Eco

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LORENZO BARBERIS

E’ scomparso lo scorso 19 febbraio 2016 Umberto Eco, classe 1932, il maggior scrittore italiano della nostra epoca (e anche il massimo studioso di discipline umanistiche, se è per questo).

Laureato in filosofia nel 1954 con una tesi sul problema estetico in San Tommaso d’Aquino, Eco entra nella RAI di Filiberto Guala (che sarà poi allontanato e diverrà frate trappista al monastero di San Biagio a Mondovì), la lascia poi sul finire degli anni ’50, traendo però da quest’esperienza una precoce consuetudine coi nuovi mass media. Nel 1955 collabora alla fondazione dell’Espresso, per cui scriverà fino al 2016; e pubblica la sua tesi di laurea (1956) come primo di moltissimi saggi.

Nel 1959 diviene condirettore editoriale della Bompiani (esperienza che tornerà anche nell’ambientazione del “Pendolo di Foucault”), dove resterà fino al ’75.

Nel 1961, inoltre, inizia la sua carriera universitaria; la pubblicazione di “Opera aperta” (1962) crea un ampio dibattito sul postmoderno nel mondo delle arti: Eco introduce l’idea di un’opera non più chiusa in sé stessa, ma aperta alle interpretazioni del lettore/spettatore. Tesi che influenzano il Gruppo 63, alfiere del postmoderno italiano.

Seguono “Diario Minimo” (1963), raccolta dei suoi scritti per il Verri, che conferma l’atteggiamento ironico e l’efficacia dell’acutezza critica (contiene, tra gli altri, il celeberrimo “Fenomenologia di Mike Bongiorno” del 1961); “Apocalittici e integrati” (1964) è un altro titolo che, come “Opera aperta”, è destinato a diventare paradigmatico nell’approccio al postmoderno, definendo i due opposti estremismi dell’atteggiamento degli intellettuali nei confronti della società di massa. Eco studia qui, tra i primi non solo in Italia, la fantascienza, l’horror, il giallo, il fumetto, e il midcult, ovvero il testo letterario “colto” pensato però come genere commerciale per la società di massa.

L’avvicinamento alla semiotica lo porta alle conferenze newyorkesi di “Per una guerriglia semiotica” (1967) e a pubblicare “La struttura assente” (1968), in cui critica lo strutturalismo, ormai divenuto quasi metafisico e ontologico, e applica invece alla sfera visiva la struttura triadica del segno di Pierce.

Uno studio che lo porta a fondare “Versus” (1971), rivista di studi semiotici, e codificare il suo “Trattato di semiotica generale” (1975), che diventa il caposaldo del suo metodo critico d’indagine, mentre lascia ormai, lo stesso anno, l’esperienza editoriale bompianiana.

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Estende poi il suo studio anche alla narratologia con “Il superuomo di massa” (1976), testo ancor oggi fondamentale per la comprensione del mitologema, fumettistico o no. Importante anche come antesignano della sua prima e principale fatica letteraria: infatti, nel Superuomo si indaga la linea Ercole-Tarzan (in copertina) – Superman ma anche il superuomo razionale, di cui archetipo molto esaminato è Holmes, che tornerà nel suo Guglielmo da Baskerville (crasi di Ockam e del “Mastino” scritto da Conan Doyle).

Importante anche “Lector in fabula” (1979) in cui introduce il concetto di Lettori Modello, e la presenza di lettori di vari “livelli” del testo, sempre più approfonditi: un “primo livello” che resta alla superficie, presumibilmente di intrattenimento, e altri che riescono a scavare in molteplici livelli simbolici. Opera importante anche perché prepara la discesa in campo nell’agone letterario col “Nome della Rosa”, con cui crea il romanzo che ha teorizzato.Con la nuova decade degli ’80 Eco crea una nuova sorprendente maschera, divenendo non solo romanziere, ma romanziere di successo mondiale col folgorante esordio de “Il Nome della Rosa” (1980). A un primo livello, l’opera è un perfetto giallo medioevale, con un holmesiano Guglielmo da Baskerville coadiuvato dal suo buon Adso/W-atso-n; e già qui c’è una potente contaminazione tra romanzo storico e romanzo poliziesco (con riferimenti ironici alla tradizione letteraria italiana, potentemente postmoderni: si comincia con “Naturalmente, un manoscritto”, con cui si iscrive l’amatissimo Manzoni ai postmod, e si opera nel periodo immediatamente susseguente alla morte di Dante).

Ma l’opera si struttura poi come un vero labirinto; ironicamente Eco lo descrive come un “centone medioevale”, collage di testi non suoi (elemento che ovviamente è presente: ma la ricombinazione offre infinitamente di più). La disputa sulla povertà di Cristo tra Legati Papali e Francescani appare come il dibattito tra il centrodestra DC e la sinistra PCI nel paese, con gli estremi forniti dall’inquisizione del golpista Bernardo Gui e il confuso e violento pauperismo dei fraticelli extraparlamentari. Una riflessione sugli anni di piombo trasposti in una allegoria volutamente scalena e beffarda, un gioco di specchi che sfugge al puro apologo simbolico.

E, sotto il piano politico (in una struttura che rimanda ai “quattro sensi” dell’ermeneutica biblica e dantesca, nei molteplici Lettori di N Livello teorizzati poc’anzi) vi è ovviamente il tema del problema dell’interpretazione, dei suoi limiti, della in/fedeltà al testo (in duplice senso: il testo cristologico dei Vangeli, da cui desumere o meno un Cristo povero o proprietario, e il testo perduto che la biblioteca cela al suo interno, che legittimerebbe il Riso, ovvero l’Ironia postmoderna, il “riso dei dotti”, sulla scorta dell’Ipse Dixit aristotelico).

Sul “Nome della Rosa” (che poi definirà, sempre con sarcastica ironia, un’opera da lui odiata) Eco tornerà con le sue Postille al nome della Rosa (1983), dove chiarisce ulteriormente i molteplici piani interpretativi sottesi (anche se aveva iniziato, sardonico, dichiarando: “Avevo solo voglia di uccidere monaci”). Lo stesso 1984 traduce gli intraducibili “Esercizi di stile” di Raymond Queneau, modello della scrittura postmoderna europea al pari di quel sudamericano Borges che diviene il centrale Jorge da Burgos del romanzo.

Con “Semiotica e filosofia del linguaggio” (1984) prosegue il lavoro dell’Eco semiologo, ormai sovraimpresso dal romanziere brillante. Inizia la stesura delle sue Bustine di Minerva (1985) sull’Espresso, durata fin oggi. L’anno seguente Jacques Annaud traspone in film “Il nome della rosa” (1986), con risultati modesti nonostante il ruolo di protagonista affidato a Sean Connery (Eco fu tra i primi a studiarne accademicamente il James Bond 007 filmico: un cerchio che si chiude). Gli spagnoli ne fecero anche un videogame, assolutamente introvabile, che invece è secondo pochi iniziati più fedele. In effetti, un’opera stratificata come quelle postmoderne (anche retrospettivamente: come la Commedia dantesca) si presta forse meglio alle diramazioni del videogioco che alla sequenzialità più univoca del film.

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Intanto però si giunge al suo secondo romanzo, che è nuovamente un enorme successo.“Il pendolo di Foucault” (1988) riprende molto, in verità, de “L’incanto del lotto 49″ di Thomas Pynchon, il romanzo di fondazione del postmoderno, ma Eco aggiunge altre stratificazioni di lettura diversa da quelle dell’americano (che è comunque intricatissimo).

Sotto il primo livello del giallo esoterico contemporaneo, vi è la lettura politica degli ” ’80 della P2″ invece dei ” ’70 delle BR” (di cui Eco scrisse molto sulla cronaca, con affilate analisi e staffilate di satira), e sotto, come al solito, il problema della sovra-interpretazione.

“I limiti dell’interpretazione” (1990) sono anche il saggio con cui apre il nuovo decennio, mentre si moltiplicano i saggi su di lui e sui suoi due romanzi (perfino Salman Rushdie scrive di lui, indagandone la decade 1981-1991, nel 1992).

“Il secondo diario minimo” (1992) raccoglie l’ultimo Eco degli Ottanta, nella prima repubblica cristallizzata in un fotofinish prima del bigbang di Tangentopoli. L’egida in copertina è affidata al surrealismo della Gioconda coi baffi di Duchamp.

“La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea” (1993) invece accompagna lo studio dell’utopia delle lingue artificiali mentre sullo scacchiere continentale va nascendo l’unione di Maastricht.

“Sei passeggiate nei boschi narrativi” (1994) raccoglie le sue prestigiose lezioni di Harward (seconde, negli italiani, a quelle celeberrime di Calvino) in cui indaga nuovamente il testo come labirinto. Un labirinto che, sempre affascinante, si fa quasi compiaciuto nel suo perdersi in volute dettagliate, contorte e minimali, quasi anticipando il radicalizzarsi del gioco ironico anche nei romanzi (perdendo il “primo livello”, quello di accesso a un pubblico iper-generalista che li poteva leggere come “semplici gialli”).

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Lo stesso anno arriva infatti una nuova fatica narrativa, “L’isola del giorno prima” (1994), ambientata in un rovesciato seicento manzoniano, complesso e raffinato gioco letterario sul barocco come postmoderno (Omar Calabrese, definito l’Alter Eco, aveva teorizzato appunto il postmod come neobarocco). Ma pur nella genialità di molte soluzioni, l’opera non ottiene il successo delle precedenti (e già il Pendolo era digradante rispetto al Nome) e inizia una china discendente nei successi letterari echiani (che, ovviamente, resta comunque autore da bestseller).

L’allitterante “Povero Pinocchio” (1995) raccoglie intanto i suoi esperimenti linguistici al corso di Scienze della Comunicazione; che sembrano restituire un Eco sempre più ludico,ironico, “ariostesco”, lontano da quel tanto di epica che vi era nel Nome della Rosa e che poteva restare nel Pendolo.

Eco quindi teorizza l’Ur-Fascismo (1997), mappa di riconoscimento di un fascismo eterno e seminale, al di là dell’esperienza storica del ventennio 1922-1943.

Nel 1998 diviene un personaggio in un Dylan Dog di Tiziano Sclavi, Humbert Coe; di Dylan Dog (ma estendibile a tutta la Bonelli) Eco esaltava la “sgangherabilità”, l’adattabilità dell’eroe a molteplici contesti diversi, con una “apertura” molto maggiore di eroi supereroistici della tradizione USA (anche il fumetto disney, di marca italiana, lo omaggerà riprendendone il Nome della Mimosa e il Pendolo di Ekol, e omaggiandolo in una storia come consulente dell’odioso Rockerduck: Omberto Oco). Coltamente, Sclavi non cita l’Eco più ovvio, abbazie e complotti (in questo senso, tutto Dylan Dog è debitore di molto del clima gotico introdotto dall’Eco nazionale), ma le ricerche sulla Lingua Perfetta, tema studiato in parallelo alla nascita della “babelica” unione europea, e che tornerà in Baudolino.

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Il quarto romanzo Baudolino (2000) è quasi un apparente “ritorno all’ordine” dopo le sperimentazioni barocche dell’Isola. Eco torna anche all’eroe mitologico della sua città natale, Alessandria, di cui ricostruisce ipotetiche vicende storiche nell’Europa medioevale che gli è cara, fin dall’esordio dei suoi studi tomistici e dall’esordio del suo monastico romanzo. Anche qui c’è un impossibile Quete du Graal, come in tutti i romanzi: il regno del Prete Gianni invece che il secondo libro della Poetica, la mappa templare, il metodo del punto fijo dei precedenti romanzi. In ogni caso, è sempre la ricerca di qualcosa che possa dare un (impossibile) assoluto.

Per paradosso, se il Nome leggeva gli anni ’70 del terrorismo, il Pendolo gli ’80 della corruzione a sfondo piduistico, l’Isola gli anni ’90 dello sperdimento di un “postmoderno di massa” dopo la caduta dei muri, Baudolino sembra perfetto interprete degli anni 2000, con i loro pretestuosi “conflitti di civiltà”, le invenzioni di misteriosi Preti Gianni per giustificare nuove guerre sante da ambo i lati; ma siamo nel pre-2001, nel pre-decade assoluto.

L’opera, nonostante la scrittura di nuovo “piana”, sconta forse la disillusione del pubblico dopo L’Isola, e forse questo sfalsamento di anticipo sui tempi (con le dovute “ironie” sul corrispettivo reale che qui ovviamente mancano, credo sarebbe stata opera salace e di successo dal 2002 in poi).

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“La storia della bellezza” (2002) crea una completa ricognizione di tale concetto (una “storia di un’idea” che sarebbe piaciuta a Borges) utilizzando appieno le possibilità offerte da un ricco supporto iconografico. Forse proprio la ricchezza visiva di tale studio porta a relegarlo nell’ambito di un libro-strenna, di buon successo ma non così considerato criticamente come meriterebbe, tanto più che si amplia in una trilogia con la storia della bruttezza (anche la copertina “dialoga” con la precedente) e una sulla “vertigine della lista” in un gusto dell’elencazione giocoso, libero, con tratti di divertissment puro e “ariostesco” (l’ippogrifo aveva iniziato a cavalcare sulla copertina di Baudolino, più coeso al filone “gotico” della sua produzione precedente). Ma anche uno studio della catalogia nel momento in cui l’informatica 2.0 dà accesso a una rete che, con il trionfo di Google e Wikipedia, mette a disposizione di tutti una mole di informazioni prima impensabile (sulla rete la riflessione di Eco è filtrata ai giornali nel suo consueto modo ironico e paradossale, con qualche sottovalutazione: ma è stato un punto di vista anche qui di grande interesse).

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La misteriosa fiamma della regina Loana (2004), forse nella consapevolezza dell’impossibilità di un ritorno al successo di pubblico, si compiace di nuovo di una scrittura più sperimentale, affastellando volutamente liste interminabili (oggetto della recente attenzione critica di Eco) nella ricerca del proprio perduto passato da parte del bibliofilo protagonista. Per la prima volta la ricerca dell’Assoluto irraggiungibile non è più metafora sociale e universale ma metafora privata e personale: ci vidi un certo ripiegamento individuale, un gusto della “Vertigine della lista” (2009) che è forse il suo ultimo lascito saggistico, in una trilogia catalogica che include la storia del Bello e del Brutto, e infine il gusto dell’elencazione in sé.

In un certo senso un Eco “politico” rientra in gioco dopo il gran successo de “Il codice da Vinci” Eco prende le dovute distanze: “Dan Brown è un personaggio dei miei romanzi”, spiega, e inizia a interessarsi in modo più sistematico del problema.

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“A passo di gambero” (2006) è infatti la sua opera saggistica contro il mondo regressivo di Berlusconi e Bush,”guerre calde e populismo mediatico” (anche il lisergico smile di Keith Haring in copertina pare sintetizzare la descrizione caustica ma attenta del ventennio berlusconiano allora in corso).

“Storia della bruttezza” (2007) completa la ricognizione simmetrica al bello di cinque anni prima, ma pare anche, se vogliamo, uno studio adatto a quegli anni (integrato dalla “vertiginosa lista”, come detto, del 2009, che chiude questo percorso degli anni 2000.

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In seguito “Il cimitero di Praga” (2010) torna a trattare del suo classico tema della falsificazione della storia e del complottismo incombente anche a livello romanzesco, coi nipotini di Dan Brown. Siamo nell’Italia dei 150 anni dell’Unità, attesi e celebrati con tono ben più mogio del 1961 (e anche, con un po’ d’indagine “archeologica”, del 1911). Eco stesso descrive la fallacia dei miti fondanti (trattando del ruolo di Ippolito Nievo nell’impresa dei Mille): l’eroe che a furia di cambiar maschere non conosce più sé stesso, pirandelliano come quello del precedente romanzo, è però radicalmente diverso: sereno e senile quello, alla ricerca di una conciliazione definitiva nelle braccia materne e terrene della regina Loana, incattivito e agguerrito questi, patriarca delle legioni di complottardi crescenti, nipotini dei “diabolici” ancora settari del Pendolo.

Anche l’ultimo “Numero zero” (2015) pare trattare di questo problema spostandolo nell’attualità: la cover stessa, richiama tratti del Cimitero di Praga, e il giornale dedito alla diffamazione sistematica al centro dell’opera ha un notevole attualismo (e torna sui meccanismi redazionali della più virtuosa redazione editoriale del Pendolo). In questo modo, con gli ultimi due, Eco chiude una sua pentalogia “gotica” cui afferiscono il Nome, il Pendolo, Baudolino come punto intermediario, e poi di nuovo il Cimitero e il Numero (“Numero zero” ha il sapore di una chiusura, rimando a quel “Nomina nuda tenemus” del primo romanzo).

Un Eco ormai “grande vecchio” della tradizione italiana “dell’Espresso”, della sinistra laica e intellettuale, ma che nella freschezza costante dell’ironia e dell’analisi appariva ancora eternamente sé stesso, immutabile nell’aspetto come quei professori che hanno avuto già i nostri padri e ci dicono: “era sempre sembrato così”.

Una scomparsa non certo “a ciel sereno”, quindi, ma che lascia spiazzati chi, come chi scrive, ha avuto e ha ancora in Eco il fornitore di molte e importanti chiavi di lettura sul reale. Ci restano le sue opere: un infinito labirinto in cui cercare (è ovvio: senza trovarla, come ci ha avvertito più volte) la Keyword assoluta, la Password definitiva. O anche solo dilettarci a naufragare in questo verde mare di boschi narrativi.

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Postille alle mie Postille del Nome della Rosa

Pubblico in calce a questo articolo una gentile precisazione del prof. Casarino, che va a correggere un dettaglio della mia sintesi del “Nome della Rosa” (nella versione originale del testo). Il prof. Casarino, oltre alla precisazione, imbastisce una interessantissima riflessione sulla figura di Eco, per cui ho ritenuto di riportare integralmente il suo intervento (L.Barberis).

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STEFANO CASARINO

Bello, intenso e completo l’articolo che Lorenzo Barberis ha dedicato a Umberto Eco su “Margutte”: una vasta panoramica sulle opere scritte da un autore per il quale esprime ammirazione, quasi venerazione.

Eco è stato indubbiamente un imprescindibile modello di letterato postmoderno, contraddistinto da una sterminata (spesso compiaciuta) erudizione e da un raffinato senso dell’ironia.

Trovo personalmente da eccepire solo su un passaggio del denso e gradevolissimo testo, laddove è scritto, a proposito de “Il nome della rosa”:

La disputa sulla povertà di Cristo tra Benedettini e Francescani appare come il dibattito tra il centrodestra DC e la sinistra PCI nel paese, con gli estremi forniti dall’inquisizione del golpista Bernardo Gui e il confuso e violento pauperismo dei fraticelli extraparlamentari.

Con la pedanteria che mi contraddistingue – e che Lorenzo ben conosce e certo non si adonterà: del resto, anche questo deve intendersi come un omaggio allo scomparso Eco che ben maggiore pedanteria aveva impiegato nel suo Saggio introduttivo a “Homo Ludens” di J.Huizinga – rilevo che la disputa non è tra “Benedettini” e “Francescani”, ma tra questi ultimi e i delegati della Curia papale.

Viene scelta come luogo della disputa proprio l’Abbazia benedettina, perché gode di una sorta di extraterritorialità, perché i Benedettini non hanno preso posizione in merito al tema della “paupertas Ecclesiae” e perché l’Abate, in quanto non soggetto all’autorità del Papa, può essere l’unico arbitro imparziale di tale disputa.

Bernardo Gui è, invece, un domenicano, e qui si può ben cogliere l’opposizione, l’animosità che contrappone i due ordini mendicanti sorti nel Duecento, Francescani e Domenicani appunto.

Dante immaginerà che almeno nell’aldilà, nel Paradiso, possano comporre le loro dispute. Tanto che nel canto XI un domenicano, S.Tommaso , tesserà l’elogio di S.Francesco e condannerà la decadenza del proprio ordine e simmetricamente, subito dopo, nel canto XII un francescano, S.Bonaventura da Bagnoregio, esalterà S.Domenico e stigmatizzerà la corruzione del proprio ordine.

Tale gara di cortesia in vita sarebbe stata impensabile!

A questa postilla posso seguitare “alcuna gionta” per unire la mia alla voce di  Lorenzo nella celebrazione di Umberto Eco e mi permetto di fare ancora due considerazioni:

-                     il su ricordato saggio  introduttivo a “Homo Ludens” è, a parer mio, esemplare dello stile e della personalità di Eco, vi si ritrova in parte eguale il suo rigore professorale (che lo induce a “fare le pulci” al povero Huizinga – autore tra l’altro molto ammirato dal Nostro! –, salvo poi concludere con un rigurgito di pietà: “non dobbiamo infierire su un libro che, scritto in altra epoca, era estraneo ai problemi che gli poniamo”: meno male!) e la sua fede nell’ironia e nel gioco, che forse è l’elemento costitutivo più forte di tutta la sua produzione letteraria;

-                     ne “Il nome della rosa”, l’opera che gli dette fama mondiale e il cui successo non riuscì più a ripetere in futuro, tra le tante pregevoli affermazioni ci imbattiamo in questa raccomandazione di Guglielmo al suo pupillo:

Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro.

Questa frase, scritta nel 1980, arriva fresca ed immediata sino a noi, in questi nostri tempi bui di recrudescenza del fanatismo religioso.

Ed è, credo, un laico, prezioso lascito del quale fare memoria.

Stefano Casarino

Su Umberto Eco Stefano Casarino ha scritto anche QUI.