L’Astolfo Curioso

LORENZO BARBERIS

Ricorre quest’anno, come arcinoto, il mezzo secolo della prima edizione dell’Orlando Furioso, data che, coincidendo con i quattrocento anni della morte di Shakespeare e Cervantes, è celebrata come giornata mondiale della letteratura.

Margutte ha già omaggiato doverosamente la celebrazione, ma approfitto dell’ospitalità di questo spazio letterario per alcune considerazioni personali.

Il mio primo approccio al Furioso è avvenuto con una riduzione per ragazzi che mi avevano regalato alle elementari, e che non ho più ritrovato su internet. Ricordo solo che si concludeva con un test rivolto ai giovani lettori in cui chiedeva se preferivano quel tipo di storie o altre, tipo i western, la fantascienza o quelle di supereroi.

Mi venne di pensare, già allora, che in effetti non c’era molta differenza, alla fine, e non ho cambiato radicalmente idea. Il poema epico cavalleresco, forse più del romanzo ottocentesco e il suo superuomo borghese, è alle spalle dell’immaginario pop moderno.

L’altra modesta considerazione che mi venne è che il titolo era sbagliato, per così dire. Il vero eroe, per me, era indubbiamente Astolfo. L’Orlando Furioso era il problema, non la soluzione, mentre l’astuto Astolfo risolveva brillantemente il problema (un po’ come, nell’lIiade per ragazzi, vedevo Ulisse come il vero eroe, più che Achille. Tanto è vero che il sequel l’avevano dedicato a lui).

Per quanto riguarda Astolfo, lo stesso Dorè, nelle sue illustrazioni dell’opera, fondamentali per quanto tardive e ottocentesche, gli dedica la copertina: Astolfo in sella all’Ippogrifo è il simbolo del Furioso molto più di Orlando in sé (anche grazie a questa influente cover ariostesca).

Almeno due cavalieri fantascientifici saranno influenzati in modo determinante da Astolfo e da Doré (non a caso, entrambi del fumetto francese): la amazzone di Metal Hurlant – la prima cover della storica rivista – e l’Arzach di Moebius.

Astolfo, dal tedesco antico Ast-Ulf, “lancia soccorritrice” (sia in senso simbolico, poiché giunge in soccorso a Orlando, sia in senso reale, perché possiede a lungo la lancia fatata che rende invincibili, anche se non la userà mai) appare per la prima volta nel VI canto.

Ruggiero (che giunge qui con l’Ippogrifo, che sarà poi associato ad Astolfo, il quale lo ritroverà nel palazzo di Atlante, dov’era finito) lo rinviene trasformato in mirto nel regno della maga Alcina, che si potrebbe collocare nell’arcipelago giapponese.

Ovviamente la metamorfosi rimanda a quella di Polidoro nell’Eneide, ripresa da Dante in quella di Pier delle Vigne nella selva dei suicidi. Si crea così in Astolfo, fin dall’inizio, una continuità con l’Epos classico (più ovvia) e una anche con quello sacro dantesco (che continuerà, come diremo).

Astolfo, in forma di pianta, si presenta:

Il nome mio fu Astolfo; e paladino
era di Francia, assai temuto in guerra:
d’Orlando e di Rinaldo era cugino,
la cui fama alcun termine non serra;
e si spettava a me tutto il domìno,
dopo il mio padre Oton, de l’Inghilterra.
Leggiadro e bel fui sì, che di me accesi
più d’una donna: e al fin me solo offesi.

*

Si sintetizza così il tema di Astolfo come era apparso nell’Orlando Innamorato del Boiardo, che ne aveva fatto piuttosto un raffinato damerino, il quale vinceva tutti gli scontri grazie alla sua lancia fatata a cui si collega anche nel nome.

Come narra anche qui, egli era giunto quindi all’isola di Alcina, e la trova che raccoglie pesci con i suoi poteri magici: pescatrice che ben presto si rivelerà anch’ella “pescatrice di uomini”, ad-escando appunto Astolfo nonostante i richiami dei più saggi compagni, Rinaldo ed altri.

Alcina, sorella di Morgana (la celebre commistione col ciclo arturiano), usurpa il regno alla sorella Logistilla (la logica, la magia naturalis in senso razionale e positivo), che resiste in un castello isolato protetto da montagne, come la Scozia dall’Inghilterra (di cui il nostro Astolfo è il signore). Per un po’ si diletta con Astolfo, ma poi si stufa di lui e lo trasforma nella suddetta pianta. Evidente il rimando classico al mito di Circe, che tramutava gli uomini in animali, invece che vegetali.

Da tale condizione Astolfo viene liberato da Melissa (maga benevola, che aiuta Logistilla) due canti dopo, all’VIII: Alcina lascia il castello e così

diede commodità, diede grande agio
di gir cercando ogni cosa a sua posta,
imagini abbruciar, suggelli torre,
e nodi e rombi e turbini disciorre.

Distrutti i sigilli magici (Ariosto mostra la ovvia cultura-base esoterica di un dotto del rinascimento) gli incantesimi si annullano.

Nulla pare a Melissa d’aver fatto,
quando ricovrar l’arme non gli faccia,
e quella lancia d’or, ch’al primo tratto
quanti ne tocca de la sella caccia:
de l’Argalia, poi fu d’Astolfo lancia,
e molto onor fe’ all’uno e a l’altro in Francia.

Trovò Melissa questa lancia d’oro,
ch’Alcina avea reposta nel palagio,
e tutte l’arme che del duca foro,
e gli fur tolte ne l’ostel malvagio.
Montò il destrier del negromante moro,
e fe’ montar Astolfo in groppa ad agio;
e quindi a Logistilla si condusse
d’un’ora prima che Ruggier vi fusse.

Astolfo, nel tornare pienamente sé stesso, recupera anche la Lancia d’Oro invincibile che gli appartiene che, però, non userà (Ariosto sottolinea che non ne conosce i poteri: in verità credo che, volendo connotarlo come eroe di astuzia e non di forza, non lo mette mai in una vera tenzone; in più, già Boiardo aveva sfruttato il tema della lancia). Il libro forse serviva ancor più a connotarlo quale eroe dotto; ma poi Ariosto userà molto più il corno incantato.

Poi, col tipico entrelacement ariostesco, Astolfo sparisce di scena fino al canto XV, dove torna sulla via del ritorno in Inghilterra:

Gli è tempo ch’io ritorni ove lasciai
l’aventuroso Astolfo d’Inghilterra,
che ’l lungo esilio avendo in odio ormai,
di desiderio ardea de la sua terra;
come gli n’avea data pur assai
speme colei ch’Alcina vinse in guerra.
Ella di rimandarvilo avea cura
per la via più espedita e più sicura.

E così una galea fu apparechiata,
di che miglior mai non solcò marina;
e perché ha dubbio per tutta fiata,
che non gli turbi il suo viaggio Alcina,
vuol Logistilla che con forte armata
Andronica ne vada e Sofrosina,
tanto che nel mar d’Arabi, o nel golfo
de’ Persi, giunga a salvamento Astolfo.

*

Logistilla, vinta la guerra contro Alcina, gli consegna due doni magici ulteriori per le sue imprese: un corno fatato da guerra (che ricorda l’Olifante di Orlando) e un libro magico. Il libro magico avrà un singolo uso nella prima vera impresa di Astolfo che viene narrata subito dopo; il Corno, invece, lo caratterizzerà fortemente per tutto il poema. Ariosto, che non vuole metterlo al centro di scontri (altri sono gli eroi che devono distinguersi per la virtù guerriera) glieli fa risolvere tutti con il corno terrorizzante. Astolfo è così un anti-Orlando, essendo che Orlando, nella celebre Chanson de Roland composta negli anni delle prime crociate, si sacrifica a difendere la retroguardia di Carlo Magno a Roncisvalle e, benché spronato da Oliviero, rifiuta di suonare l’Olifante.

Giunto sulle sponde dell’Africa dalle lontane Indie, Astolfo risale quindi il corso del Nilo, in terra nemica, protetto dalla benedizione di un eremita:

- Vattene in pace (rispose), figliuolo;
Dio mandi in difension de la tua vita
l’arcangelo Michel dal sommo polo: -
e benedillo il semplice eremita.
Astolfo lungo il Nil tenne la strada,
sperando più nel suon che ne la spada.

Appare già il tema della protezione divina accordata ad Astolfo, e forse già l’eremita intravvede in lui il ruolo cruciale nella guerra santa.

Risalendo il Nilo, Astolfo vince Caligorante, mostruoso gigante che adorna la sua dimora delle ossa dei morti che egli uccide. Egli combatte con una rete magica, ma il corno di Astolfo lo induce al terrore (è il suo potere) e cade egli stesso prigioniero nella rete.

La rete era quella usata da Vulcano per imprigionare Marte e Venere; in seguito, l’aveva rubata Mercurio per catturare Aurora, e quindi a lungo, per tremila anni, resta custodita nel tempio di Anubi (Ariosto qui dimostra la sua cultura ermetica, collegando il dio dei morti egizio Anubi a Hermes, ugualmente psicopompo).

Così Astolfo giunge a Il Cairo con il gigante prigioniero:

Astolfo se ne va tanto, che vede
ch’ai sepolcri di Memfi è già vicino,
Memfi per le piramidi famoso:
vede all’incontro il Cairo populoso.

Qui, per la sua grande impresa, è richiesto a compierne una ancora più grande, vincendo il negromante Orrilo, che infesta la regione. Astolfo affronta così il mostruoso stregone già combattuto da due figli di Oliviero. L’episodio serve ad Ariosto a mostrarci un Astolfo che dimostra anche una certa astuzia, e non risolve gli scontri in automatico, con il cheat mode degli oggetti magici.

Or fin a’ denti il capo gli divide
Grifone, or Aquilante fin al petto.
Egli dei colpi lor sempre si ride:
s’adiran essi, che non hanno effetto.
Chi mai d’alto cader l’argento vide,
che gli alchimisti hanno mercurio detto,
e sparger e raccor tutti i suo’ membri,
sentendo di costui, se ne rimembri.

Il percorso di Astolfo ha una valenza sottilmente iniziatica, e non è forse un caso che risalga il corso del Nilo, presso gli antichi egizi. Prima ha vinto la “rete di Mercurio”: ora affronta un alchimista che è riuscito a dare al suo corpo le proprietà del mercurio, l’Argento Vivo (in pratica, è il T1000 di Terminator 2).

Viene qui utile il secondo dono, il libro degli incantesimi (il celebre Libro del Comando delle streghe, secondo il folklore anche piemontese) che poi non sarà più usato:

Astolfo nel suo libro avea già letto
(quel ch’agl’incanti riparare insegna)
ch’ad Orril non trarrà l’alma del petto
fin ch’un crine fatal nel capo tegna;
ma, se lo svelle o tronca, fia costretto
che suo mal grado fuor l’alma ne vegna.
Questo ne dice il libro; ma non come
conosca il crine in così folte chiome.

Astolfo risolve il problema decapitando Orrilo e poi con calma, mentre il corpo vaga casualmente (non muore, ma non riesce a vederlo), taglia con la spada tutti i capelli (un rimando al Sansone biblico). L’Astolfo barbiere così dimostra di possedere astuzia, e non solo oggetti magici in quantità.

A questo punto, dall’Egitto il paladino si reca a Gerusalemme (si mostra sempre più come il cammino sia sapienziale).

Al finir del camino aspro e selvaggio,
da l’alto monte alla lor vista occorre
la santa terra, ove il superno Amore
lavò col proprio sangue il nostro errore.

Incontra qui Sansonetto della Mecca (da poco, l’orrido Orrilo aveva ricordato un Sansone malvagio), convertito da Orlando, che progetta di fortificare il monte Calvario:

Quivi lo trovan che disegna a fronte
del calife d’Egitto una fortezza;
e circondar vuole il Calvario monte
di muro di duo miglia di lunghezza.
Da lui raccolti fur con quella fronte
che può d’interno amor dar più chiarezza,
e dentro accompagnati, e con grande agio
fatti alloggiar nel suo real palagio.

Astolfo gli dona il gigante che ha catturato, che come schiavo gli può servire a costruire il muro difensivo. Ma a questo punto, nel luogo sacro, Astolfo (e i suoi compagni) ricordano la loro sacra missione:

Purgati de lor colpe a un monasterio
che dava di sé odor di buoni esempi,
de la passion di Cristo ogni misterio
contemplando n’andar per tutti i tempi
ch’or con eterno obbrobrio e vituperio
agli cristiani usurpano i Mori empi.
L’Europa è in arme, e di far guerra agogna
in ogni parte, fuor ch’ove bisogna.

Notiamo come, sia pur mescolato a molte parti digressive, il “tema crociato” non è del tutto assente in Ariosto.

Ad ogni modo Astolfo non torna poi nel vivo del combattimento, ma nel  giunge ad Alessandria, nei pressi della quale esiste una “Città delle Donne”, di cui parla già questo articolo di Margutte e quindi non mi soffermo oltre. Va detto che molti collocavano in Libia il regno delle Amazzoni: queste sono più tarde, ma sviluppano una mentalità simile, in un luogo non distante; come le Amazzoni, Doré le raffigura semisvestite e armate di arco (e casualmente dedica al canto, teoricamente minore e digressivo, moltissime incisioni).

Le Amazzoni eliminavano i maschi con cui avevano giaciuto per proseguire la stirpe; queste ne trattengono in una percentuale del 10%, facilmente soverchiabile. Salvatosi col solito corno provvidenziale, Astolfo ritorna finalmente in Inghilterra: ma appena il tempo di fermarsi al porto del Tamigi che subito riparte per la Francia, verso il centro del conflitto con l’Islam, a Parigi (canto XXII).

Il mago Atlante, tuttavia, a questo punto l’attrae nel suo Castello fluttuante (che si sposta di luogo in luogo, dove conviene ad Ariosto farlo apparire: una reminiscenza della Cittadella dell’Avventura arturiana, che è il luogo di custodia del Graal, luogo santo per eccellenza, quanto questo è maledetto).

Col solito corno Astolfo risolve il problema, caccia il mago, libera i prigionieri (Atlante appoggiava la causa islamica catturando i vari cavalieri cristiani nel suo castello magico) e doma l’Ippogrifo, con cui riparte. Il meccanismo del corno incantato ormai è un po’ noioso e ripetitivo, e il buon Ariosto, muovendo il suo castello volante, trova il modo di dare ad Astolfo un nuovo strumento incantato, l’Ippogrifo, che gli consente di volare in Etiopia (canto XXXIII).

L’Ippogrifo è un moderno Pegaso, e Plinio il Vecchio collocava in Etiopia, forse non a caso, la razza di questi “uccelli dal volto cavallino”. Comunque è Astolfo che lo fa muovere in questo viaggio, percorrendo tutte le terre islamiche (Spagna, Marocco, Tunisia…) scendendo poi verso il regno cristiano che si trova oltre il califfato.

Qui il sovrano Senapo (un ricordo del mitico Prete Gianni, il reggitore di quel regno cristiano che giustificava le crociate) crede sia giunto un angelo, anzi, un nuovo Messia, e gli si inchina. Un nuovo modo di confermare il ruolo messianico di Astolfo nel poema, ma curiosamente ricorda molto i culti divini tributati ai conquistadores dall’altra parte dell’Atlantico.

Astolfo ne la piazza del castello
con spaziose ruote in terra scese.
Poi che fu il re condotto inanzi a quello,
inginochiossi, e le man giunte stese,
e disse: – Angel di Dio, Messi novello,
s’io non merto perdono a tante offese,
mira che proprio è a noi peccar sovente,
a voi perdonar sempre a chi si pente.

Senapo è cieco e afflitto dalle Arpie, come Phineus di Tracia nel mito greco: ma in lui ritorna anche la figura del Re Pescatore, il custode del Graal venuto meno ai suoi compiti, che è colpito da una ferita mortale per tale sua mancanza (nell’attesa del messianico Parsifal, il “puro e folle” che può recuperare il Graal).

Il Prete Gianni, il re-sacerdote cristiano di una perfetta teocrazia ab initio della chiesa cristiana, giustificazione ideale delle crociate, dev’essere per forza in una fase decadente se l’Africa, che gli sarebbe pertinente come regno, è sotto il controllo dell’Islam.

Astolfo usa ancora una volta il corvo incantato come arma (e l’Ippogrifo come destriero) per scacciare le Arpie che perseguitano il reame cristiano: e inseguendole, scopre che esse provengono dalla Bocca degli Inferi, collocata nel punto in cui ha la sua sorgente il Nilo (che lui ha già risalito di ritorno dalle Indie).

Subito il paladin dietro lor sprona:
volando esce il destrier fuor de la loggia,
e col castel la gran città abandona,
e per l’aria, cacciando i mostri, poggia.
Astolfo il corno tuttavolta suona:
fuggon l’arpie verso la zona roggia,
tanto che sono all’altissimo monte
ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.

Quasi de la montagna alla radice
entra sotterra una profonda grotta,
che certissima porta esser si dice
di ch’allo ’nferno vuol scender talotta.
Quivi s’è quella turba predatrice,
come in sicuro albergo, ricondotta,
e giù sin di Cocito in su la proda
scesa, e più là, dove quel suon non oda.

Non è forse un caso che si giunga all’Inferno, luogo dantesco per eccellenza, al Canto XXXIII, la numerazione adottata da ogni cantica dantesca, se consideriamo il primo dell’inferno proemiale di tutta l’opera. Oppure, così come il canto XXXIV chiude l’Inferno dantesco, il canto XXXIV del Furioso contiene l’Inferno ariostesco.

Oh famelice, inique e fiere arpie
ch’all’accecata Italia e d’error piena,
per punir forse antique colpe rie,
in ogni mensa alto giudicio mena!
Innocenti fanciulli e madri pie
cascan di fame, e veggon ch’una cena
di questi mostri rei tutto divora
ciò che del viver lor sostegno fôra.

L’invettiva alle Arpie ricorda molto quella dantesca alla Serva Italia di dolore ostello. Come Senapo, i principi italici sono fiaccati da Arpie spirituali se non riescono a governare la penisola che è caduta sempre più sotto il controllo straniero e nella frammentazione.

Astolfo si pensò d’entrarvi dentro,
e veder quei c’hanno perduto il giorno,
e penetrar la terra fin al centro,
e le bolge infernal cercare intorno.
– Di che debbo temer (dicea) s’io v’entro,
che mi posso aiutar sempre col corno?
Farò fuggir Plutone e Satanasso,
e ’l can trifauce leverò dal passo.

Astolfo decide di esplorare l’Inferno con suo corno incantato, con cui far fuggire innanzi a sé le creature infere. Il suo è simile fin qui al “folle volo” di Ulisse dantesco, che vuole raggiungere con mezzi umani un luogo sovrannaturale.

Incontra tuttavia una singola anima dannata: quella di Lidia, che è una “Francesca da Rimini rovesciata”: punita non per aver ceduto, ma resistito al suo amante. Un rovesciamento già messo in scena dal Boccaccio nel suo Nastagio degli Onesti, interpretato anche dal Botticelli, pittoricamente, nel 1478.

E cominciò: – Signor, Lidia sono io,
del re di Lidia in grande altezza nata,
qui dal giudicio altissimo di Dio
al fumo eternamente condannata,
per esser stata al fido amante mio,
mentre io vissi, spiacevole ed ingrata.
D’altre infinite è questa grotta piena,
poste per simil fallo in simil pena.

Tra l’altro Francesca è la prima anima importante ad avere un suo ampio spazio nell’opera (i Lussuriosi sono i peccatori meno gravi, e quindi i più lontani del centro infernale di Lucifero). Qui Lidia è l’unica. Va detto che Astolfo ha, come unico punto debole, la sua facilità a cadere preda della passione amorosa, cosa che lo condanna all’inizio del poema e oltre la sua fine (suo destino sarà morire per colpa di una donna). Anche per questo, giunto sulla Luna, coglierà che gli manca più senno di quanto egli creda, con suo dispetto: questa è l’unica falla che può giustificare tale carenza. Come Dante resta impressionato da Francesca, di cui condivide il peccato dell’amore fedifrago (egli, sposato, ama Beatrice), così in Lidia Astolfo riceve un avvertimento che non seguirà: le donne sono pericolose e ingannevoli (come frequentemente nella sottile ma pervasiva misoginia ariostesca).

Ascoltata la sua lunga storia, Astolfo blocca quindi quella porta degli Inferi, impedendo che le Arpie ritornino a colpire il regno di Etiopia, poi vola verso l’alto, finché giunge al Paradiso Terrestre. Se volessimo forzare la coincidenza tra Dante ed Ariosto (che ha una cosmografia ancor più vaga, e giocosa) potremmo dire che Dante è sceso dall’accesso principale, nei pressi di Gerusalemme; Astolfo è uscito dall’estremo opposto, dal foro di uscita della natural burella, e quindi appunto ai piedi del purgatorio. Il fumo provvidenziale che avvolge tutto impedisce di capire con precisione il suo percorso infernale.

Costui con lieta faccia al paladino,

che riverente era d’arcion disceso,
disse: – O baron, che per voler divino
sei nel terrestre paradiso asceso;
come che né la causa del camino,
né il fin del tuo desir da te sia inteso;
pur credi che non senza alto misterio
venuto sei da l’artico emisperio.

Giunto al Paradiso Terrestre, è accolto da San Giovanni Evangelista e altri due santi, tra cui Elia, che lo guideranno nel suo destino provvidenziale come San Pietro – alla guida di San Giacomo e, appunto San Giovanni – fa con Dante.

L’immagine dei santi che pascono l’Ippogrifo ha però qualcosa di scherzoso, pur nel tono leggiadro ma non comico della vicenda.

San Giovanni spiega che tutto il percorso compiuto non è avvenuto per caso ma per volere divino: Orlando ha perso il senno e lui lo deve far rinsavire, in quanto egli è stato posto da Dio a tutela dei Cristiani come Sansone lo era per gli ebrei: e come Sansone era impazzito d’amore per una donna pagana, Dalila, così ha fatto Orlando per Angelica.

Qui si svela, tra l’altro, che la follia di Orlando è a causa della punizione divina (il che toglie forse qualcosa alla spesso ribadita “modernità di Ariosto” nella sottigliezza di cogliere la furia della gelosia), ma ora l’espiazione è finita e l’eroe va rimesso in condizioni di combattere.

All’ippogrifo, come noto quasi a nessuno, si sostituisce a questo punto un mezzo ancor più potente, e divino, il Carro Solare di Elia, con cui giungere al cielo della Luna, soglia di quei cieli indagati da Dante.

Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.

La Luna, tra l’altro, è popolata da alieni:

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Non è quindi il cosmo mistico dantesco, anzi l’opposto esplicito: se Dante faceva spiegare a Beatrice come le spiegazioni fisiche sulla luna di Averroé fossero errate, in quanto era un luogo mistico, non reale.

Tuttavia, è anche luogo simbolico: se in Dante la mutevole Luna era sede (simbolica, temporanea e didascalica) degli spiriti inadempienti ai voti, in Ariosto vi si trova tutto ciò che gli umani non completano, inclusi (esplicitamente) i voti inadempiuti di cui parla Dante.

Però Ariosto gioca su questa ambigua dimensione fisica / spirituale: non si trovano qui le cose perdute materiali (“non pur di regni o di ricchezze parlo”) ma le cose immateriali sono fisicizzate in oggetti che possono essere asportati e riutilizzati sulla terra, in modo magico.

Astolfo qui diviene veramente il punto di mediazione tra Dante e Verne (siamo pignolissimi: tra Dante e Cyrano de Bergerac, Keplero, Micromegas e tutti i viaggiatori cosmici post-Galileo) tra il viaggio ultraterreno ancora sacro e quello ormai fantascientifico. Per questo, e non solo come vaga reminiscenza colta, è davvero centrale nello sviluppo del tema del viaggio spaziale, primo tema della fantascienza ancor oggi centrale (Interstellar, 2015: ad esempio).

Ariosto potrebbe già sapere, forse, delle teorie che Copernico va formulando a Roma per l’Eliocentrismo, e nel caso sa che sono pericolose: comunque sia, non si spinge oltre al cielo della Luna. Sia perché perfino Astolfo è un guerriero, pur astuto, e non un mistico, sia perché così non deve affrontare la questione eliocentrica.

Astolfo, tra l’altro, inspira anche il suo senno, e così riacquista pienamente l’intelligenza (gliene mancava più di quanto pensasse, ma vede che anche gli altri uomini sono messi male, anche quelli reputati saggi).

Tornato sulla Terra, dopo un ultimo viatico di San Giovanni, Astolfo ridà la vista a Re Senapo (Canto XXXVIII), re di Etiopia, e si fa cedere in cambio, secondo le indicazioni di Giovanni, parte dell’esercito con cui attacca l’Islam alle spalle. Sempre secondo le indicazioni di Giovanni, imprigiona il Noto, il vento del deserto, che così non lo danneggia nella sua traversata del Sahara (che, dato il suo ruolo sempre più messianico, pare quasi ricordare l’impresa biblica di Mosé) e infine, con l’esercito di ottantamila uomini che ha reso cavalieri trasformando i sassi in cavalli (una tentazione di Cristo nel deserto era stata tramutare le pietre in pani…), colpisce il califfato alle spalle, costringendo i pagani al ritorno in patria.

Ottantamila cento e dua in un giorno
fe’, di pedoni, Astolfo cavallieri.
Con questi tutta scorse Africa intorno,
facendo prede, incendi e prigionieri.

Agramante riceve notizie della patria minacciata. Re Marsilio di Spagna si oppone al ritorno del califfo in patria, perché in questo modo resterebbe isolato in terra europea, e prima o poi il suo regno verrebbe a cadere; ma Sobrino invece caldeggia il ritorno in patria.

Alla fine, sul modello dell’Iliade, si decide di risolvere la guerra con una singolar tenzone tra Ruggero e Rinaldo; come nell’Iliade, lo scontro fallisce, e alla fine Agramante decide di ritirarsi, ma perde l’appoggio dei suoi, che per tre quarti restano in Francia.

Il re Marsilio che sta in gran paura
ch’alla sua Spagna il fio pagar non tocche,
e la tempesta orribilmente oscura
sopra suoi campi all’ultimo non scocche;
si fe’ porre a Valenza, e con gran cura
cominciò a riparar castella e rocche,
e preparar la guerra che fu poi
la sua ruina e degli amici suoi.

Verso Africa Agramante alzò le vele
de’ legni male armati, e voti quasi;
d’uomini voti, e pieni di querele,
perch’in Francia i tre quarti eran rimasi.
Chi chiama il re superbo, chi crudele,
chi stolto; e come avviene in simil casi,
tutti gli voglion mal ne’ lor secreti;
ma timor n’hanno, e stan per forza cheti.

Intanto Astolfo lo attende al varco col suo enorme esercito, che continua a devastare il regno islamico; e intanto rinviene anche Orlando, che incappa per caso nel suo accampamento, e come noto gli restituisce il senno (Canto 39)

Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso
in che il senno d’Orlando era rinchiuso;
e quello in modo appropinquogli al naso,
che nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto il votò: maraviglioso caso!
che ritornò la mente al primier uso;
e ne’ suoi bei discorsi l’intelletto
rivenne, più che mai lucido e netto.

Con l’aiuto di Orlando, Astolfo può finalmente assaltare Biserta, centro del regno di Agramante (canto 40). Appare nuovamente il rimando – forse formale, ma comunque presente – di Ariosto al valore sacro del compito dei cavalieri cristiani. Nel rimando all’epos classico, di tipo storico, l’impresa di Astolfo può ricalcare quella di Scipione l’Africano contro Cartagine, nel suo creare una manovra a tenaglia su scala mediterranea che attaccando Annibale in patria lo costrinse a rientrare dagli ozi di Capua invece che assediare Roma.

Come veri cristiani Astolfo e Orlando,
che senza Dio non vanno a rischio alcuno,
ne l’esercito fan publico bando,
che sieno orazion fatte e digiuno;
e che si trovi il terzo giorno, quando
si darà il segno, apparecchiato ognuno
per espugnar Biserta, che data hanno,
vinta che s’abbia, a fuoco e a saccomanno.

Bello il contrasto tra la pia preparazione e la preparazione al fuoco e al saccheggio; difficile dire però se qui Ariosto sia ironico o invece serio (mi pare più la seconda delle due).

Comunque i due uniti prendono Biserta, riducono Agramante alla disperazione (ormai è un personaggio patetico, non più il capo di una grande armata) e stimolano la sfida di Gradasso, personaggio divenuto paradigmatico per la sua millanteria (cui raramente riesce a tener fede). Promette Gradasso ad Agramante:

E perché detto m’hai che con l’aiuto
degli Etiopi, sudditi al Senapo,
Astolfo a torti l’Africa è venuto,
e ch’arsa ha la città che n’era capo;
e ch’Orlando è con lui, che diminuto
poco inanzi di senno aveva il capo;
mi pare al tutto un ottimo rimedio
aver pensato a farti uscir di tedio.

Io piglierò per amor tuo l’impresa
d’entrar col conte a singular certame.
Contra me so che non avrà difesa,
se tutto fosse di ferro o di rame.
Morto lui, stimo la cristiana Chiesa,
quel che l’agnelle il lupo ch’abbia fame.
Ho poi pensato (e mi fia cosa lieve)
di fare i Nubi uscir d’Africa in breve.

Distrutto Orlando, la chiesa di Roma sarà un branco di agnelli senza cani da guardia a difesa dei lupi. Notiamo ancora una volta islamici più malvagi di quel “gran bontà de’ cavalieri antiqui” dichiarata all’inizio del poema, e che forse un po’ troppo frettolosamente è divenuta paradigmatica di uno scontro Occidente-Islam solo formale in Ariosto.

A questo punto, al posto della singolar tenzone scatta però la sfida tre-a-tre, perché se non si avrebbe una ripetizione di quanto avvenuto prima: Agramante si impunta di combattere anche lui e la triade Agramante-Gradasso-Sobrino sfida la triade Orlando-Oliviero-Brandimarte. Astolfo si defila: del resto, non ha mai vinto uno scontro in tutto il poema senza il corno magico, che non può certo usare in un duello cavalleresco ad armi pari. Anche qui, il modello classico è la disfida Orazi-Curiazi.

Orlando vince (dei cristiani muore Brandimarte), e Astolfo congeda i fedeli Etiopi e torna in patria col suo ippogrifo (canto 43).

Scrive Turpino, come furo ai passi
de l’alto Atlante, che i cavalli loro
tutti in un tempo diventaron sassi;
sì che, come venir, se ne tornoro.
Ma tempo è omai ch’Astolfo in Francia passi;
e così, poi che del paese moro
ebbe provisto ai luoghi principali,
all’ippogrifo suo fe’ spiegar l’ali.

Ormai Astolfo è fuori dai giochi; nel Canto 45 Ariosto lo cita, parlando di Ruggiero, in relazioni alle virtù miracolose della sua Lancia d’Oro che, in realtà, in tutto il poema ha poco usato (preferendo usare l’espediente del corno magico terrorizzante).

Lancia non tolse; non perché temesse
di quella d’or, che fu de l’Argalia,
e poi d’Astolfo a cui costei successe,
che far gli arcion votar sempre solia:
perché nessun, ch’ella tal forza avesse,
o fosse fatta per negromanzia,
avea saputo, eccetto quel re solo
che far la fece e la donò al figliuolo.

Anzi Astolfo e la donna, che portata
l’aveano poi, credean che non l’incanto,
ma la propria possanza fosse stata,
che dato loro in giostra avesse il vanto;
e che con ogni altra asta ch’incontrata
fosse da lor, farebbono altretanto.

In pratica Astolfo, o gli altri possessori della lancia diversi dal necromante creatore, non sanno e non possono sapere che essa è magica (e questo spiega perché Astolfo preferisce, appunto, il corno, che conosce come incantato).

Fa ancora una comparsata nel canto 46, tra i personaggi che guardano Ruggiero predisporsi allo scontro finale con Rodomonte (altro saraceno passato in proverbio per la propria irruenza, come Gradasso, ma con maggiore insistenza sulla prestanza fisica eccezionale), ma Astolfo ha ormai svolto il suo ruolo, è un volto tra la folla.

Il duello finale distrugge l’ultimo grande campione islamico e chiude così definitivamente la guerra: Ariosto sceglie una chiusa decisamente cupa e tronca, poco nota (a differenza, ad esempio, dalla perfetta e pia chiusa circolare della Gerusalemme del Tasso).

E due e tre volte ne l’orribil fronte,
alzando, più ch’alzar si possa, il braccio,
il ferro del pugnale a Rodomonte
tutto nascose, e si levò d’impaccio.
Alle squalide ripe d’Acheronte,
sciolta dal corpo più freddo che giaccio,
bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.

Nessuna fine festosa, celebrativa, sacrale, ma Rodomonte che muore con una bestemmia finendo immediatamente all’Inferno.

Sappiamo che Astolfo perderà poi nuovamente il senno per amore, come viene rivelato all’acme della sua impresa celeste, e come era all’iniziò della sua apparizione nel poema, in una conclusione circolare; e questa volta in modo definitivo. Nel poema, comunque, si distingue per il suo ruolo cruciale, determinante nella vittoria contro il califfato molto più che gli altri eroi.

Astolfo, in qualche misura, è forse la maggior proiezione di Ariosto stesso, più astuto cortigiano che cavaliere medioevale, ma alla bisogna in grado di comandare un esercito quando le circostanze richiedono (come farà Ariosto da governatore in Garfagnana).

*

Astolfo appare pure nel Morgante, ovviamente anteriore dell’Orlando Furioso ma che narra vicende teoricamente successive, vicine alla morte di Orlando a Roncisvalle, nello scontro con Marsilio di Spagna che appare anch’egli nel Furioso. Gano di Maganza, il traditore di Carlo Magno, entra sempre più in conflitto con Orlando, facendo cacciare questi e, appunto, imprigionare Astolfo, spingendo poi l’imperatore a mandarlo a Morte.

Ma l’intervento di Rinaldo manda a morte i suoi piani, mettendo in fuga lo stesso Gano e salvando Astolfo dal patibolo.

Subito dopo appare appunto l’incontro di Morgante con Margutte, che viene a formare l’inciso del “Marguttino”, i due cantari più amati dell’opera, spesso venduti separatamente.

I personaggi eroici sono resi invece volutamente in modo molto più superficiale e quindi comico: Carlo Magno è un vecchio imbecille, Gano di Maganza è malvagio fino alla follia. Astolfo non è qui ancora tratteggiato nei suoi tratti di astuzia che saranno poi presenti in Ariosto e, dopo di lui, resteranno del personaggio fino a Calvino, che nel “Cavaliere Inesistente” ne fa un pedante un poco seccatore, per quanto di indubbia razionalità.

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