La Brexit e la fine del sogno europeo.
STEFANO CASARINO
Il giorno dopo, tutti attoniti.
Anche quelli che se lo auguravano e che ora dicono che è stata una prova di democrazia diretta, che il popolo sovrano – messo in condizione di scegliere a differenza di quanto può avvenire da noi, in base all’art. 75 della nostra Costituzione – ha legittimamente e giustamente scelto la soluzione migliore, sono rimasti sorpresi: in fondo neppure loro, ieri, ci credevano davvero.
Né ci credevano le Borse, che nei giorni precedenti avevano avuto consistenti rialzi, convinte – con una sicumera sulla fondatezza psicologica della quale sarebbe bene ora riflettere – che il martirio della Cox avrebbe irreversibilmente determinato l’esito del “Remain”: e invece…
Oggi è tutto diverso, si è storditi come se ci si fosse svegliati da un sonno agitato che contiene anche qualcosa di oscuramente premonitorio.
Prevedibilmente tutti oggi hanno qualcosa da dire, parlano anche quelli che sino ad ieri sono stati zitti, o hanno preferito rivolgere il loro acume politico e la loro retorica più o meno efficace a problemi specifici e diretti. noi, ammalati del nostro endemico provincialismo, eravamo e siamo concentrari sull’esito delle recenti Amministrative e sul referendum d’autunno: forse però la Brexit è questione un pochino più grossa ed importante.
Aldilà del chiacchiericcio importuno, è davvero il momento di tornare ad elaborare delle riflessioni, rifuggendo per una volta dalla facile tentazione delle battute d’effetto (“Se gli Inglesi escono dall’Europa, è un problema loro”: a caldo, la Borsa italiana ha subito perso il 12,5%) e cercando di aguzzare la vista un po’ aldilà dell’immediato presente.
Prima considerazione: la Storia – ottima maestra sempre, ma noi abbiamo smesso di studiarla! – ci diceva chiaramente che la Gran Bretagna ha sempre perseguito la sua politica di “splendido isolamento” (our splendid isolation fu l’espressione formulata da Lord Goschen nel 1896: coniata in quel momento, ma frutto di una tradizione ben anteriore); la mentalità isolana – altro elemento da non trascurare – unita ad un’altissima considerazione di sé, l’ha indotto a guardare sempre con sufficienza a ciò che accade nel Vecchio Continente; specularmente, anche gli Europei hanno avuto sempre atteggiamenti contraddittori nei confronti di ciò che avviene “oltre Manica”, dall’ammirazione alla diffidenza al risentimento: qualcuno potrebbe ricordare la “perfida Albione”, espressione apparentemente coniata da Mussolini, ma in realtà risalente alla Francia di fine Settecento.
In effetti, un’autentica “unità” culturale non si è mai del tutto realizzata: fino a che punto, ad esempio, il “loro” Shakespeare è “europeo”?
C’è voluto molto tempo perché ciò accadesse (Shakespeare fa certamente oggi parte del “canone occidentale”, per dirla con Harold Bloom, ma molto più per il mondo anglosassone che per quello germanico o francese o italiano), ancora per il nostro Manzoni egli era “un barbaro non privo di ingegno”.
Né può bastare la lingua: oggi siamo all’assurdo che la lingua più parlata in Europa, soprattutto dai nostri giovani, è quella di un Paese che ha deciso di non far più parte dell’Europa: ma anche qui a ben vedere, noi usiamo più l’American English che non il British English.
Insomma, tutto questo dovrebbe far riconsiderare l’importanza, l’indispensabilità di una cultura comune, che l’Europa ancora non ha e non esprime: se ne accorse purtroppo tardivamente uno dei Padri dell’UE, Jean Monnet, che dopo aver insistito sulla “comune unità economica”, arrivò ad affermare che se avesse potuto tornare indietro e riiniziare daccapo avrebbe puntato tutto sull’unità culturale.
In effetti, credere che bastasse dar vita alla moneta comune, all’euro, e tutto poi sarebbe naturalmente derivato da ciò si è rivelato un pensiero debolissimo: per giunta, la Gran Bretagna si è sempre tenuta gelosamente stretta la sua sterlina, oggi in caduta libera e retrocessa al valore che aveva nel 1985.
In questi decenni, gli Stati nazionali – tutti senza eccezione – sono sempre rimasti dentro l’ottica della sovranità nazionale, nessuno ha voluto fare il primo passo, dare l’esempio di rinunciare a qualcosa di “proprio”, salvo poi prendersela con l’Europa che non fa nulla per il problema dei migranti, che non ha una voce sola per parlare con Putin o col mondo arabo ecc…
Così, non abbiamo nessun esercito europeo (De Gaulle mai avrebbe accettato che dei Francesi prendessero ordine da un Tedesco e siamo rimasti sempre ancorati a ciò), nessuna vera politica estera comune (aldilà di ruoli di facciata), nessuna politica fiscale comune, nessuna politica dell’istruzione comune (basta dare un’occhiata ai sistemi scolastici dei diversi Paesi: predominano di gran lunga differenze e specificità e poi ci si investa un EQF, un European Qualification Framework, cioè un Quadro Europeo delle Qualifiche che stabilisce un po’ artatamente delle corrispondenze tra i diversi titoli di studio e di qualifica professionale): che c’è allora di “comune”? Cosa rende forte, concreta la sensazione di essere cittadini europei?
Tra l’altro, “Brexit” vuol dire anche fine dei programmi di scambio (gli School Links attuati da moltissime scuole italiane in partenariato con quelle inglesi) e degli Erasmus nel Regno Unito (Unito”, poi, forse ancora per poco. Perché quando si comincia col separatismo, non si sa mai dove si va a parare: se prevale la logica del fare per sé, allora è anche il concetto stesso di Stato nazionale ad andare a ramengo).
Come se non bastasse, la lunga crisi mondiale (non certo solo europea) non dimostra affatto che “grande è bello”, che la globalizzazione garantisce prosperità: anzi, sul breve periodo, sembra dar ragione ai localismi, ai particolarismi, alle spinte centrifughe.
Per questo, la lezione della Brexit a me sembra chiarissima: finora l’unità europea è stata un sogno, bellissimo certamente, ma nel quale per troppo tempo ci si è cullati, senza voler fattivamente tradurlo in realtà.
Perché questa è la sorta dei sogni: o si trasformano in obiettivi da raggiungere, in ideali in cui credere e per i quali lavorare oppure restano sogni, dai quali prima o poi ci si sveglia.
Tristemente, dolorosamente: come oggi.
Nessuno può davvero, a parer mio, provare entusiasmo e prodigare energia solo e soltanto per l’euro, per lo spread, per il PIL: la partita giocata e confinata alle regole dell’economia è ampiamente perduta.
Se non si rilancia l’Unione Europea con convinzione, puntando sulla cultura, sulla consapevolezza che “Europa” vuol dire tanti valori vitali, irrinunciabili e condivisi e non solo l’antipatica burocrazia di Bruxelles.
Se i politici (la classe dirigente si sarebbe detto un tempo) non cambiano le lenti con le quali guardano il mondo e che non correggono affatto la loro cronica miopia, se non assumono quella lungimiranza e quella progettualità tali da pensare davvero alla sorte dei nostri figli, che, nati in un mondo che abbatteva i muri, ora assistono alla ricostruzione dei medesimi.
Se non cominceremo davvero a pensare all’Europa come ad un unico corpo, oggi malato, anzi amputato di una sua parte, e se non ci inventiamo una cura rapida ed efficace, allora la Brexit sarà solo l’inizio di un processo irreversibile.
Speriamo di non dover rimeditare a nostre spese e a quelle dei nostri figli le parole del sopracitato Bardo: “Malanno, ora sei scatenato, prendi il corso che vuoi”.
L’articolo è corredato da ritratti di alcuni dei padri fondatori dell’Unione Europea