GABRIELLA VERGARI.
Perfetta, se anche così, di persona, appariva un po’ più minuta, certo meno dominante che al momento di esibirsi a teatro, tutta scintillante di vitalità e paillettes.
Colpa, forse, delle eleganti ma basse infradito che amava indossare fuori di scena ma non l’alzavano come le vertiginose scarpe da ballo cui era solita durante i suoi numeri al club vacanze dove, tra slanci, avvitamenti, spaccate e varie altre acrobazie, finiva col suscitare la più ampia e sperticata ammirazione di parte maschile, con tutto un corollario di commenti e inevitabili confronti che, volente o nolente, andavano a toccare mogli, fidanzate e compagne.
No, non è che fosse una Boccadirosa, né le si potevano con tutta obiettività imputare ammiccamenti, lusinghe o analoghe facili moine ad esclusivo beneficio del sesso opposto. Aveva anzi un non so che di altero e schivo che l’avrebbe potuta rendere poco accattivante, distaccata nel suo genere, se non fosse stato per il richiamo di quel suo fisico perfetto, ignaro del benché minimo superfluo.
Un autentico prototipo greco, (se i Greci si fossero mai presi la briga di immortalare, al tempo antico, il corpo femminile in tutta la fisica armonia della sua atleticità ).
Per non parlare dell’intrinseca, incontestabile ferinità del suo essere, appena appena rimarcata dalla lunga, folta capigliatura mechata, lasciata libera di assecondare ad arte qualsiasi movenza, anche la più usuale, con grande, efficace apparato di ciocche ricadenti e subito revocate all’ordine con lesti, risoluti scatti del capo.
E quel nome, poi, Patù, che così sulle prime ( forse per assonanza con chou ) richiamava alla mente cose dolci e pastose – un gianduiotto magari, un cremino o un piccolo bigné – ma che a meglio vedere, certo per l’inequivocabile forza di quella “ t “ centrale, bloccava subito dopo tra i denti ogni più smielata fantasia, dando piuttosto il senso di qualcosa di duro e compatto come una fetta di cocco, così da promanare un aroma lievemente selvatico, da fiera posta in cattività ma non del tutto domata.
E per quanto, sbizzarrendosi in estrosità canzonatorie, su quel nome, lei e le altre amiche della comitiva avessero finito con l’imperversare, nel desiderio di rintuzzare, tra il serio e il faceto, gli apprezzamenti dei compagni, restava il fatto che tutto quel parlare della ballerina stava proprio diventando esasperante, oltre che incongruo.
E d’accordo che fossero tutti ampiamente consapevoli di star prendendo parte ad una sorta di gioco di gruppo – esito a suo modo innocente dell’ozio estivo e dell’eterno, leggero indulgere maschile ad ogni richiamo appena stuzzichevole. Tutto ciò non impediva affatto che, di quel gioco, le donne, o più semplicemente lei, cominciassero ad avvertire la spiacevolezza insieme alla sottile e nemmeno tanto implicita crudeltà. Stupidamente, si ripeteva. Assurdamente e certo al di là di ogni intendimento e contro ogni ragionata ragione.
Eppure non c’era verso che le riuscisse ormai di controllare il groviglio di sentimenti ed emozioni che avvertiva crescerle dentro ogni giorno sempre più tumido. Così che ad ogni nuova esibizione di Patù, invece di stare lì a godersi placidamente lo spettacolo, come sarebbe stato naturale con le finalità del suo soggiorno, si sorprendeva sempre più in balia di umori alterni, un trito amarostico, e piuttosto indigesto, di risentimenti, rabbia, irritazione, ammirazione e perfino una punta d’invidia per quell’improbabile quanto virtuale rivale, artefice, non si sa fino a che punto inconsapevole, di tutto quel disagio.
Né valeva molto a consolarla il pensiero che esibirsi in quel modo e per quel tipo di pubblico vacanziero non dovesse proprio rappresentare un gran traguardo per la ballerina che, si vociferava, provenisse dalla scuola della Scala e pareva avere al suo attivo ben altre platee ed altri consensi. Nulla da eccepire, del resto, quanto a professionalità e carisma: la sua presenza illuminava in effetti la scena e, per quanto non tendesse a prevaricare sui colleghi, si capiva a distanza che il ruolo di primadonna era e sarebbe restato suo per molto altro tempo ancora.
Nulla da ridire nemmeno sulle coreografie da lei quotidianamente ideate – inevitabile corvè del suo contratto – , provate e riprovate per ore, durante il giorno, a ridosso dell’anfiteatro artificiale, sotto le sbirciatine distrattamente lanciate da quegli ospiti che, in procinto di raggiungere la spiaggia o il campetto di beach-volley, si fermassero un attimo, magari nell’attesa d’ un amico. Gradevoli e ben curate, presentavano spesso una varietà di sequenze ed erano sempre ricche di colori e costumi.
E nulla ancora sulla puntualità con cui la ballerina si presentava a dare inizio allo spettacolo.
Nulla insomma da eccepire su nulla, niente di niente: la triste evidenza era che sul conto di Patù non c’erano in fondo appunti da muovere e, per quanto trasportata dal suo trito interiore, lei sapeva ad ogni buon conto riconoscere quando un avversario era temibile e degno di tal nome.
Ma proprio qui stava il punto, ed era che, in altro contesto, non le sarebbe nemmeno passato per la testa di considerare la ballerina un’avversaria. Né la cosa appariva minimamente sensata, dato che con Patù non aveva nulla in comune e tra qualche giorno le loro vite si sarebbero nuovamente divise, essendo già molto che si fossero appena accidentalmente incrociate.
Insomma, comunque la si volesse porre, quella storia stava perdendo i suoi legittimi contorni per trasformarsi in un tormentone grottesco. Neanche poco sgradevole e nient’affatto vacanziero, visto che, meriti e professionalità della ballerina a parte, sembrava proprio che lo scontro – sempre che di scontro si dovesse parlare – si stesse prevalentemente giocando sulla prestanza e l’agilità fisica.
Un po’come attribuirsi la colpa (o il merito) d’ un femore più o meno corto, d’una ossatura snella o robusta, d’un bacino più o meno largo.
E va bene, lei non aveva il ventre piatto (né l’aveva mai avuto, nemmeno a tredici anni). E, dopo la seconda gravidanza, aveva perfino un discreto reticolo di capillari affioranti. E allora? Doveva, in quanto donna, necessariamente attribuirsi la colpa di tutto questo? O forse quelle più snelle e slanciate, oltre che più desiderabili, dovevano per ciò stesso essere considerate anche più brave e capaci delle altre? Era forse una questione di inettitudine e demerito quella di possedere un fisico esteticamente imperfetto? Se ne doveva proprio fare una questione di vita e d’assillo, estenuandosi nel contrapporsi a se stesse e alla propria natura corporea?
Certo che a poter scegliere lei avrebbe preferito essere sinuosa e sensuale come una pantera, indossare minigonne inguinali, dominare il desiderio maschile dall’iperbole di spacchi e scollature, schiudere labbra da dionea, avere ogni mattina l’imbarazzo di proporsi come dark lady ( giusto così per fulminarne un paio a colazione) o femme fatale, stordire, soggiogare, stupire ( quasi che quello della seduzione dovesse essere l’imprescindibile must assoluto per ogni donna del creato). E con questo? La realtà era che di fatto non aveva potuto scegliere: certe cose sono e rimangono doni, come quello di una buona salute, d’uno spirito arguto, d’un talento. E per quanto di doni lei riconoscesse di averne ricevuti tanti, tra loro non v’era ad esempio (e purtroppo) compreso quello della longilineità. E per dirla tutta non era nemmeno bionda come un’eroina ottocentesca né, pur essendo bruna, richiamava una Carmen, e (per quanto potesse trovare la cosa assolutamente auspicabile) i suoi capelli non stillavano ambrosia, né le sue dita sapevano infondere l’essenza stessa della grazia ai movimenti delle sue mani.
E tuttavia era lì lo stesso, aveva una bella famiglia, una bella casa, un’attività dalla quale aveva ricevuto e riceveva non poche attestazioni, che motivo c’era di prendersela tanto per qualche battutina di troppo? Già, che motivo c’era? C’era che trovava la cosa ingiusta e indelicata.
E questo senza che, ad esempio suo marito, tenesse affatto conto di tutto il resto, della sua condizione di vita totalmente diversa rispetto a quella della ballerina, delle differenti risorse e disponibilità di tempo, delle dissimili attività di cura, …
Più ci pensava e più si sentiva montare di dentro, montare e montare.
Bella forza mantenersi in forma, giovani e attraenti, pensando solo a se stesse e al proprio corpo.
Regolando le ore di sonno sulle proprie esigenze. Praticando palestre, pesi, jogging e aerobica come le più praticavano scrivanie e fornelli, incartamenti, aspirapolvere e pacchi della spesa.
Né era a dirsi che lei si trascurasse. Tutt’altro. Solo che, al di là di ogni altra considerazione, la faccenda veniva pure a costare un bel po’, in termini tanto organizzativi quanto fisici, ché non era davvero agevole star dietro a se stesse quando c’era da star dietro a molto altro.
Senza poi parlare dei costi effettivi, IVA inclusa (e non scaricabile ) e baby-sitteraggio compreso.
Non era per far la menagramo, ma l’ultimo ciclo di massaggi (godibile, davvero godibile) le aveva sensibilmente levigato così il corpo come il conto corrente, roba quasi da pentirsi di aver preferito la laurea ad un diploma d’estetista, e di aver passato il proprio tempo a specializzarsi, addottorarsi, masterizzarsi in discipline d’alto livello speculativo ma scarso, scarsissimo valore commerciale.
C’est la vie.
Ma appunto per questo trovava così insulsa ed irritante tutta quella situazione. E poi con quella spiaggia e quel mare che ti facevano venire il cuore, lei messa lì, a farsi il sangue acqua e rimasticare risentimenti e livore, mentre gli altri, e soprattutto suo marito, procedevano imperterriti ed insensibili per la propria strada, a godersi la vacanza! Quasi non ci fosse nulla di più vitale di cui occuparsi che di cuscinetti di grasso, accumuli adiposi, smagliature e maniglie di Venere ( che per essere poi di Venere qualche richiamo erotico lo dovevano pure esercitare!). Quasi che l’Amleto, anzi l’Amleta contemporanea, dovesse destinare le proprie giornate non più all’angoscia dell’ «essere o non essere» ma a quella dell’«apparire per essere». Quasi che…! O, insomma, basta con quel ruminare sterilmente rabbioso, altrimenti non ne sarebbe più uscita e la vacanza le sarebbe sfuggita dalle mani senza apportarle nessun beneficio! Già che, a quanto pareva, le vacanze non sapevano far di meglio che sfuggire comunque, sempre troppo brevi, sempre effimere! Carpe diem, quam minimum credula postero. O beh, se era già arrivata ad Orazio, allora voleva dire che si trovava proprio in emergenza e forse le ci sarebbe voluta una bella nuotata rasserenante.
Come sempre il mare stava per avere ragione di lei e dei suoi malumori. Adesso che era scesa in spiaggia, andava infatti meglio. Molto meglio. Almeno a tener conto del piacere con cui si stava già godendo la vista dei bagnanti intorno a lei. Stese quindi il suo telo di spugna sulla battigia, attenta a non far crollare un castello di sabbia ai suoi piedi, e cercò di volgersi alla predisposizione d’animo più conveniente.
Poi li vide, un uomo, una donna, una bimba ricciuta.
La bimba stava cercando di tirar su dall’acqua un coccodrillo gonfiabile, un materassino proprio simpatico ma ingombrante, data la fatica che sembrava costare alla sua piccola proprietaria. Lui, l’uomo (il padre?), pur senza correre in suo aiuto, sembrava guardare con tenerezza verso la bambina dal filtro di lenti solari molto scure. Troppo scure in realtà. E lei, la donna, gli nuotava vicino, o per meglio dire, gli stava accanto movendosi piuttosto goffamente. Eterno femminino alla rovescia, tozza e contornata da un groviglio di ciocche decisamente arruffate.
Strano che nell’era del fitness e del wellness ci si potesse imbattere ancora in un simile prototipo muliebre, perfino baffuto a ben vedere e con un vistoso neo in prossimità del mento.
Non c’è colpa nella scarsa capacità d’attrattiva fisica, quanto a questo nessuno più di lei era disposto a convenire, eppure in quella sgradevolezza, sciorinata con tanto non cale al sole, c’era qualcosa di scostante e urtante insieme. Quasi si proponesse come una sorta di provocatoria risposta a tutto il diffuso brillio dei solari e al generale sfavillio dei corpi curati, o se non altro, restaurati, rinnovati, modellati, tonificati per adeguarsi agli obblighi stagionali; alla mostra degli accessori, e alla messe di fermagli, pinze e mollettoni posti con finta noncuranza e autentica sapienza a rivelare nuche civettuole e tirabaci malandrini. Insomma a tutto il glamour, il glittering, lo charme, lo chic, il ton (piuttosto bon che meno), l’in e l’out imperanti e strombazzati a destra e sinistra dalla patina delle riviste ormai non più solo femminili. Avrebbe dovuto provarne soddisfazione e considerare quella donna come un manifesto della liberazione femminile, quella autentica, però, legata al coraggio del non dover apparire a tutti i costi, dell’accettarsi di fatto senza il coatto asservimento a leggi di mercato e stereotipi millenari, quelli, per intenderci, che se ancora ancora possono perdonare a Cyrano la sua imperfezione ( purché debitamente riscattata dalla sublimità del sentire) certo non vengono nemmeno sfiorati dall’azzardo d’una Rossana con doppio mento e cellulite.
E invece la bruttezza di quella donna quasi quasi la disturbava, come avvertisse quel controcanto alla stregua, ma sì, alla stregua di un eccesso, difficile da accettare anche per lei.
Ma che dire allora di quel lui che, per nulla turbato dalla tristezza del suo aspetto, si stava volgendo verso la donna tendendole la mano fiducioso, lui che sembrava quasi aggrapparsi a quel suo appiglio, certo di trovarlo sempre pronto al sostegno, lui che usciva dall’acqua e sembrava quasi sorvolare la sua compagna con lo sguardo e tuttavia non le lasciava ancora la mano, lui che, affatto noncurante della sua scarsa avvenenza, le rimaneva attaccato come una pianta al suo tutore, lasciandosi guidare solo dalla forza che quel contatto con la sua donna pareva trasmettergli. Che uomo formidabile! Attento e concentrato sulla saldezza d’un legame piuttosto che sui centimetri di una coscia o la floridezza d’un décolleté! Altro che lezione! Quella era un’intera conferenza sui rapporti di coppia. Magari ci fosse stato suo marito, che lei non si sarebbe certo lasciata sfuggire lo spunto d’un bel discorsetto chiarificatore e, perché no, liberatorio.
Poi però accadde qualcosa .
L’uomo dagli occhiali scuri e la sua donna si erano ormai staccati, asciugati e stavano distesi al sole, sulle sdraio. La bambina aveva invece incominciato a giocare con un pallone da mare. Lo palleggiava, lo soppesava, e poi si divertiva a lanciarlo in aria e riprenderlo. Ma ad un tratto sbagliò il tiro e il pallone colpì l’uomo facendogli un po’ scivolare gli occhiali sul naso. Nulla di particolare né d’insolito, su una spiaggia per di più.
Eppure bastò.
A dargliene il sospetto fu dapprima l’assenza di reazione da parte dell’uomo, che non si levò in piedi, né disse o fece altro, non rimproverò la bambina e nemmeno le restituì il pallone finito a pochi centimetri dalla sua sdraio, quasi fosse divenuto imprevedibilmente impotente e vulnerabile. Ma a rivelarle subito dopo la cruda e drammatica evidenza fu soprattutto lo scorcio fugacemente offertole da quelle lenti scostate, non più così in grado di celare l’acquosa vacuità delle pupille, aperte sì intorno, ma senza scopo.
Quell’uomo dunque era cieco, ma se era cieco e non vedeva questo voleva dire…, o beh, questo voleva dire che lei era un’inguaribile allocca!
La rivelazione la scosse, tanto che con un movimento involontario ma brusco finì coll’urtare il castello di sabbia che le crollò miseramente ai piedi.
Dando mostra di una sollecitudine non comune, l’uomo provvide dal suo canto a riassestarsi gli occhiali, con un gesto d’ansia rappresa. Poi si volse alla moglie per chiederle qualcosa. Quella allora, presi dei fazzolettini dal borsone che aveva con sé, si alzò, si avvicinò alla sdraio del marito, controllò che la montatura non si fosse storta e che le lenti fossero nette d’ogni residuo sabbioso. Quindi tornò a distendersi al sole.
Dimenticato il pallone, la bambina si mise a sua volta a giocare con un’occasionale compagnetta d’ombrellone.
Lei, invece, raccolse in fretta la sua roba: del mare ne aveva proprio abbastanza per quell’anno!
tratto da: GABRIELLA VERGARI, L’isola degli elefanti nani, AG Edizioni, Catania 2003
foto di Bruna Bonino|