Saudade

illustrazione di Franco Blandino

illustrazione di Franco Blandino

GABRIELLA VERGARI.

Mi è andata bene, direi.
O forse dovrei solo dire che non mi è andata male.
Ecco, non appena giungi ad una certezza, qualcosa – il dubbio? – te la fa vacillare, te la inquina manco fosse petrolio.
O forse il fatto è che mi annoio e a furia di girare in tondo, mi è da un po’ venuto in mente che non sono ancora andato da nessuna parte.
E questo sì che è strano.
Che mi venga in mente, voglio dire. Perché, per la verità io, la mente, non è che fino ad ora l’abbia usata così tanto. Che anzi ho sempre preso in giro quello lì, il “tombolone”, quello che ama stare un po’ più sotto e pare un grosso cazzone americano. Lui, vedete, è uno che pensa. E mi dice delle cose. Cose che da un po’ stanno facendo pensare anche me. E non è che sia poi così bello! O forse è solo che un giorno ci farò l’abitudine e non ci starò più tanto male.
Che mi dice?
Dice che lui lo sa cos’è la vita, quella vera, voglio dire.
Perché prima della cattura l’ha vissuta.
Allora io gli dico che non capisco, che mi pare si viva benissimo anche qui.
Abbiamo tutti la nostra identità. Sono uno dei quindicimila. Ho un numero tutto mio e, scusate se è poco, mi dovesse capitare qualcosa, Loro se ne accorgerebbero e provvederebbero.
Mangiamo tutti i giorni, stiamo piuttosto bene in salute e ci sono femmine in abbondanza. Credo di aver pure messo al mondo un migliaio di figli all’incirca, ma in questo non c’è nulla di insolito visto che sono un pesce e vivo nell’Oceanario di Lisbona, l’acquario più grande d’Europa. E, sapete com’è, la promiscuità, il quieto vivere, l’inattività coatta…
Ed ecco, che quando credo di averlo messo a tacere colle mie brave ragioni, lui mi sorride, slargando quel suo musone fesso con una smorfia di compatimento come a dire che il fesso in realtà sono io, e se ne viene con quella sua storia dei profumi e degli odori: «E le alghe? Come la metti con le alghe? »
E poi l’affondo finale: «E che mi dici delle correnti? Quelle belle forti, che ti trascinano e travolgono e senti vigorose attorno a te? L’hai mai provato cosa vuol dire doverti abbandonare mentre ti portano via, e tu non puoi che lasciarle fare , finché non senti che viene il momento e allora cominci a giocare anche tu con loro. E se provano a travolgerti, tu fingi di non farcela, di essere troppo più debole e loro ci cascano e allentano quel pochissimo che basta perché tu riprenda vigore e ti sottragga fino a dominarle a tua volta e renderle tue complici. E, poi all’improvviso, proprio quando senti che ti si sono ormai sottomesse, abbandonarle, spingerti fuori dal gioco, per tornare padrone – padrone, capisci – di te e della tua volontà, o del tuo desiderio, che forse è lo stesso. Padrone, capisci? Padrone della tua libertà. L’hai mai sentita, di’ un po’, l’hai mai sentita una roba come questa, qua dentro, in questa bagnarola
E, se proprio devo dire la mia, a me “bagnarola” sembra una parolona grossa e cazzona come lui, dato che ci troviamo in un gioiello tecnologico, monitorato e controllato ventiquattr’ore su ventiquattro da fior di biologi e computer. Però, diavolo, no, no che non l’ho mai provata la roba di cui lui parla. E allora mi chiedo se il brividino che a volte avverto nell’acqua, leggero appena come un soffio, una cosina che al massimo ti sospinge avanti per un po’, possa bastare. Possa darti il senso della vita. E due sono le cose: o è il cazzone a farla troppo lunga con le sue paranoie o sono io che sono in fondo il cazzone e finora mi sono accontentato di una vita banale e precotta. E questo, scusate, non sono sicuro che mi piaccia più tanto.
O forse ha ragione la manta a dire che mi sto bevendo il cervello con velleità da quattro soldi, che non potrò mai realizzare, dato che non c’è nessunissima possibilità che io finisca nell’oceano a giocare con le correnti. «Piantala con questa tua saudade» mi ha detto esasperata l’altra volta «e ringrazia di non essere ancora finito in pasto ai pescecani o fritto in padella come le migliaia di altri tuoi simili meno fortunati di te! La vera vita si può viverla dovunque, purché si riconosca e si accetti il proprio posto nel mondo.»
E si è allontanata maestosa, alzando ed abbassando lentamente quelle sue magnifiche pinne bianche in un movimento languido ed elegante come una danza. L’ho guardata a lungo affascinato ed anche un po’ invidioso della sua sicura fermezza. Sarà perché è una delle anziane o forse perché, malgrado la grande armonia con cui si muove ora nell’acqua, ha avuto una vita difficile ed ha quasi rischiato di restare paralizzata per una terribile ferita ricevuta da giovane. Non le ho mai chiesto il perché delle lunga cicatrice che la attraversa da parte a parte, né lei ne ha mai parlato con nessuno. E fino a qualche tempo fa mi pareva una terribile deturpazione, ma ora – maledetto il cazzone e le sue correnti – mi sembra quasi che se c’è l’avessi io, una cicatrice simile, me la potrei portare dietro con orgoglio. E anche questo è molto strano. Perché sono sempre stato, come dire, piuttosto attento al mio aspetto e – scusate l’immodestia—ritengo di essere proprio un bell’esemplare della mia specie, il che non guasta, non guasta proprio.
Quanto alla saudade, potrei piantarla anche subito lì, se solo sapessi cos’è. E va beh, ammetto di essere un pochino ignorante, ma quando mai si è detto che per stare in un oceanario uno debba anche essere un sapientone!
Così, tornando al punto, sono confuso. Guardo il “tombolone”, ripenso ai suoi discorsi e mi viene anche il dubbio che siano un’invenzione, una specie di inganno crudele ideato per dare, a me, il tormento e, a lui, lo sfogo della sua frustrazione. E se ci penso davvero, quand’è che, tardo e cazzone com’è, avrebbe mai giocato con le correnti, lui che sembra appena in grado di muoversi, e sbatacchia a fatica le pinne, in una corsetta affannata che gli dà subito il fiatone se, esibendo la sua chiostra micidiale, qualche squalo gli ghigna contro per gioco?
Ma se dicesse invece il vero? Se realmente là fuori ci fosse l’Oceano, quello autentico, e non questo surrogato artificiale in cui insieme agli altri quattordicimilanovecentonovantanove giro in tondo e mi arrabatto, allora, allora credo che potrei anche ritenermi un poveraccio. E non conoscerò mai i venti e le tempeste, le mille voci delle onde e i mille suoni della risacca…
Saudade…Ma che vorrà mai dire? E se fosse una malattia? Boh, vedrò domani di chiedere alla manta.
E nell’attesa? Forse dovrei riprender a girare in tondo, chissà che un giorno non arrivi da qualche parte…

Saudade è tratto da Species. Bestiario del Terzo Millennio, Boemi (Ct), 2012

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