GABRIELLA VERGARI.
Si può fare poesia dell’orrore, della paura innalzata a sistema ed alimentata al punto da non lasciare spazio alle altre fibre dell’animo, del malessere che toglie il respiro, e delle privazioni gratuite, costanti, quotidiane, così da trasformare uno smalto per le unghie, un mascara, una lacca in un Eldorado irraggiungibile e proibito?
Ebbene, Herta Müller lascerebbe propendere per il sì, e non perché la letteratura, per sua stessa essenza, sia da sempre stata in grado di sublimare qualunque tipo di realtà, ma proprio perché l’autrice, nata nel 1953 in un villaggio di lingua tedesca nel Banato rumeno ed invisa al regime di Ceaușescu, è riuscita a realizzare, con il suo “Il paese delle prugne verdi”, premio Nobel per la Letteratura 2009, un libro assolutamente singolare e meraviglioso (Die Zeit).
Arduo riassumerlo e a volte perfino comprenderlo appieno, nella lettera che continuamente si fa metaforica rimandando al non detto e si avvale della parola non tanto per descrivere sentimenti, stati d’animo e fatti che si intuisce impossibili a rendersi fino in fondo, quanto per alludervi o lasciarli trapelare dal velo (ovvero lo schermo) dell’apparente.
Un po’ come accade negli scambi tra la voce narrante – l’autrice stessa? – ed i suoi amici: Poiché avevamo paura, Edgar, Kurt, Georg ed io stavamo insieme ogni giorno. Stavamo seduti al tavolo, ma la paura rimaneva isolata in ogni testa, così come ce la portavamo dietro quando ci incontravamo. Ridevamo molto, per nasconderla gli uni agli altri. Perché la paura svicola. Quando si domina il proprio volto, sguscia fuori nella voce. Se riesci a tenere in pugno il volto e la voce come se fossero un pezzo inanimato, sfugge persino dalle dita. Trapassa la pelle. Gira libera, la si vede negli oggetti che stanno nelle vicinanze.
Vedevamo dove fosse la paura e di chi, perché ci conoscevamo già da tempo. Spesso non ci potevamo sopportare perché eravamo dipendenti l’uno dall’ altro. Dovevamo offenderci […] Il riso era duro, bucavamo il dolore. Si faceva presto, perché ci conoscevamo da dentro. […] Nella paura avevamo scrutato l’uno nell’altro, più profondamente di quanto fosse lecito.
Sullo sfondo, mai appiattiti né tanto meno piatti, molti personaggi minori, ciascuno col proprio dolente bagaglio umano, nel vissuto di un Est europeo asfissiato da ideologie e barriere, lacerato dai tormenti e corroso dal grigiore della sua storia in controcanto col celebrato edonismo reaganiano delle cosiddette democrazie occidentali.
Ed ecco l’ungherese signora Margit, costretta dalla guerra a cercare rifugio in Romania e poi impossibilitata a rimpatriare dalla chiusura dei confini – La signora Margit cercava di sorridere, ma i suoi occhi non obbedirono, quando disse: Qui mi sono sistemata bene, a Pest non c’è più nessuno che mi aspetta.
O la giovane ed ambigua Teresa, il cui padre in fabbrica era un’autorità e perciò si permette vestiti dalla Grecia e dalla Francia. Maglioni dall’ Inghilterra e jeans dall’America. Aveva cipria, rossetti e mascara dalla Francia, gioielli dalla Turchia. E calzamaglie sottilissime dalla Germania. Alle donne dell’ufficio, Teresa non piaceva. Si intuiva cosa pensassero, quando vedevano Teresa. Pensavano: Tutto ciò che Teresa indossa vale una fuga.
O l’inquieta e sfortunata Lola – le vedevi addosso un ambiente rimasto povero [… ] Ogni ambiente in paese era rimasto povero, così come in ogni volto. Ma l’ambiente di Lola, per come appariva nelle ossa degli zigomi, o intorno alla bocca, o in mezzo agli occhi, era forse più povero. Più ambiente che paesaggio –, il cui suicidio rinsalda l’unione tra la protagonista ed i suoi amici, nel desiderio di capire ciò che in realtà sanno bene da tempo.
E poi le tante sarte ed i barbieri, il proletariato delle pecore di latta e dei meloni di legno, gli operai del mattatoio, i bevitori di sangue che vincolano Kurt al suo destino, gli uomini e le donne che progettano la fuga e vedono nel Danubio un’acqua che può diventare straniera, ansiosi di attraversarla a nuoto durante una giornata di nebbia. E ancora: coloro che erano impazziti ed avevano scambiato la paura con la follia; la nana sordomuta sulla piazza di Traiano, ogni anno messa incinta dagli uomini che tornavano dal turno di notte e da cui non faceva in tempo a scappare, perché non poteva sentirli arrivare; l’uomo con il papillon nero al collo con il suo mazzo di fiori appassiti, nell’attesa vana quanto struggente della moglie che tutti sanno morta in prigione; i molti che, applaudendo ai diktat del Partito, lanciano occhiate alle mani degli altri per non mostrarsi da meno e non dare l’impressione di voler smettere per primi.
Infine le madri ed i padri che cercano di portare il peso della loro condizione in bilico per le attività sovversive e parassite dei figli, i vecchi ed i nonni che rimandano all’ ambiente rurale ed arcaico di una campagna sospesa nel tempo e viva del folclore delle sue tradizioni.
Tutto può essere insieme bellezza e baratro e gli oggetti o le parole più innocenti possono rivelarsi simboli immaginifici ovvero emblemi perniciosi se non addirittura esiziali: Scrivendo, non dimenticare la data e metti sempre un capello nella lettera, disse Edgar. Se dentro non c’è, vuol dire che la lettera è stata aperta.
Singoli capelli, pensai tra me, sui treni, attraverso il paese. Un capello scuro di Edgar, uno chiaro, mio. Uno rosso di Kurt e Georg. Entrambi venivano soprannominati dagli studenti ragazzi d’oro. Per l’interrogatorio una frase con forbici per unghie, disse Kurt, per la perquisizione una frase con scarpe, per il pedinamento una frase con raffreddato. Dopo il titolo sempre un punto esclamativo, per una minaccia di morte solo una virgola.
Così, pure un pacchetto di carta bianca in una foto può provocare la nausea se a portarlo è il capitano Pjele che attraversa la piazza di Traiano tenendo il nipotino per mano, per cui la voce narrante si augura che il capitano Pjele trasportasse un sacco con tutti i suoi morti […] e che questo bambino provasse disgusto per le dita che gli offrivano la torta.
Ma il timore è che questi bambini siano invece già complici e che le guardie continuino ad andare su e giù per le strade, riempiendosi le tasche di prugne verdi. Non bisogna mangiare prugne verdi – ammonisce il padre – il nocciolo è ancora tenero e si ingoia la morte. Inoltre mangiaprugne è l’insulto rivolto agli arrivisti, ai rinnegatori di se stessi, alle persone che camminano sopra i cadaveri. E naturalmente le guardie non si cibano di simili frutti per fame, ma per iattanza e per il sapore aspro della povertà davanti alla quale appena un anno prima abbassavano gli occhi e chinavano il capo come davanti alla mano del padre. La loro funzione è fare cimiteri con cani e proiettili, e questo spiega pure perché nel romanzo si citino spesso le forbici ed i bottoni, che i morti non possono più utilizzare. Dunque, finché si sia in vita, anche in un paese così degradato e derelitto, così percorso dal terrore e dalla persecuzione, è doveroso camminare, mangiare, dormire ed amare qualcuno, coltivando comunque, nella propria testa, il secondo ed il terzo prato che cresce come vuole.
Libero, almeno lui.