Il trasalimento dell’icona

(da Wikimedia Commons)

(da Wikimedia Commons)

GABRIELLA VERGARI.

Provo l’attacco ed una volta ancora la postura.
Ripasso mentalmente, modificandola appena, la formula cerimoniale che ho coniato proprio dal Liber de Cerimoniis di Costantino VII Porfirogenito (fortuna ce ne fosse una copia disponibile nella biblioteca sotto casa), con l’auspicio che non suoni troppo melliflua né troppo diretta, né troppo untuosa, né troppo retorica, né troppo formale …, insomma, né troppo.
Quindi studio nuovamente l’actio, tristemente consapevole che lo specchio, di solito benevolo, mi sta comunque rilanciando l’immagine di un impaccio ed una goffaggine non comuni.
Vorrei vedere gli altri al posto mio.
Improvvisa mi folgora l’idea che probabilmente, prima di cominciare il mio discorso, dovrei prostrarmi, ma scaccio reciso ogni proskynesis (sono di antenati greci!). Pazienza, se ne faranno tutti una ragione. Inutile negarlo, quest’attesa mi sta innervosendo più di quanto avrei mai immaginato, e dire che ne ho fatte di anticamere!
Mi piacerebbe mettermi a passeggiare per la stanza, com’ è mia abitudine in questi casi, ma temo che il protocollo di corte non lo contempli e non vorrei rivelare il mio disagio, così sulle prime. Sono solo, ma non sprovveduto e so bene che le pareti, soprattutto quelle di una dimora imperiale bizantina, possono avere molti, molti occhi e molte, molte orecchie.
A peggiorare la tensione, questo odore di incenso che mi sta prendendo alla gola, mi fa lacrimare in eccesso: mi sembra di essere in Chiesa o – velocissimo mi s’insinua (possibile mai?) un pensiero – in un lupanare. Finalmente un eunuco corpulento ma dai modi impeccabili mi preleva, precede e scorta fino alla stanza della Basilissa. Deglutisco, sto per andare in scena, tocca a me.
Al vederla, l’emozione è tale che quasi dimentico tutto quello che ho così meticolosamente preparato.
Non so come definirla. Ha una bellezza rinomata, ma è talmente celata dalla porpora che la avvolge e dai ricchissimi ornamenti del suo rango che quasi sembra un’icona piuttosto che una donna. Mi pare di rivedere i mosaici di S. Vitale, con la differenza che l’immagine qui davanti a me almeno respira. Vorrei osservarla meglio, temo però di offenderla con un atteggiamento che potrebbe risultarle tracotante, persino sguaiato (e di sguaiataggine dovrebbe proprio intendersene, a quanto si sa da sempre sul suo conto). Il risultato è che, malgrado abbia studiato a lungo per questa intervista, mi accorgo all’improvviso di quanto possa risultare difficile l’approccio con un’ imperatrice dei Romei, e che imperatrice, per giunta!
Mi fa giusto un cenno e subito, dopo essermi a lungo prodotto in quello che spero lei voglia interpretare per un inchino (sia pure il più improbabile mai avvenuto in questa sala), mi sento chiederle: «Lei ha incarnato molti ruoli, da prostituta a santa, e infine sostenuto che il potere imperiale può essere un sudario. Ḕ ancora questa l’eredità che sente di lasciarci?»
Al momento di concepirla, mi era sembrata la più opportuna delle domande, ma ora mi rendo conto di quanto possa suonarle stramba e mal posta. Ci sono troppe cose assieme, quasi un ginepraio, speriamo sappia districarlo e soprattutto che non se l’abbia a male.
Mi aspetto perciò una pausa studiata. Invece risponde subito. Senza interpreti, senza indugi, senza esitare, come desse finalmente voce a riflessioni già da tempo meditate e familiari.
«Ha ragione. Parafrasando il poeta dovrei dirlo, Confesso che ho vissuto, per quanto nei libri di storia io non faccia una gran figura.
Mi si dedicano in genere poche righe, soprattutto per ricordare i miei oscuri natali e i miei ancora più oscuri trascorsi.
Non me lo perdonano.
Ancora, dopo più di mille e cinquecento anni, non si accetta agevolmente che dal nulla io sia diventata imperatrice, che la piccola, esuberante, procace Teodora, la figlia del guardiano degli orsi all’Ippodromo di Costantinopoli, sia divenuta la nobile, potentissima sposa di colui che Cesare fu.
Ma non è stato dal nulla, né è stato facile.
Eppure la mia abilità inquieta e tuttora preferiscono parlare di Lui, Giustiniano, sorvolando sul particolare che, senza di me, l’avrebbe comunque perso il suo preziosissimo scettro …».

L’imperatore Giustiniano, VI sec. d. C.

Colgo il riferimento alla rivolta di Nika, all’estremo frangente durante il quale si dice che Giustiniano, incalzato dalle fazioni dei Verdi e degli Azzurri, stesse per fuggire, abbandonando la porpora al suo destino. Inoltre ho letto Procopio di Cesarea, sia “La Storia dei Goti” quanto la “La Storia Segreta” e ho ben compreso il discusso ma fondamentale ruolo di Teodora durante quella che non pochi hanno concluso col definire una diarchia.
«Vent’anni» continua «Vent’anni di differenza tra me ed il mio sposo e venti di regno. Come già saprà, lui era detto il signore del diritto ed io la signora dell’azione. Di che stupirsi? Lui si poteva rifugiare nello studio, nelle discussioni di dottrina giuridica, nel grande progetto del Corpus iuris civilis. Chi avrebbe mai potuto mettere in discussione il suo diritto al potere? Ma io, io chi ero? Non potevo permettermi alcuna tregua, sempre in tensione, sempre all’erta, sempre in bilico tra la vetta e l’abisso. Avevo nemici dovunque ma ero stata abituata a sopravvivere, mi pare l’ abbiate poi chiamata struggle for life. Ed avevo convissuto con le bestie feroci, fin da bambina. Conoscevo le ferite della loro cattività e insieme la maestosità con cui si rivelavano dominatrici del regno animale. Sapevo fin troppo bene che, quando lottavano, lo facevano all’ultimo sangue, fino alla morte. E così ho fatto. Ho lottato ed ho vinto.»
«Grazie anche alla sua … ehm (non so come dirlo)… particolare esperienza nel campo…»
Mi ferma infastidita.
«La prego, non sia banale. Essere un’esperta nell’arte del sesso può essere determinante, ma non è tutto. La differenza che passa tra una volgare prostituta ed un’imperatrice sta nell’intelligenza, nella lucidità degli obiettivi, nella determinazione delle ambizioni. Avevo imparato a mie spese cosa significassero la più completa vulnerabilità, la misera, l’umiliazione e, più di tutto, la fame: l’ avevo giurato che mi sarei riscattata da una condizione senza scampo, me lo dovevo e così è stato.»
«Dunque lo rifarebbe? Non ha fantasmi che le agitino le notti? Nemmeno quello di Amalasunta?»
Non volevo metterla giù così di brutto, mi è scappato. Evidentemente la diplomazia non è il mio forte (non lo è mai stato) e men che meno all’interno di una corte, per questo celebrata, come quella in cui mi trovo. Il fatto è che la vicenda della povera regina dei Goti, che aveva chiesto e ricevuto da Giustiniano la promessa di ospitalità ed aiuto, ma era stata uccisa sulla via per Costantinopoli, è stato un po’ un mio rovello, fin dall’infanzia. Il libro di storia suggeriva che, in segreta combutta con Teodato, l’avesse fatta sopprimere la Basilissa, preoccupata che la bellezza e giovinezza di Amalasunta la potessero trasformare in una potenziale rivale.
Capisco però all’istante di aver compiuto un passo falso.
Mi pare infatti di intuire un trasalimento, sebbene l’icona ritorni subito tale, ieratica e adamantina come una divinità antica. Un cenno appena e mi si accosta l’eunuco corpulento. Non c’è bisogno d’altro: il colloquio sta per volgere alla fine. Prima però di congedarmi, la Basilissa riprende a parlare con voce ferma ma direi sempre più lontana, addirittura siderale.
«E le sue, di notti? Chi gliele agita? Chi può dire quando e se i propri fantasmi torneranno a cercarlo? Ha letto Erodoto? Lì dove dice che la vita di un uomo può essere valutata solo dopo la morte? Ebbene, questo io l’ho ormai appreso e pagato sulla mia pelle. Già il mio contatto con Dio era avvenuto grazie al vescovo Giovanni, che mi aveva aperto gli occhi sulle verità del monofisismo, ma la mia battaglia contro il cancro, l’unica che mi abbia sconfitto davvero, mi ha definitivamente avvicinato all’autentico, unico e solo Potere possibile, quello dell’Intramontabile Gloria …» tendo l’orecchio, per cogliere il soffio di quelle parole estreme, ma non mi giunge quasi più niente, se non ad intermittenza qualcosa come fragilità, limiti umani, anima, essenza ultraterrena, misericordia divina. Vorrei trattenermi il più possibile, ed ignorare il sorriso tanto cortese quanto gelido dell’eunuco. Ma quello, irremovibile, s’incammina verso l’uscita.
Mi rassegno a seguirlo, che altro potrei?

(le immagini sono due particolari dei mosaici della basilica di San Vitale in Ravenna)

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