STEFANO CASARINO.
A proposito di “La coscienza di Andrew” di E.L.Doctorow (2014).
Nel 1923 esce “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo: magistrale presa in giro della psicoanalisi freudiana attraverso la “confessione” di Zeno Cosini, autentico nome parlante (Zeno = Zero; Cosini = da “cosa”, il termine più generico e banale).
Nel 2014 esce “La coscienza di Andrew” di E.L.Doctorow: iperbolica parodia del cognitivismo attraverso il “dialogo” (con un tale Doc., della cui esistenza nulla sa il lettore, che però – come in Svevo – ha chiesto al protagonista di tenere un diario o un libro di bordo) di Andrew (Andrew = Andrea, da “anér, andròs”, “l’uomo”, il “vero uomo”, il “maschio”, nell’originale etimo greco?).
Dialogo o monologo?
Scrivere è come parlare da solo, che è poi quello che sto facendo con te fin dall’inizio, Doc.
E Doc. come Doctor o come Doctorow? Ambiguità su ambiguità che è vano voler districare.
Moderno e postmoderno in letteratura sono, forse, racchiusi in queste due date e in queste due opere.
Anche se la traduzione italiana del titolo inglese è forzata: “Andrew’s brain”, più fedelmente, è “Il cervello di Brain”, il vero luogo (o non-luogo) in cui tutto avviene:altro che “coscienza”!
Nel libro si distingue pure tra “mente” e “cervello”: termini non sinonimici, ma cosa esattamente designino non è chiarissimo.
E “anima”, ovviamente, è altra cosa ancora: forse è la “finzione” del cervello, come viene affermato.
Eppoi, esiste anche “il cervello condiviso” o “collettivo”: quello dello sciame di insetti, dello stormo di uccelli, del branco animale e del gruppo sociale umano.
Confusione e finzione sono le componenti essenziali con le quali l’autore gioca sapientemente.
Andrew è uno “scienziato cognitivo” (?) che a lezione cita Whitman e parla (realtà? finzione?) ai suoi studenti in questo modo: Buongiorno classe.[…]Stamattina parleremo di coscienza. Da dove viene? Che fa tutto il tempo? Briga? Cerca vantaggi? Come impara a comportarsi, con miliardi di neuroni che si autoconcepiscono in circuiti neurali e si modificano correggono riconfigurano moltiplicano in risposta all’esperienza del mondo esterno da parte dell’organismo in un processo di selezione naturale o di darwinismo neurale, per dirla con Edelman? […]In ogni caso non avete l’anima.[…]Quella è la finzione del cervello. Dobbiamo andarci cauti con i nostri cervelli. Prendono le decisioni prima di noi. […]Rinunciano al libero arbitrio. E la cosa è ancora più bizzarra, se tagliate un cervello a metà, emisfero sinistro ed emisfero destro continueranno a funzionare autonomamente senza sapere l’uno cosa fa l’altro. Ma non state a pensarci, tanto non siete voi a pensare. Limitatevi a seguire la vostra stella. A vivere dando per scontata la vita costruita socialmente. Aborrite la scienza. Credete più o meno in Dio.
La scienza che dispera di se stessa? Il cervello estraneo alla coscienza? L’io che crede di pensare e invece non è lui a farlo, con buona pace del “cogito” cartesiano?
È dunque del tutto ovvio che chi “ragiona”(?) così non possa raccontare una storia che sia una sequenza ordinata di eventi: ricordi e sogni dematerializzano il vissuto, la trama – se è lecito impiegare questo termine – procede a zig zag.
Comprendiamo che Andrew è stato sposato con Martha, ora compagna di un ex cantante lirico, che aveva come cavallo di battaglia il ruolo di Boris Godunov: opera lirica in cui identità/impostura, realtà/finzione si intersecano a meraviglia, come Doctorow argutamente fa rilevare.
Andrew ha avuto poi una seconda moglie, Briony (altro nome “sensibile”: riecheggia forse “embryo”, embrione?) che gli ha dato una bambina…
Non è il caso di riassumere il libro: significherebbe costringerlo in un ordine posticcio.
Basta dire che c’è anche l’11 settembre 2001, il monstrum delle Torri Gemelle, raccontato/vissuto come un incubo, che ha però definitivamente alterato l’esistenza di Andrew (dell’ “uomo/umanità”?): Una delle torri si era accartocciata su se stessa. Le persone in cerca di scampo mi passavano accanto barcollando, persone coperte di cenere, come cremate ma con la forma non ancora sbriciolata.
Un nuovo – anche se diverso – Auschwitz?
E che fa, allora, la nostra potentissima scienza?
Sa che il genoma di ogni cellula umana ha memoria, che almeno a livello microgenetico potrebbe esserci la possibilità di ricomporre un’intera persona a partire da questi frammenti e ricordi genomici di vite passate.
Allora, magari, un computer soppiantatore di tutti i computer potrà ricostituire i morti a partire dalle loro esperienze, prendere il posto di Dio, ridarci le persone scomparse, restituirci gli affetti perduti?
La resurrezione dei morti resa possibile dalla scienza e non più dalla fede, come già aveva immaginato Pirandello nel suo Lazzaro del 1929 ?
Quanto è disperato Andrew!
Che, invece, così (mentendo?) si autodefinisce: Affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene o nel male.[…]Sto cercando di dire che sono, alla fin fine, tremendamente insensibile. La mia anima giace in un profondo, immobile, meraviglioso, imperturbabile, calmo, freddo lago di silenzio.
Lo “scienziato cognitivo” non sfugge, però, non può sfuggire – nonostante l’inettitudine (termine sveviano) con la quale gli tocca convivere – al problema della felicità.
Che comprende solo quando l’ha perduta.
Che definisce – lui così incapace di definire alcunché – con accenti epicurei, che finiscono per prevalere sulle spiegazioni della biologia:
La felicità consiste nel vivere la quotidianità della vita e non sapere quanto sei felice. La vera felicità deriva dal non sapere che sei felice, è una serenità animale, una via di mezzo tra appagamento e gioia, la stabilità dell’io risolto nel mondo. Naturalmente mi riferisco alla vita nel mondo occidentale sviluppato. Un’umile dedizione al trantran quotidiano, la soddisfazione per il tuo, la squisitezza del sesso e del cibo e delle giornate di sole.[…]Una sensazione indotta forse dall’endomorfina, l’oppiaceo del cervello. Lo so, eccola di nuovo, la direttiva cefalica. Ma chissene!
Verso la fine di questo libro straordinario – una lettura imprescindibile per tentare almeno di capire il nostro presente, molto più utile di tante disquisizioni filosofiche – c’ è una pagina formidabile:
La mia mente è trafitta da visioni, sogni, dalle azioni e dalle parole di persone che non conosco. Sento voci senza suono, i fantasmi si levano dal mio sonno stagliandosi sul muro, e lì indugiano, rabbrividiscono nell’angoscia, si rannicchiano in invisibili contorsioni di dolore e senza parole invocano il mio aiuto. Cosa mi state facendo! urlo, e mi lascio cadere di nuovo sul letto solo per fissare il soffitto nero, e la mia stanza è un cinema buio dove sta per iniziare un altro film muto dell’orrore. Parlo di un’integrità svuotata dall’interno. Soltanto con la speranza che dietro tutto questo ci sia una scienza riesco a sopportarlo. Forse nella mia materia cerebrale porto la documentazione neuronale di epoche precedenti.
Soltanto di una cosa, allora, in definitiva, si è certi: del dolore.
Dell’uno e di tutti.
Di oggi, di ieri e di sempre. Come esplicitamente viene affermato: Questa allora è scienza cognitiva? Non ancora, no. È ancora solo dolore.
Con questo testo così intenso, impiegando le tecniche del postmoderno, dando quasi l’impressione di giocare con esse, Doctorow, a mio giudizio, ha definitivamente superato questa stagione culturale.
La certezza dell’esistere non sta nell’io che pensa (filosoficamente, scientificamente, cognitivisticamente) ma nell’io che soffre.
E che solo soffrendo può capire. La lezione di Eschilo e di tutta la cultura classica: pathei mathos, “attraverso la sofferenza, la conoscenza”.