeri, ricostruisce l’avvenuto, mostrando la violenza spietata dei criminali. La partita a scacchi (tra il Bianco e il Nero) che subito era parsa giocata tra il Generale e Oswaldo il Boia inglese, era in verità tra il Generale (schiavista) e Sweet Dave, il gentile tenutario (che ha sposato Minnie, che si rivela essere una energica e simpatica donna nera, con due servitori di colore ad aiutarli).
La partita a scacchi ricorda (come funzione retorica) quella ben più centrale de L’Alfiere Nero di Arrigo Boito (non credo che Tarantino lo conosca): qui uno schiavista e un ribelle nero giocano una partita a scacchi che deve dimostrare la superiorità o meno della razza bianca: la partita si conclude con la vittoria del nero (con sublime retorica scacchistica: un racconto che dovrò prima o poi qui analizzare). Il bianco schiavista quindi uccide il nero in un impeto di follia, ma questo omicidio lo segna e lo porta alla follia e a una morte più degradante.
In modo analogo al racconto, dove l’Alfiere Nero è solo sulla scacchiera contro tutti i pezzi nemici (in senso simbolico: ci sono anche il re, naturalmente, e una pedina) ma li elimina uno ad uno, qui l’Alfiere Nero Warren elimina tutti i “pezzi bianchi” che gli si oppongono nel finale – il capitolo sei, come sei sono i cavalli del “tiro a sei” – “Uomo Nero, Inferno Bianco”. Bianco non solo per la neve, ovviamente.
In origine, il film doveva essere un romanzo e intitolarsi “Django in White Hell”, come ripreso nel finale: appare quindi anche in questo la volontà di Tarantino di operare una riflessione anche meta-letteraria (Djiango sarà escluso perché il suo personaggio, ancora troppo “solare”, non si presta).
Il conto finale dei cadaveri e del loro valore, oltre che ironia sull’ossessione economica americana e occidentale in genere, simboleggiata dai Bounty Killer, riprende la scena finale di “Per qualche dollaro in più” con l’analogo conteggio di Clint Eastwood: ma se là era più che altro ironica, qui si lega alla drammatica contrattazione dello stallo finale.
La chiusa con la lettera di Lincoln rimanda circolarmente all’inizio.
Questo lavoro di Tarantino quindi si segna, come al solito, per la sua complessità. In particolare, molteplice pare il rimando meta-artistico, che supera il meta-cinema. La struttura è profondamente teatrale, specie nella parte dopo l’arrivo nella baita chiusa dalla bufera di neve; molti hanno citato “La cosa” di Carpenter, che declina in chiave horror-scifi tale tema; ma ancor di più mi viene da pensare a“Trappola per topi” della Christie, in cui abbiamo un albergo isolato dalla neve: opera giallo-teatrale di enorme successo.
Lo stesso 8ful (che nasce da un progetto di romanzo) è stato recitato in scena in una pubblica lettura del copione, e non si esclude un adattamento teatrale. Per questa sua struttura angusta, perfettamente claustrofobica (che rimanda a Le Jene, e infatti viene inserito un riferimento almeno nella traduzione italiana, in cui un personaggio è definito “Una jena”. Nell’originale americano ci sarà un gioco su “Reservoir Dogs”, probabilmente) Tarantino ha parlato di un debito coi telefilm western USA più che con i film. In essi la puntata con il sequestro di tutti i personaggi da parte di un criminale è in effetti un meccanismo frequente (tipico di quasi ogni fiction tradizionale di tipo action americana: c’è anche in E.R., per dire).
Insomma, opera potente e stratificata, che mette tutta l’America (e l’Occidente) in una stanza per costringerla ad affrontare le sue paranoie e i suoi conflitti. Logicamente, non se ne esce affatto benissimo.