Le ultime lettere di Giuda Iscariota.
FRANCO RUSSO.
Giuda Iscariota non è un personaggio a cui si possano assegnare le categorie dell’apparenza o dell’ambiguità. Anzi. Giuda è solare: per Dante il peccatore più infame, degno del castigo più crudele nell’ultima fossa dell’Inferno; per il catechismo, che studiavamo da bambini, il traditore per eccellenza reso ancora più turpe dai trenta denari e, soprattutto, dal bacio; per la lingua italiana titolare principe della figura retorica dell’antonomasia: “il tuo prezzo sono trenta denari” , “è il bacio di Giuda”, “sei un Giuda”. Giuda non appare, è il traditore, né è, in alcun modo, ambiguo se non, forse, nel volersi mostrare di fronte a Gesù ed agli apostoli diverso e migliore di come, in realtà, era. Ma è un’ambiguità ignobile, la madre del tradimento. Ma…
Ricordo che, da bambino, frequentando, come tutti, in quel di Caraglio, oratori e catechismi, mi piaceva accompagnare un vecchio e severo Vicario, don Mario Beltramo, mentre, al tramonto, passeggiava nel giardino della canonica leggendo il suo breviario. Ero un bambino impertinente, curioso e con una certa predisposizione a non accettare le regole. E Giuda, pur dipinto da zelanti catechiste come il male assoluto, non mi era antipatico. Una sera rivolsi a don Mario questa domanda: “Signor Vicario ma se Gesù faceva tutti i miracoli, predicava e la gente gli andava dietro che bisogno c’era che Giuda lo baciasse per fare capire alle guardie chi era?” Non ci fu risposta oppure non la ricordo ma so che il dubbio mi rimase. Crescendo e leggendo qualche cosa in più scopersi che Giuda era, tra l’altro, il tesoriere degli apostoli e come tale, disponeva di qualche somma di denaro. E mi sono, spesso, chiesto se fosse davvero tanto avido da aver bisogno anche dei trenta denari.
Recuperando le impertinenti domande del bambino e i dubbi dell’adulto ho provato ad immaginare di essere Giuda e di indirizzare una lettera a Gesù, anzi, tre lettere, da tre posti diversi.
DALL’INFERNO
Nazareno, mio Maestro,
solo la grandezza della mia colpa e della mia pena hanno convinto i demoni incaricati di infliggermi il castigo eterno a concedermi questo breve tempo per rivolgermi a te. Sei il figlio di Dio e, quindi sai. Sai che non ti ho tradito. Tu sai e, proprio perché sai, il mio parlare potrebbe sembrare inutile ma, mentre mi danno e soffro, penso. Penso agli altri fratelli che, con me, ti seguivano. E tu sai che non eravamo dodici, ma forse cinque o sei. E tu sai con quanta attenzione io abbia indagato la tua predicazione, la tua sofferenza, ma anche le tue invettive contro i sommi sacerdoti. E le tue critiche all’invasore romano e la tua carità ai deboli ed agli oppressi, quei deboli che – dicevi tu – erano le vittime dei sacerdoti e dei romani. E sai che non solo io ma io più di tutti ti ho creduto ed ho sofferto. E ho pensato che le tue parole volessero indicarci una strada, che volessero farci risvegliare la coscienza di un popolo schiavo che, ribellandosi, sapesse restituire il trono di Davide ai suoi discendenti. Mentre predicavi mi guardavi ed io ho pensato che tu questo ti aspettassi da me. E così ti ho “consegnato” non “tradito” ai sacerdoti. Perché tu potessi spiegare loro il tuo messaggio. E se, come dicevi sempre tu, non fossi riuscito a spiegarti allora ti saresti sacrificato per tutti noi. E il popolo, il tuo popolo, i tuoi fedeli, i miracolati avrebbero impugnato le sacre armi, avrebbero vendicato il tuo sacrificio e reso giustizia alla tua umana divinità. Questo messaggio io ho sempre letto nelle tue parole, nei tuoi insegnamenti, nel tuo esempio. Non fosti tu a scacciare i mercanti dal tempio e a maledire i farisei? E allora, se tutto questo è vero, se tu sai, perché sono qui?
DAL PURGATORIO
Nazareno, mio pietoso e misericordioso Maestro,
hai visto, hai letto, hai sentito, hai ricordato. Ed hai interceduto per me col Padre. Ma, da questo luogo di penitenza e di espiazione, vedo adesso la mia colpa. E la mia cecità. Non era il trono di Davide, né la libertà del tuo popolo, né un vantaggio terreno quello che volevi. Ed io ho peccato anche di superbia quando ho ritenuto che gli altri tuoi discepoli non avessero capito e che tu – perdonami – fossi troppo spirituale per realizzare quello che credevo fosse il tuo progetto. Ho creduto che loro non capissero ma che tu volessi quello che voleva il tuo popolo: liberarsi dal giogo dei romani. Quel popolo stanco dei mercanti del Tempio, degli scribi e dei farisei, dei sadducei e dei leviti, voleva un segno da te. Ed io ho ritenuto – perdonami ancora – che tu fossi troppo distante da queste cose terrene per spendere la tua autorità. Così, con orrenda superbia, mi sono sostituito a te ed ho pensato di poter manovrare la tua santità celeste al servizio di una miseria terrena. Non avevo capito la grandezza del tuo insegnamento che non guardava alla Palestina e al presente ma al mondo intero ed all’eternità. Perdona, ti prego, la mia cecità. Ma, se a tanto posso aspirare, posso ancora domandarti, umilmente, una risposta? Oggi mi è chiara la missione che il Padre ti aveva assegnato: scendere in terra, subire i processi e le torture, essere vilipeso, morire sulla croce per salvare gli uomini. Ma se è così – ed è così – quale fu la mia colpa se non quella di essere strumento della tua volontà? Se non ti avessi consegnato nelle mani dei sacerdoti non saresti stato sacrificato e non avresti potuto portare a buon fine quanto il Padre ti aveva ordinato. Sono, dunque, stato inconsapevole strumento della tua volontà? Ma, se è così, dov’è la mia colpa? Ho creduto che fossero la mia volontà, la mia superbia, il mio egoismo ad armare la mano dei tuoi carnefici ma, senza questo spregevole Giuda Iscariota, non si sarebbe compiuta la volontà del Padre.
DAL PARADISO
Maestro celeste,
la tua misericordia mi permette oggi di vedere la luce, di starti accanto e di godere delle celestiali beatitudini. I disegni imperscrutabili tuoi e del Padre mi hanno concesso il privilegio di fare il viaggio dalla dannazione eterna alla eterna gioia passando attraverso l’espiazione. E, adesso, nell’estasi della Tua luce, vedo con chiarezza. Vedo, con il giusto distacco, le miserie terrene, vedo la futilità degli orgogli, dei progetti, delle macchinazioni, delle libertà, delle aspirazioni, dei sentimenti umani. Tutto questo, che appassiona gli uomini, che li costringe ad amare e ad odiare, a combattere e ad uccidere, a fare inutili paci e a combattere inutili guerre, a costruire amori, case, templi e a distruggerli, a speculare e ragionare, a sognare un futuro ed a lavorare per costruirlo, tutto questo non è nulla. La scintilla per un fuoco immenso, un granello di sabbia di un deserto, una goccia di un oceano. Ed il fuoco, il deserto, l’oceano sono qui, sono il Paradiso, sono il disegno compiuto e realizzato della Tua Maestà. Foreste, branchi, sentimenti, chiese, vite nate e vite morte, sofferenze e piaceri altro non sono che gli strumenti attraverso i quali gli uomini, tutti, percorrono il loro viaggio e, se lo meritano, arrivano Qui.
CONCLUSIONE
Mi rileggo e, con qualche disperazione, mi accorgo di avere voluto giocare con cose più grandi di me. Sono partito per provare a riabilitare Giuda almeno riconoscendogli il pregio dell’ambiguità. Ma non è lui ad essere ambiguo. Spiritualmente cieco, superbo ed ambizioso, ingenuo e generoso, disperato ed eroico fino al punto da, essendo innocente, punirsi nel togliersi la vita (forse) ma non ambiguo. Strumento inconsapevole di disegni alti, sciocco operaio di un libero arbitrio per nulla libero, vittima designata di una storia scritta ma non vissuta, martire di vangeli scritti da chi non lo aveva neppure conosciuto, mostro disegnato da concili che dovevano scrivere una storia, orco cattivo per bambini innocenti, risorsa per grandi poeti. E’ stato sicuramente tutto questo ma non è questo essere ambiguo. Forse l’ambiguità non era in lui ma in chi lo ha designato strumento di una operazione di mercato. Allora mi domando perché vivere se la vita è solo un gioco crudele. La libertà è una finzione, la ragione una inutile speculazione intellettuale, il bene un mezzo e non un fine, i figli destinati a soffrire, gli alberi a seccare, le specie animali ad estinguersi e i sentimenti a morire. Tutte le cose in cui crediamo non sono altro che strumenti di un progetto già scritto, regole di un gioco che Qualcuno ci ha regalato (o imprestato) sapendo già chi vince e chi perde. Qualcuno che ci ha complicato il gioco perché, essendo pura Bontà, ha inventato il Male. Qualcuno che sa già come finirà. Qualcuno che, forse, guarda dall’alto, divertito, il nostro inutile agitarsi e rincorrerci. Qualcuno che è così più forte di noi che l’unico innocente dispetto che possiamo fargli è quello di vivere con leggerezza. E sorridendo. Magari strappando un sorriso anche a Lui. Ma qui mi arresto perché ho di fronte a me cose più grandi, troppo più grandi, di me. E, forse, alla fine del gioco sono io ad essere il personaggio più ambiguo della storia.
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Franco Russo nasce 70 anni fa da madre piemontese e padre calabrese. Eredita il peggio delle due regioni. Dopo essersi laureato in Lettere moderne all’Università di Torino discutendo con il prof. Barberi Squarotti una tesi sul teatro inedito di Edoardo Calandra, ha fatto il preside per trentatré anni perché era il mestiere di suo padre, perché gli piaceva e perché era l’unica cosa che sapeva fare bene. Nutre passioni ricorrenti ed inconciliabili quali la micologia, l’archeologia subacquea e la Juve. È fortemente laico e da laico razionalista colleziona penne e libri vecchi. È un ateo devoto e come tale colleziona santini, crocefissi e diavoli. Prima o poi metterà ordine nelle sue carte e pubblicherà un libro. Finora non lo ha fatto perché sa che, ben che vada, arriverà terzo, dopo Dante e Manzoni.