GABRIELLA MONGARDI.
Contemporaneamente alla straordinaria mostra di Monet alla GAM, a Torino, fino al 24 gennaio alla Fondazione Accorsi-Ometto era aperta la mostra “Divisionismo tra Torino e Milano. Da Segantini a Balla”, curata da Nicoletta Colombo: una mostra che finiva col costituire, forse involontariamente, l’inquadramento e lo sfondo storico della prima.
Il divisionismo o neoimpressionismo, infatti, è sì figlio dell’impressionismo, di cui rappresenta per così dire lo sviluppo scientifico, ma come tutti i figli coesiste per un certo tempo con il padre: in questo senso le opere esposte alla Fondazione Accorsi entrano in rapporto con Monet rappresentando, pur nella diversità tecnica, il milieu artistico, il genere di pittura comune da cui si stacca l’opera del grande, e quindi servono a far toccare con mano, a misurare quasi, il talento del genio.
La mostra segue un percorso cronologico che parte dagli ultimi due decenni dell’Ottocento e arriva fino al 1910, anno ufficiale di nascita della pittura futurista. La dimensione geografica è quella lombardo-piemontese perché Torino e Milano erano protagoniste di “una trasformazione sociale in senso riformista, condizione che stimolava più che altrove il passaggio da una cultura strettamente positivista al moderno idealismo”. A Milano e a Torino si tennero le “grandi rassegne pubbliche che ufficializzavano la nuova tendenza”, le Triennali: a Milano nel 1891-1894-1897, a Torino nel 1896.
Ad accogliere i visitatori, Segantini e Pellizza da Volpedo. Il primo con l’imponenza di due Cavalli al galoppo (1888) di cui la tecnica divisionistica accentua il dinamismo, e con la delicatezza dell’ Ave Maria sui monti (1890): una piccola “matita” che non ha funzione propedeutica a nessun dipinto, ma esalta evanescenze e chiaroscuri crepuscolari, diventa “strumento di razionalizzazione delle armonie compositive”.
La terza opera in mostra, Alpe di maggio (1891), è una variante sul tema della maternità: qui i sottili tratteggi di colore puro assecondano le forme degli elementi del paesaggio, dallo sfondo al primo piano, e trasferiscono su un piano metaforico, se non ancora decisamente simbolico, la visione della natura.
Di Pellizza da Volpedo sono esposte due opere che fanno parte del ciclo degli Idilli, L’amore nella vita (1901-1902) e La vecchia nella stalla (1904-1905), oltre a Il sole e a un Paesaggio con figure: opere in cui prevale una luminosità diffusa, una sensibilità quasi preraffaellita, una dimensione intima e sognante.
Ipnotico come il sole di Pellizza è il sole di Previati, in Gregge all’alba: lunghi filamenti di colore roteanti risucchiano tutto il quadro.
Mentre lui, sensibile al clima di crisi dei valori positivisti, si orientava verso una “pittura di stati d’animo”, restano fedeli al realismo e alla montagna Morbelli, Longoni, Fornara.
Di Fornara, originario della Val Vigezzo, è esposto un autoritratto dai tratti marcati come i tetti delle case di montagna sullo sfondo: o sono forse quelle case il suo vero ritratto?.
Longoni nel Ghiacciaio di Cambrena si rivela un pittore d’atmosfera, dell’atmosfera severa e disumana che accomuna i due volti della montagna, quello estivo delle rocce in primo piano e quello invernale del ghiacciaio sullo sfondo; la montagna si impone anche nel quadro di Morbelli Ave Maria di sera, rendendo insignificante la presenza umana in primo piano.
Di Morbelli, il più rigoroso dal punto di vista tecnico, si possono ammirare anche i dipinti del ciclo del Pio Albergo Trivulzio, Vecchine curiose e Le Parche (1904), espressione di un realismo meditativo con accenti sociali: ma nel secondo dipinto prevale su tutto l’emozione del nucleo di luce, davvero caravaggesco.
Paesaggi alpestri dominano anche la pittura di Maggi (Mucche al pascolo), di Tavernier e di Olivero, alla cui Solitudine dopo la neve (1907) – che tiene testa alla Gazza di Monet – si addicono le parole di Paul Auster: quando di una solitudine si impossessa qualcun altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia – qui rappresentata dalla luce del sole, e dal dipingere.
Tra gli artisti della fase storica del divisionismo una posizione autonoma occupa Sottocornola, la cui sensibilità sociale si rivela in un quadro come La piccola ricamatrice, di suggestione mitteleuropea.
L’ultima sezione della mostra è dedicata ai “giovani, futuri Futuristi”, che prima di firmare, nel 1910, il Manifesto dei pittori futuristi, hanno sperimentato il divisionismo.
Boccioni evidenzia la geometria della Campagna lombarda (1908), a quadretti di colore; Carrà grazie alla tecnica divisionistica, eseguita liberamente a piccoli tocchi, assimila l’elemento antropico al paesaggio, sia nel Ritratto di Emilio Colombo (1909) che nel Meriggio a Sagliano Micca, ma è Balla il più rivoluzionario: i pastelli di vedute paesistiche (Villa Borghese con covoni, 1904; Periferia romana) sono caratterizzati da un uso straniante sia del tratteggio che del colore.
Straniante, virato sull’azzurro è anche il luminosissimo Meriggio a Borgotaro (1908) di Dudreville.
Il taglio cronologico della mostra aiuta a seguire l’evoluzione del movimento, attraverso le variazioni nello studio del colore e nell’uso della luce degli autori, e permette di capire meglio “il definitivo cambio di passo dalla sintassi divisionista a quella futurista”.
(pubblicato originariamente il 27-2-2016)