L’incredibile storia del profeta Mansur

25Mansur

Venticinquesima puntata Cuori in attesa

FRANCESCO PICCO

Padre Boetti, dunque, doveva andare a Roma. A farsi condannare, come San Paolo, ma non da Cesare, bensì da Pietro, o qualche suo sottoposto; e non da solo. Con lui doveva andare la sua ombra, che, essendo un’ombra, non trovava nessuno interessato al suo nome. Era l’altro frate piemontese e medico, frate Vittorio Amedeo. Partirono insieme nella notte e nel buio, con un’improvvisata carovana di arabi e turcomanni diretti verso Diyarbakir e di qui verso Costantinopoli, dove si sarebbero imbarcati su una nave francese diretta a Marsiglia.

Su quella nave non salirono mai. Le notizie dei due frati si perdono fra Diyarbakir e Costantinopoli. Le notizie ufficiali, ovviamente. L’ordine domenicano li diede per dispersi, forse morti, nel corso del periglioso viaggio verso la penitenza e la punizione romana. Ma la vera Roma del Padre Boetti non era la Roma dello Stato della Chiesa – sicché le notizie ufficiale non sono le notizie vere. La città vera della sua anima era l’unica città al mondo che lo attraesse come una lampada può attrarre una falena. L’altra città dai sette colli e dalle mille cupole: la sublime Costantinopoli, dove nel quartiere di Üsküdar i due presero alloggio presso un ricco negoziante sciita persiano. Un uomo buono e timorato di Dio, che la coppia di frati piemontesi commosse spacciandosi per un medico francese e per il suo adolescente servitore sardo. Di tanto in tanto, in abiti civili di foggia orientale, kaftan e giubba, medico e servo indugiavano nei sobborghi di Pera e di Galata. Non davano mai troppa confidenza ai genovesi in cui s’imbattevano all’inizio, perché piemontesi com’erano sapevano bene che dei genovesi non bisogna fidarsi. Ben presto il problema si risolse da sé. Il loro aspetto smise di rivelarli per occidentali. Movenze, lingua e gesti divennero in tutto e per tutto ottomani. Anche il refrattario frate Vittorio Amedeo si trovò in breve capace di parlare e capire il turco osmanli, il persiano e l’arabo, passando con insospettata facilità da una lingua islamica all’altra. La metamorfosi auspicata in lui dal suo confratello poté dirsi compiuta il giorno in cui frate Vittorio, dovendo uscire per un incarico del loro ospite persiano, si sentì in dovere di lasciare un biglietto a frate Boetti; e senza nemmeno rendersene conto glielo scrisse in alfabeto arabo, e in lingua osmanli.

Frate Boetti, del resto, da qualche tempo usciva spesso solo dall’alloggio dove i due vivevano. Restava fuori tutto il giorno e ritornava a sera, con gli occhi infuocati, le guance scavate, una strana consunzione nei polpastrelli, e sugli abiti un odore di ferro e di tabacco, qualche volta di sangue. Ma una spaventosa calma nei gesti. Diceva di essere stato in giro per affari, e certamente doveva esserci qualcosa di vero poiché lo si vedeva trafficare, incurante del rischio, con cospicue somme di denaro e di oro che estraeva – come un bambino – dalle tasche del kaftan. Ma come guadagnasse quei soldi e che cosa ne facesse, restava un mistero almeno per frate Vittorio. Non glielo chiese mai. Discutevano sempre più spesso di due argomenti, e di quelli soltanto: la medicina e le armi. L’uno e l’altro non erano certo materia da frati. Così, Vittorio capì che una fase della sua vita era terminata, almeno per il momento, e che questa chiusura era stata ancora una volta decisa da Padre Boetti. Non se l’ebbe a male. Era più che altro curioso. Quale titolo avrebbe avuto il nuovo capitolo della vita che Padre Boetti si stava preparando a scrivere per sé e per lui? Una sera durante la cena, dopo sei mesi di permanenza a Costantinopoli, decise di chiedere al suo compagno se sarebbero ancora rimasti a lungo lì a Üsküdar, in casa del persiano che quella sera era assente.
-          Ancora un mese, poi ripartiremo.
-          E andremo a Roma, a farci processare?
Padre Boetti si alzò dal tappeto su cui stava sdraiato, come su un triclinio, e su cui consuma la cena senza posate, alla maniera orientale. Fece alcuni passi nella stanza. Si affacciò alla finestra da cui si vedeva il Bosforo. A frate Vittorio, rimasto seduto sul tappeto con la mano nel piatto, tornò in mente una scena che aveva già visto. Non nel passato, ma nel futuro. Il turco barbuto che stava guardando fuori dalla finestra era identico al frate armeno che molti decenni dopo avrebbe gettato lo sguardo verso le isole ghiacciate di Solovetsk, attraverso le feritoie di un convento fortificato ai confini boreali del mondo. Il cuore gli fece male, mentre giocava a rincorrere le extrasistoli nel suo giovane petto glabro. Intanto, padre Boetti aveva deciso di rispondere:
-          Andremo a Sinop, sul Mar Nero. Ho delle cose da prendere là. Cose importanti. Ci serviranno.
-          E poi?
-          Dio ci dirà dove andare. Dio, capisci? Non il superiore dell’ordine. E nemmeno il papa. Dio. Dio, che… E adesso che cosa fai?
Frate Vittorio si era intanto alzato anche lui dal tappeto e, una volta in piedi, si era levato il kaftan, restando a torso nudo, visibilmente sudato e tremante. Così aveva interrotto il discorso di padre Boetti:
-          Di’ intanto a Dio, se sei così in confidenza con lui, che mi faccia calmare il cuore. Altrimenti mi scoppierà.
-          Di’ tu al tuo cuore che ha finito di attendere. Per parlare con il tuo cuore, non hai bisogno di Dio. 

(Continua)

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Illustrazione di Franco Blandino

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