LORENZO BARBERIS.
Bella lezione del prof. Casarino, presso il Liceo Classico di Mondovì, sulla immortale “Tosca” di Puccini, con proiezione del film di Gianfranco De Bosio sapientemente commentato nelle parti salienti. Non avendo competenze musicali, non posso far altro in questo caso che aggiungere alcune noterelle a margine di contestualizzazione, che poco aggiungono al capolavoro, ma che possono essere di qualche curiosità.
Il dramma teatrale di partenza è di Victorien Sardou (1831-1908, sopra nella caricatura di Moloch, del 1882, che fa riferimento alle accuse di plagio da cui pure la Tosca di Sardou non fu esente), che la compone nel 1887 come “La Tosca”.Il dramma francese oggi non è più messo in scena, e sopravvive di luce riflessa come nota a margine, appunto, del capolavoro italiano.
L’opera era pensata per Sarah Bernhardt, che sarà poi la gran rivale della italica Duse, e già questa prima messa in scena teatrale fu un indubbio successo per l’epoca, anche se eclissata poi dalla ripresa musicale di tredici anni dopo.
Il contesto storico può essere utile per comprendere il senso dell’opera, celebrativa di Napoleone (la vicenda si svolge nei giorni della Battaglia di Marengo, la decisiva vittoria in terra piemontese, il 14 giugno 1800) con al contempo la condanna senz’appello (e con qualche fondamento) della Roma papalina, perfettamente sintetizzata nello spregevole Scarpia.
La ripresa da parte di Puccini è perfettamente conseguente allo stesso spirito, comunque, tenuto conto dell‘adesione alla massoneria da parte dell’autore, di cui il Grande Oriente italiano fa gran vanto, e che sarebbe una chiave di lettura interessante per le sue opere (vedi qui, ad esempio) per chi avesse la competenza di cogliere non solo i rimandi di stampo letterario (i più superficiali, in questo ambito) ma quelli strettamente musicali (e sul valore iniziatico della musica per la massoneria è inutile dire).
Anche il contesto italiano ha infatti un suo rilievo: dal 1870 il papa, appena proclamatosi Infallibile, si considera prigioniero dei Savoia; nel 1889 l’erezione della statua di Giordano Bruno a Roma in Campo dei Fiori è l’apice di questo conflitto tra massoneria e cristianesimo (l’atto successivo, che andò a colpire l’antigiudaismo papalino, fu portare Ernesto Nathan come sindaco – massone ed ebreo – di Roma, nel 1907).
L’adattamento italiano avviene ad opera di un autore italiano di un certo rilievo, Giuseppe Giacosa (1847-1906, a Colleretto, presso Torino, oggi ovviamente Colleretto Giacosa), tra i campioni del dramma borghese che anche qui da noi si diffondeva ai primi del Novecento, sotto gli influssi del freddo vento nordico di Ibsen ma con autonomia di toni e accenti, spesso meno cupi. “Come le foglie”, il capolavoro teatrale di Giacosa, è dello stesso anno della prima rappresentazione della Tosca, un anno paradigmatico: il 1900.
Giacosa, amico dei migliori letterati del periodo, pare patisse anche di sacrificare la sua arte drammatica “pura”, ovvero quella teatrale, al lavoro di adattamento per Puccini, per cui produrrà il libretto di tre opere tra le più note: la prima collaborazione, iniziata nel 1892, è con “La Boheme”, in cui perlomeno Giacosa era soddisfatto di mettere mano a un romanzo di Henri Murgier, del 1851, e dedicato a un tema, quello dei bohemien, di attualità sociale (in Italia, in forma minore, ne erano emuli gli Scapigliati, tra i quali Giacosa annoverava amici).
Molto meno entusiasmo suscitò in Giacosa, pare, il lavoro sulla Tosca, soggetto lontano dal tema della modernità sociale portato avanti dal suo teatro borghese (non credo vada trascurato il minor onore del puro adattamento di un’opera già teatrale). Tornerà ancora però al lavoro sulla “Madame Butterfly”, poco prima di morire. Dopo la sua scomparsa Luigi Illica, che l’aveva affiancato nelle tre trasposizioni, proverà a continuare la collaborazione pucciniana: senza successo. I tre libretti per Puccini sono probabilmente, anche per lui, i suoi massimi capolavori; la Treccani gli riconosce un suo peso (ovviamente minore) nel successo delle tre opere, per l’indubbia abilità drammatica dell’autore.
La scena madre ripresa è, ancora una volta, la morte di Scarpia, ma ben più drammatizzata rispetto all’originale illustrazione francese che in parte fa da modello. L’eliminazione dei dettagli superflui, sostituiti con un fondo rosso sangue, il gioco dell’ombra nera che avvolge la donna dopo il delitto (anche il film del 1976, di Gianfranco de Bosio, giocherà molto bene sull’uso delle ombre e dei chiaroscuri) mostrano una sapienza grafica molto più moderna; nell’efficacia, anche meglio di Mucha che, adagiato sui suoi meritati allori, rende Tosca troppo vicina alle sue innumeri, esangui donnine art decò (e quando necessitava e voleva, Mucha sapeva sfuggire benissimo al suo stereotipo: ma qui non tanto). Prezioso il dettaglio del serpente che, come un Ourobouro, si scioglie dalla “O”, palesando l’etimologico veleno che c’è all’occorrenza in Tosca.
Il coevo libretto Ricordi è più sobrio, come vuole l’editoria dell’epoca (a meno che pulp, o per ragazzi: e anche qui, in Italia, con più moderazione che all’estero) ma riprende il tema della Rosa, certo centrale in tutta l’opera come leit-motiv simbolico. E anche qui, si evidenzia che è una rosa ben dotata di spine, e che all’occorrenza sa pungere.
Pressoché dimenticata dalla scuola italiana (come tutta l’opera lirica in generale), come evidenziato anche da Casarino, la Tosca ha grande successo internazionale. Nel gioco iconografico che ho qui condotto, va colta ad esempio l’efficacia e la sintesi della recente locandina americana di sopra, che unifica la scena madre del delitto col tema della rosa in una soluzione rispettosa dell’originale.
Simile plauso va al film del 1976 di De Bosio (n. 1924): il regista riesce a dosare nel giusto equilibrio la retorica cinematografica (la soggettiva di Scarpia nella scena che più volte abbiamo citato è magistrale) senza eccedere; aiutato dalla bravura anche attoriale dei grandi interpreti che dirige (la loro specifica bravura musicale è ovviamente fuori ogni discussione).
E per concludere con una curiosa noterella monregalese, la Roma papalina della Tosca è quella, inevitabilmente, del 14 giugno 1800: quella in cui regna da due mesi Pio VII, asceso al soglio pontificio il 14 marzo di quell’anno, dopo la morte di Pio VI.
Pio VII sarà poi imprigionato dal Bonaparte, in un evento che i protestanti più radicali videro come (felice) segno dell’avverarsi dell’apocalisse con la caduta dell’Anticristo papale. Nella sua prigionia, il papa passerà anche a Mondovì (1809), dove lo ricorda un monumento al Santuario di Vicoforte. A questa nemesi storica pensa forse il Cavaradossi di Sardou quando trionfante canta il suo inno antitirannico a Scarpia, che trema sotto la corazza della sua glaciale perfidia. Il Cavaradossi di Puccini non può forse non pensare anche a Pio IX, morto prigioniero dei Savoia nel 1878.
Ma, al di là di queste curiosità e minuzie, resta la grandezza eterna della Musica.
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