Ventinovesima puntata - Il profeta inventa la guerra
FRANCESCO PICCO
Un mese dopo il “Miracolo di Ahmadiyah”, il profeta Mansur e il suo fedele Viktor si trovavano a Trebisonda, ospiti del Pascià turco, circondati da una folla ogni giorno crescente a cui l’uno sembrava indifferente, l’altro soltanto curioso. Da Trebisonda – per ragioni che ancora oggi nessuno conosce – Mansur partì di notte, come un ladro, accompagnato solo dai passi di Viktor e dall’abbaiare dei cani. A piedi raggiunse un villaggio abitato da armeni apostolici, Gumuš Kana, dove la diversità di religione non determinò esiti diversi: nel giro di alcuni giorni i due uomini di Dio vennero circondati da una folla urlante di fedeli, che imploravano con un’altra lingua, in un altro alfabeto, con altre immagini le stesse identiche cose implorate dagli abitanti di Trebisonda e da quelli di Ahmadiyah.
E fu infine proprio ad Ahmadiyah che Mansur decise di fare ritorno, in groppa ad un asino – la cavalcatura che le Scritture ebraiche e cristiane riservano ai sacerdoti e al Messia.
A salutare il suo ritorno, una folla eccitata. Bambini seminudi festanti sui balconi delle case. Donne velate in lacrime. Uomini di lingua persiana silenziosi, con la mano sull’elsa della scimitarra, lo osservavano con un misto di incredulità e di fiducia. Di attesa. Attesa, ecco, è la parola giusta. Le vecchie scarmigliate dei sobborghi aspettavano. Gli adolescenti armeni con ampi calzoni a sbuffo aspettavano. I lebbrosi con i moncherini in vista aspettavano. Persino gli asini, i cavalli, i cani e le pecore aspettavano. Guardavano la figura curva del profeta assorto, con gli occhi fissi sulla sabbia e l’acciottolato della strada. E aspettavano.
Aspettavano che Mansur dicesse qualcosa. Sulla strada del ritorno da Gumuš Kana, infatti, aveva smesso di parlare. Il primo ad accorgersene era stato ovviamente Viktor, che gli aveva chiesto – in piemontese – se qualcosa non andasse. Mansur fece finta di non sentire. O forse non sentiva davvero. Fatto sta, che da lì in avanti non disse più una parola.
La volpe monferrina sapeva bene come la gente perdoni tutto, tranne la noia. Così, prima che il crescente numero dei suoi fedeli potesse iniziare ad annoiarsi dei suoi discorsi e della sua eloquenza predicatoria, Mansur giocò la carta del silenzio. Trascorse otto giorni in assoluto mutismo e in ostentato digiuno, limitandosi al gorgoglio sommesso dell’acqua di fonte che scendeva nella sua gola riarsa. Mutismo e digiuno non privati, nel chiuso segreto della stanza, come sarebbe il digiuno raccomandato da Gesù: no, mutismo e digiuno in Mansur furono pubblici, squadernati ai quattro venti, in modo da attirare a sé l’intera popolazione di Ahmadiyah – e non solo quella. Dal vicino villaggio di Dar Nasiyah venne a fargli visita un ricco mercante sciita di origine ebraica, che in segno di omaggio gli offrì – senza peraltro troppa convinzione – la mano della sua figlia adolescente. Mansur, immobile nel viso e nei lineamenti, accolse la proposta con una ieratica mossa della mano destra. Viktor capì e gli portò un calamo e un rotolo di carta. Il profeta scrisse in persiano, con la sua meravigliosa grafia, che ringraziava e impartiva al ricco mercante la sua benedizione, ma non se la sentiva di costringere una così bella e giovane donna al sacrificio di condividere una vita irrequieta al servizio di Dio. Tuttavia, per non offendere l’uomo di Dar Nasiyah, avrebbe volentieri accettato la dote che certamente la ragazza recava con sé…
Il mattino dopo ricominciò a parlare. E lo fece in pubblico. Uscì sulla piazza principale di Ahmadiyah, avvolto nella più bella fra le sue vesti, e si sedette a gambe incrociate sul gradino più alto della scalinata che chiudeva il portico esterno della moschea sciita – di fronte alla chiesa armena. Tra l’una e l’altra costruzione, nella notte i ragazzi chiamati da Viktor avevano tirato un corda tesissima dalla quale sventolava uno strano vessillo verde scuro – mai visto prima – al centro del quale spiccava un piccolo segno rosso i cui contorni non erano chiaramente percepibili dalla gente accalcata sulla piazza.
Questo – gridò ad un certo punto, sovrastando come un tuono il brusio della folla – è il mio stendardo di guerra, che garrirà al vento finché noi tutti non avremo marciato su Costantinopoli…
Pausa. Silenzio. Nuovo, attonito brusio.
…per deporre il Sultano Ottomano…
Silenzio.
…e per mettere sul trono dell’Impero Benedetto da Dio un principe fedele osservatore della legge umana e divina.
Viktor, acciambellato in un angolo della piazza, cercava di individuare fra i presenti gli sgherri e i giannizzeri in incognito. Non riuscì a scoprirne nessuno. Se c’erano – e dovevano esserci, ne era certo, in un paese situato a poche leghe dal confine turco – erano anche loro, come tutti gli altri, stupefatti di una simile impudente audacia: come poteva costui dichiarare guerra al Sultano, al sovrano cioè di uno degli imperi più estesi e potenti della Terra? E come poteva, soprattutto, muovere guerra a uno degli uomini più armati del mondo, se neppure aveva un esercito che gli obbedisse?
Viktor credeva di sapere tutto del suo ex confratello. Ma così non era. Mansur infatti doveva avere letto nei suoi pensieri, sicché lo guardò e proseguì:
Ho già un esercito di miei fedelissimi. Sono novantasette. Novantasette persiani e circassi timorati di Dio e pronti a battersi per la fede e la verità. Con essi partirò oggi stesso da Ahmadiyah per marciare sull’Impero Ottomano. Poi, certo, c’è colui che fa novantotto, il mio fido segretario russo…
Viktor si riscosse dall’assurdo torpore che lo aveva sorpreso. Novantotto con lui, russo ma in realtà piemontese. Novantanove con Mansur, monferrino e persiano e universale come il monoteismo.
Novantanove - concluse trionfante il profeta – Come i nomi di Dio, che ci guida.
(Continua)
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Illustrazione di Franco Blandino