Sur les traces de l’immigration italienne: terra di scambio tra spettacolo e ricerca etnomusicologica!
ANNA ANDREOTTI*
https://youtu.be/hldGSPrTTqE
Questo progetto è iniziato nel gennaio 2010 quando ho cominciato ad intervistare gl’immigrati italiani in Francia, ed è partito da Montreuil, là dove abitavo. Volevo che le interviste servissero come materia per uno spettacolo musicale, non sapevo ancora come ma era da lì che volevo partire. Ho cercato informazioni sul mio quartiere, sulla mia casa … ho scoperto che entrambi erano stati costruiti da italiani … poco alla volta sono entrata nel cuore di una città e nell’anima di una comunità quella degl’italiani dell’est parigino.
Non ero partita per fare un lavoro ‘scientifico’ ma artistico; si, avevo studiato antropologia all’università di Firenze; l’esame di Antropologia Culturale era considerato all’epoca come uno dei più facili e tra studenti ci si domandava «ma a che serve» talmente eravamo proiettati verso il futuro! L’esame l’ho passato brillantemente come del resto molti altri studenti in lettere e filosofia, ma ne ho conservato un ricordo quasi nostalgico di tutto ciò che avevo imparato; in fondo è stato l’esame più utile, chi l’avrebbe mai detto!! Arrivando in Francia avevo ritrovato l’antropologia all’università di Paris 8 con Giovanna Marini nel suo corso di ‘etnomusicologia applicata ai modi del canto contadino’. L’incontro con Giovanna Marini è stato fondamentale, ha cambiato il mio modo di vedere la vita e il mio lavoro….. Penso che se non l’avessi incontrata non mi sarei mai lanciata in questa folle avventura al confine tra ricerca e spettacolo, su una tematica così vicina al mio proprio vissuto!
Il postulato di partenza che orientava le mie interviste era : «come è stata vissuta l’immigrazione dalle generazioni precedenti alla mia e che differenze o paralleli possiamo tracciare rispetto alla situazione migratoria odierna». Era quindi un postulato politico, la scelta della comunità italiana come terreno d’inchiesta era più che evidente, era una comunità che conoscevo, alla quale appartenevo. Quello che invece non avevo previsto era l’interazione con il mio proprio vissuto d’immigrata. Già dalla prima intervista mi sono resa conto che la lista di domande che mi ero preparata non aveva più senso: l’emozione che c’era nei nostri dialoghi era enorme e inficiava evidentemente la mia presunta neutralità. L’empatia che si creava tra me e il testimone mi dava una specie di passaporto con visto permanente per entrare nell’intimo; anche gli errori diventavano fonte di scambio e di raccolta d’altre informazioni. La mia età spesso vicina a quella dei loro figli li spingeva a raccontarmi quello che non avevano mai osato raccontargli. Da intervistatrice diventavo vettore di passaggio, traghettatore di memoria.
Mi sono interessata all’inizio, alla partenza, da dove venivano tutti questi italiani e come? Dove e perché si erano installati in Francia? I canti sono venuti dopo. Qualche nota canticchiata, qualche parola mi davano l’indizio e poi ritrovavo i canti sui dischi che avevo a casa. Sin dalla prima embrionale rappresentazione che abbiamo fatto, in cui parole e canti si rispondevano, il rapporto si è invertito, è stato il pubblico a regalarci nuovi canti. Era un pubblico poco abituato allo spazio teatrale, talmente immerso nella narrazione, felice che una parte della propria storia fosse narrata, che quel gran silenzio che aveva intorno fosse rotto, un pubblico che aveva bisogno dell’atto teatrale e che a volte perdeva anche la distanza tra se e il rappresentato. Questo pubblico m’è venuto a dire «anche io ho una storia e dei canti da trasmetterti, vieni, vieni!». È lì che il lavoro prettamente artistico si è aperto all’antropologico e il progetto è diventato anche etnomusicologico. È dal 2010 quindi che viaggiamo da un lato all’altro della penisola, visitiamo i paesi più reconditi, ci appropriamo il più possibile di suoni, lingue, dialetti e le differenti identità di cui è composta l’Italia. Un viaggio attraverso le province francesi, dall’est parigino alle miniere al confine con il Belgio, da Dijon e le vigne della Bourgogne al porto di pesca di Sète, più di 60 canti che provengono dalla Lombardia, il Piemonte, il Veneto, la Liguria, la Valle d’Aosta, la Toscana, l’Emilia Romagna, il Trentino Alto Adige, la Puglia, la Campania, l’Abruzzo, Molise, Calabria, Lazio, rinascono dall’oblio….
Intorno ai canti un coro si è formato, Sono perlopiù italiani o figli d’italiani, prima, seconda o terza generazione alla ricerca di suoni e colori, emozioni spesso dimenticate. Un coro fatto di figli d’emigranti fuggiti dai paesi, frazioni, cascine, baite, masserie, spinti dalla miseria e dalla violenza dell’industrializzazione che ha sfigurato la campagna e distrutto l’economia montana nel dopoguerra. Figli di anarchici, socialisti, comunisti, scacciati dal regime mussoliniano, ‘cavalieri erranti’ in cerca di un mondo nuovo. Figli di pescatori di Gaeta o Cetara andati a cercar fortuna nei porti di pesca in Algeria e naufragati a Sète o Marsiglia nel ‘62….
Poco alla volta appare una geografia sonora italiana ma anche francese. Realtà sconosciute mi saltano agli occhi : ‘si emigra ancora negli anni ‘70 a neanche 100 km da casa mia, da Firenze….’. Alla chiamata d’aiuto della Francia bisognosa di mano d’opera nell’immediato dopoguerra, i racconti sono come grida nelle mie orecchie: «è possibile vendere uomini come massa lavorativa all’estero?… Di che cosa era fatto il nostro boom economico? A chi è servito e chi ne ha pagate le conseguenze? Valeva la pena tanta sofferenza per ricostruire il benessere e l’industrializzazione? ». Le parole di «Lacrime napuletane» cantatemi da un signore di Gragnano a Charleville Mézière «so’carne a maciello, so’ emigrante» perdono tutta la loro enfasi… sono schiaffi.
Ed è proprio questa geografia sonora, urlante d’ingiustizia che motiva nell’intimo ciascuno dei cantori del Coro dell’emigrazione, un coro che fa da specchio a quello dei testimoni, un coro di francesi che cercano risposte alla loro storia ma soprattutto un Coro che si interroga sulla situazione attuale dei flussi e riflussi migratori, il mare nostrum docet….. il cerchio si chiude, la motivazione politica che mi aveva spinto verso questo lavoro si ritrova al centro stesso del progetto: guardare il passato per comprendere il presente.
Insieme a Simone Olivi e Margherita Trefoloni entrambi italiani figli della nuova emigrazione quella dei ‘cervelli’ iniziata alla fine degl’anni ‘90 abbiamo elaborato un metodo di lavoro tenendo sempre presente come memento mores il rispetto profondo del testimone e della sua storia. Il lavoro è stato collettivo: insieme abbiamo intervistato, ritrascritto minuziosamente le interviste, scritto gli spettacoli/stazioni, collaborato alla regia, alla tecnica e all’amministrazione. Chiamiamo “Stazione” gli spettacoli, una sorta di teatro giornale in cui le testimonianze raccolte sono rinforzate dai canti. Sono spettacoli dalla vita effimera, ogni anno ci orientiamo verso nuovi territori guidati dalla ricerca.
Dalla nostra collaborazione sono nate 10 stazioni, legati a differenti tematiche (lavoro, integrazione, culture, lingue) ma anche in relazione alle differenti ‘micro’ comunità incontrate: i friulani, gli italiani della Côte d’or, di Charleville ecc ecc.
Da più di un anno il Museo Nazionale della Storia dell’Emigrazione di Parigi ci ha aperto le porte e quest’anno sarà un anno denso di collaborazioni con il museo stesso e la Philarmonie di Parigi. Una nuova Stazione speriamo riuscirà a nascere sull’impegno politico. E per finire la stagione contiamo di portare il progetto in Italia, a primavera, alla scuola di Testaccio a Roma! Finisco con la nota di regia che si trova nel dossier del progetto scritta nel 2010 e che credo descriva ancora chiaramente il motivo, la leva più intima che spinge il progetto :
«Niente mi commuove di più che scoprire le tracce di un passato inconscio. Resti di vite non destinate a restare nelle nostre memorie. Brandelli di azioni, usi e costumi quotidiani che nonostante gli atti e le decisioni di coloro che sono destinati (o si destinano) a restare nelle memorie, marcano la vita, un luogo, un tessuto umano.
Arrivata a Montreuil la sorte ha fatto sì che la casa in cui sono andata ad abitare era precedentemente abitata da italiani: I Corchia (nome di un paese dell’Appennino tosco-emiliano da cui poi sono arrivati milioni di italiani). La signora si era sposata con un altro italiano, il Sig. Beghetti… così ho ritrovato nella costruzione della casa pezzi di vita che mi appartenevano, che condividevo: dal modo in cui erano fissate le piastrelle ai muri, praticamente inespugnabili, al forno a legna perfetto per cuocere pane e pizze. Nessuna traccia di vita borghese ma piuttosto proletaria, in un giardino che conservava antiche vestigia di una classe medio-alta, tutto era consolidato, cementizzato, modernizzato anni ’50. Il giardino era impeccabile: il giardiniere, l’architetto e il muratore erano la stessa persona, cioè il proprietario.
In dieci anni di vita qui a Montreuil, di italiani di prima, seconda e terza generazione ne ho incontrati tanti. Tutti felici di poter parlare, scambiare, chi solo qualche parola (a volte solo qualche brandello di dialetto a me sconosciuto), chi delle vere conversazioni. Così sono nati gli “aperitivi italiani”! Incrocio perfetto fra la tradizione francese dell’aperitivo e la convivialità italiana!
Quante vite sono cambiate, nel loro modo di pensare, agire, vedere al quotidiano; quelle di coloro che sono immigrati ma anche quelle delle persone che hanno accolto sulla loro terra questa “invasione silenziosa” di italiani. Invasione silenziosa come mi ha detto una vivaista perduta nel quartiere dei Murs à pêches a Montreuil, « nous on se faisait petits / noi ci si faceva piccoli piccoli ». O come mi ha detto l’altro giorno un signore d’origine italiana all’“apero” da Mimì: « dans ma rue on était tous des italiens, et les deux derniers pavillons on les appelait “i francesi” / Nella mia strada eravamo tutti italiani, e quelli delle ultime due case li chiamavamo “i francesi” ».
Sicuramente questi anni sono gli ultimi in cui possono ancora essere decifrate queste tracce, molte resteranno inconsce, intrinseche e mai raccontate. Il materiale umano, temporalmente labile per natura, ci confronta alla fragilità del nostro “passaggio sulla terra”, all’inesorabile orologio umano che ci limita nel tempo e nell’interazione con gli altri. Da questa fragilità nasce l’emozione».
*Anna Andreotti è la Direttrice artistica del progetto.
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