A Giorgio Bassani nel centenario della nascita.
GABRIELLA MONGARDI.
Ci vuole del tempo, si sa, perché certe storie possano emergere “dall’imbuto senza fondo del Maelstrom” ed essere raccontate, anche da parte di uno che ha fatto della scrittura la sua professione. Soprattutto se si tratta di qualcosa che ha a che fare con una delle pagine più buie della nostra storia, quella dell’antisemitismo fascista, di fronte a cui un sopravvissuto non può forse sfuggire alla vergogna del “salvato” rispetto ai “sommersi”, oltre a fare i conti con la naturale reticenza dovuta all’indicibile dolore legato ai propri ricordi personali (Bassani conobbe le prigioni fasciste, la sua famiglia visse nascosta in un armadio per non essere deportata).
Ecco allora che la letteratura, la scelta del romanzo (e non del saggio, della testimonianza storica) può costituire quel filtro che permette di dire-e-non-dire, di nascondersi dietro i personaggi di un romanzo per parlare di sé, per dar voce alla propria visione della storia e alla propria filosofia di vita. Ecco allora che il sapere narrativo, la raffigurazione artistica, grazie al suo statuto di sovrana libertà, permette di guardare a un passato ignominioso da una distanza siderale, in modo che la condanna di quel passato resti sullo sfondo, implicita, e il primo piano sia occupato non certo dalla «dolcezza sentimentale» che Barilli gli imputa, ma da una dolente pietà, che però lascia spazio, se non all’ironia, a un tocco leggero, tra estetismo e decadentismo.
Il romanzo è messo sotto il segno di Manzoni, e non solo perché è un “misto di storia e di invenzione”: la citazione dal cap. VIII dei Promessi Sposi in esergo dà, più che una chiave, una prospettiva di lettura. «Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto»: l’antitesi tra quello che sarà e quello che è già accaduto ritornerà nell’ultima pagina del romanzo, nelle parole di Micòl che rifiuta il futuro preferendogli l’oggi e ancor più “il caldo, il dolce, il pio passato”, e che l’io narrante mette a suggello di “quel poco che il cuore ha saputo ricordare”.
Una prospettiva amputata della dimensione del futuro, come avveniva in La montagna magica di Thomas Mann: ma mentre nel capolavoro manniano era la malattia (e la filosofia) a educare alla morte Hans Castorp, qui è la storia, e la cosiddetta razza. Come ha rilevato Manganelli: «Nel loro giardino di alberi eletti, che li veste come una illustre tomba, li esclude dall’esistenza ma non simula di proteggerli, essi (i Finzi-Contini, n.d.r.) praticano la sottile eleganza della morte. […] Essi soli, nel disordine della storia, godono di un punto di vista inalterabile; non subiscono la morte, e pertanto non si offrono come vittime, ma con essa si identificano; le sono fedeli per arcaica devozione». In questa prospettiva, l’unico punto di vista inalterabile è quello del passato, in cui coerentemente Micòl si rifugia, e lo stesso vale per il narratore-testimone: la sua è la memoria del cuore senza le intermittenze proustiane, una memoria storico-affettiva, il com-pianto di chi al cuore “dà retta”. Del resto, anche per lui «più che il possesso delle cose contava la memoria di esse», anche lui ha il vizio «d’andare avanti con la testa sempre voltata all’indietro».
Bassani, in un’intervista del 1979 a Carlo Figari reperibile sul sito della Fondazione Giorgio Bassani, rivendica così la narrazione in prima persona: « È la mia storia! Il piano privilegiato è quello del poeta. Io racconto di me. Micòl non è altro che una parte di me. “Madame Bovary c’est moi!” dice Flaubert. […] Nel romanzo dei Finzi Contini io parlo di me, il personaggio fondamentale non è né Micòl, né Ferrara, sono io! Nella vaghezza, nell’imprecisione, nella riluttanza a dire io che ha la letteratura del ’900, e non senza motivo, spero di aver riconquistato il diritto di dire io, dopo il Romanticismo, il Decadentismo e così via. […] Non l’ho fatto per fare dell’autobiografia, mi serviva per dare credibilità al personaggio che dice io, che è uno che ha fatto la mia storia. Assomiglia molto da vicino a me. E lo stesso professor Ermanno mi assomiglia molto, è parte di me».
Il romanzo è articolato in quattro parti, corrispondenti a quattro diverse ‘stagioni’ della storia – l’infanzia, il tennis, l’amicizia, l’amore rifiutato – che sembrano ricalcare la Vita Nova di Dante: infatti tra la prima e la seconda parte, tra gli incontri da lontano con Micol bambina in sinagoga e le prime partite a tennis con lei e il fratello nel giardino, c’è uno iato temporale di nove anni, come tra il primo e il secondo incontro di Dante con Beatrice.
A fare da cornice a questa “storia ferrarese”, un Prologo e un Epilogo. È il Prologo a fissare la distanza che rende possibile la narrazione: la gita domenicale nella necropoli etrusca di Cerveteri è l’equivalente moderno (o postmoderno?) del gesto di Omero nei Sepolcri di Foscolo, che interroga le tombe troiane per cantare gli eroi vinti: anche l’io narrante di Bassani parte da una tomba vuota nel cimitero ebraico di Ferrara, una tomba che la memoria filtra attraverso La tempesta di Shakespeare e Il piacere di D’Annunzio («già allora appariva trasformata in quell’alcunché di ricco e meraviglioso in cui si tramuta qualunque oggetto lungamente sommerso»), e narra una storia di cui si sa già com’è andata a finire…
In questo senso il suo romanzo, più che un romanzo, è epos (post)moderno: epos reticente, epos del non-detto, del non-narrato, per tutelare la Vita (e la Memoria) dalla violenza del Male. Nell’unico modo possibile a un poeta, quello della Letteratura.