STEFANO CASARINO.
Suggestioni dopo la lettura di Il bambino che parlava con la luce, Maurizio Arduino, Einaudi, Torino 2014.
Il primo assioma della comunicazione proclama: “Non si può non comunicare”.
Più liricamente il Poeta declama: “Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra.”
Tutto giusto, bello, nobile. Ma come la mettiamo con chi è affetto da “disturbi dello spettro autistico”? Ci servono a qualcosa, in questo caso, le formulazioni apodittiche della Scuola di Palo Alto o gli ispirati versi di John Donne?
Dopo aver letto il libro di Maurizio Arduino la mia risposta è, con convinzione ancora maggiore: SI.
Ci servono a non rinunciare mai a comunicare, a non dimenticare neppure per un istante che stiamo parlando di esseri umani, la cui ricchezza esistenziale è tale da essere piena di risorse, da consentire di gettare comunque dei ponti. Con tantissima fatica, certamente. A prezzo anche di fallimenti e di radicali ripensamenti. Ma con rinnovata convinzione. Sempre.
Il bambino che parlava con la luce racconta con semplicità e straordinaria efficacia “quattro storie di autismo”, narrate dalla parte del terapeuta, del medico-amico, non del lucido diagnosta. È un ruolo difficile e importante, quello di Maurizio: di osservatore, di guida, di compagno. Di uno che alla fine quasi si sente “zio” di uno dei suoi “pazienti”, che lo invita alla discussione della sua tesi di Laurea. Di uno che mette in gioco tutto se stesso, fortunatamente coadiuvato da altre splendide persone.
Quattro storie: tre di maschi, una sola di una bambina. Per quello che si sa sinora, in effetti, l’autismo colpisce molto di più i soggetti maschili e si manifesta quasi sempre entro i tre anni d’età.
Tutte e quattro le storie iniziano in modo simile: il comportamento di Silvio inizia a preoccupare i genitori sin da quando ha un anno e mezzo e saranno le maestre del nido ad indirizzarli da un neuropsichiatra infantile che formula la diagnosi di un disturbo non curabile per il quale “non si poteva fare granché”; Cecilia a tre anni non parla ancora ed è il test comportamentale a confermare l’autismo; per Elia la diagnosi arriva tardi, alla fine della scuola materna; nel caso di Matteo il padre si rifiuta a lungo di ammettere che il figlio abbia dei problemi relazionali e anche in quel caso la diagnosi arriva un po’ tardi.
Ma è con la diagnosi che si spalanca davvero un mondo di difficoltà e di avventure.
E si pone il primo, fondamentale problema: come comunicare?
Con la luce; con le corde; con cartellini contenenti indicazioni precise e con agende visive; coi numeri; con “la necessità di inventarci soluzioni che non si trovano in nessun manuale”: modi strani, che richiedono una continua reinvenzione e un continuo riadattamento. In realtà, sono forme diverse di un unico, fondamentale elemento: affetto. Interesse per chi non è naturalmente in sintonia con noi, coi “normali”.
Il libro mi ha offerto suggestioni straordinarie: Silvio che fissa incantato la luce che forma “lame oblique su cui si cullavano granelli di polvere…li conosceva a uno a uno i granelli che comparivano e scomparivano durante la mattina, mentre il sole si spostava in cielo” mi ha evocato i versi che Lucrezio dedica proprio a ciò (Osserva infatti, ogni volta che raggi penetrati infondono la luce del sole nell’ombra delle case: molti minuti corpi in molti modi, attraverso il vuoto vedrai mescolarsi nella luce stessa dei raggi, e come in eterna contesa attaccar battaglie e zuffe, a torme contendendo, e non far sosta, da aggregazioni e disgregazioni frequenti travagliati; sì che da ciò puoi figurarti quale sia l’eterno agitarsi dei primi principi delle cose nel vuoto immenso; almeno per quanto una piccola cosa può dare un modello di cose grandi e vestigi di loro conoscenza: De Rer. Nat. II 114-124); Cecilia che gioca con le corde e riempie la stanza di ponti sospesi sembra un’incarnazione della mitica Aracne; Matteo perso nei numeri che rappresentano un mondo di perfetto ordine, più che Rain Man, personalmente mi ricorda Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon, bel libro di qualche anno fa.
Le storie raccontate da Arduino non sono né semplici né edulcorate: chi soffre di autismo è innamorato della routine e viene facilmente messo in crisi dalla minima novità; può avere improvvise, incontrollate crisi di collera e di violenza (“un giorno ruppe una vetrata con un pugno e colpì con una testata una compagna, che dovette essere portata al pronto soccorso, quello successivo tirò i capelli alla sua insegnante di sostegno fino a staccarle una ciocca”; “insegnante di sostegno al pronto soccorso con un occhio malconcio, compagni terrorizzati e genitori furenti”); è spesso affetto da ecolalia (ripetizione di frasi e di parole) e da ecoprassia (ripetizioni di gesti e comportamenti); è possibile si sviluppino crisi epilettiche; non è talvolta in grado di capire i sottintesi (ed è involontariamente comica la scenetta raccontata a proposito di Cecilia: “Se prendeva una telefonata, alla domanda: «C’è la mamma?» rispondeva: «Si» e riagganciava, senza afferrare quello che implicitamente le veniva chiesto, ovvero di chiamare la mamma”); si attiene rigidamente alle regole, ecc…
E i problemi non si esauriscono certo col termine dell’infanzia e dell’adolescenza, anzi! “Per le istituzioni gli adulti con autismo sembravano non esistere”, scrive l’autore: usa un tempo passato, perché forse le cose ora stanno un po’ diversamente. Più avanti egli scrive: “Quello dell’assistenza dopo la maggiore età è un problema nazionale, sollevato più volte dalle associazioni dei genitori e dagli stessi operatori”.
In queste storie una grande ruolo lo svolge la scuola: tutti i diversi ordini di scuola, dal nido sino addirittura – nell’ultimo caso – all’Università.
Attraverso queste storie si racconta anche un’evoluzione didattica, un significativo progresso da un’iniziale impreparazione – o, peggio, da un iniziale disdegno col convincimento che “la scuola non fa terapia” – sino ad una encomiabile professionalità pedagogica non solo degli insegnanti di sostegno ma di tutto il corpo docente.
Anche lì, ovviamente, non mancano i problemi: Arduino segnala con precisione i ritardi e le disfunzioni dell’apparato centralistico che “governa”(?) il nostro sistema scolastico: “l’insegnante definitiva arrivò solo a novembre”; “il perverso meccanismo delle graduatorie e delle supplenze produsse una rapida alternanza di maestre di sostegno, che per vari motivi, si fermavano uno o due settimane e cambiavano istituto”; “il passaggio di consegne tra le varie insegnanti non aveva funzionato e l’assenza di una formazione pedagogica sull’autismo aveva fatto il resto”, ecc…
Ma accanto a queste non poche ombre vi sono anche luci: “quell’anno scolastico fu formidabile. Silvio passava ormai la quasi totalità del tempo in classe ed era autonomo nello svolgimento di molte attività adatte al suo livello di sviluppo. La maestra Marina dedicava parecchio tempo a prepararle”; “la maestra diede un’ulteriore prova della sua competenza pedagogica” e via seguitando.
Recentemente, il 10 febbraio, la Scuola italiana è stata premiata a Vienna proprio per essere quella che più di tutte le altre vuole e sa integrare gli alunni disabili.
Con questa motivazione: “Esemplare nelle aree dell’innovazione, dei risultati e della trasferibilità, la Legge-quadro n. 104 del 1992 per l’assistenza, l’inclusione sociale e i diritti delle persone con disabilità è eccezionale in quanto essa non soltanto prescrive che tutti gli alunni debbano essere inclusi nelle scuole di tutti gli ordini e grado (incluse le Università), sia pubbliche che private, e partecipare pienamente alla vita scolastica, ma soprattutto perché essa è stata applicata in tutto il Paese, che registra pertanto il più alto livello di inclusione delle persone con disabilità nelle classi ordinarie, e gode di un convinto consenso alla piena inclusione a livello nazionale”.
Credo, però, non sia stato dato adeguato risalto a tale riconoscimento: gli organi di stampa preferiscono parlare degli insuccessi del nostro sistema formativo nei test internazionali che da un po’ di tempo misurano le prestazioni (pardon, le competenze!) degli studenti e lasciare in ombra quello che davvero caratterizza (continua a caratterizzare) la nostra scuola: l’attenzione e la cura alla persona – ad ogni persona! –, l’educazione, la formazione (e non l’informazione), l’insegnamento (e non l’addestramento).
In Spagna, in Gran Bretagna, in Germania, in tutti gli altri sistemi scolastici ci sono le “scuole speciali”. In Italia no: almeno in questo, rappresentiamo un modello.
Le storie raccontate da Maurizio Arduino, ovviamente, non finiscono davvero: però, Matteo si laurea con 110/110 in Matematica; Elia corre gli 800 m. in una competizione nazionale; Silvia lavora in un vivaio e sa a memoria tutti i nomi latini delle piante; Silvio viene invitato al matrimonio della sua amica d’infanzia.
Non si tratta, secondo me, di happy endings: piuttosto della segnalazione, convinta, appassionata, che vi sono altri possibili linguaggi con cui comunicare, oltre a quello verbale, perché “il linguaggio non è tutto, a darti la sensazione che esisti per l’altro contribuiscono gli sguardi, la mimica del volto e altri segnali”.
È di questi segnali – segnali d’umanità: “Che bella cosa è l’uomo, quando è davvero uomo!” (Menandro) – che tutti, non solo le persone svantaggiate, abbiamo bisogno.