FRAMMENTO: TORNARE PRIMA DI ANDARE
Alla mia torre d’avorio è rimasta una memoria da elefante
e i suoi canini affilati che mordono all’interno
e aprono brecce:
sono invisibili da fuori
e nessuno sa che da queste parti
esiste questa giungla impraticabile
come il tuo corpo di sabbia e uncini
la dispensa dei miei desideri
frutti di farina e formiche
ciotole di acqua e cartone
dove battono la pioggia e le idee
fermate da spilli avvelenati
come insetti dalle ali rotte
con migliaia di occhi azzurri, verdi, rossi:
non importa il colore, si proiettano
sul lenzuolo, questa tela ancora
intatta
mentre l’avverbio comanda
con le sue lettere aperte come mani affamate
l’impronta digitale del mondo
seminata e crescente
piena di peli che si strozzano
si ingorgano in un prosciugamento imperfetto
un tubo che va fino al centro della terra
per imbattersi in monete di latta e carne acrilica.
Allora che faccio, quanti milligrammi
servono perché il dolore diventi scheggia
e la febbre nastro isolante per le gomene scortecciate
lentamente
da ratti affezionati, senza rabbia,
grigi e mansueti, obbedienti come il vino,
se ne andò, perché andarsene è possibile
e persino inevitabile come il ritmo dell’angoscia
che diventa rimorso quando le domandi
dov’è nata, da dove viene,
senza passaporto, clandestina, col suo bagaglio,
il filo interdentale, lo spazzolino, i suoi vestiti grandi
a quadri, a righe, senza tempo,
contromano, tra ghiaccio rotto dal sale
di un mare di dubbi, una frase fatta,
diana dal lancio mediocre,
perché aspirerai a cose più grandi
se da qualche somma rimane resto,
c’è un passato, tanti bruchi con aghi
che tessono e disfano ogni volta la stessa cosa,
come se avesse un diagramma di unità
compresse che si sfaldano solo col nominarle.
Quando la parola esce mi metto le dita in gola
E la vomito per vedere gli alimenti triturati,
ancora riconoscibili, mela, noce, pesca noce,
olio, vespe, carta e plastica,
imballaggio incluso, senza etichette,
non mi sono mai piaciute, perché i dettagli
sembrano solo questo e poi sono la vita,
una tazza di acqua bollente nella madiella,
accanto al sale e alle chiavi disordinate
o al libro di racconti del figlio che stavo per avere
quando ero fertile come la terra
a cui tornai in volo senza motore,
ossia in silenzio,
nel convinzione proprio delle pareti imbiancate,
non deve vedersi il mattone, ciò che è sotto, ciò che sogna:
che non si desideri altro che noi stessi.
(Traduzione fornita dall’autrice)
Flavia Company (Buenos Aires, 1963) scrittrice, giornalista e traduttrice. Nasce a Buenos Aires il 27 settembre 1963 e dal 1973 vive a Barcellona. Le sue opere sono raccolte in varie antologie e sono state tradotte in Francia, Olanda, Brasile, Polonia, Germania, Portogallo, Italia e Stati Uniti. Laureata in Filologia Ispanica, traduttrice, giornalista e insegnante della Scuola di Scrittura dell’Ateneo Barcelonés e di Creazione Letteraria (racconto) nel Master in Creazione Letteraria dell’Università Pompeu Fabra. Critica letteraria dei supplementi Babelia e Quadern, collabora con Página/12.
https://es.wikipedia.org/wiki/Flavia_Company
https://www.facebook.com/itinerariosdeescritura.flaviacompany
http://fcompany.blogspot.com.es/