LUIGI PERROTTA.
Premessa: Saprof, un poemetto sperimentale
Conscio di correre il rischio di impazzire come un novello Don Chisciotte (in versione brettia, si badi bene!), mi sono illo tempore lasciato catturare dalla fantastica magia dei poemi cavallereschi e del loro mondo fatato. Complice un complicatissimo e sterminato esame di Teoria della letteratura italiana – saluti al mitologico Prof. Nuccio Ordine! – mi sono addentrato, con la stupidera dei miei spensierati ventitré anni, nello studio matto e disperatissimo dell’Orlando Furioso, analizzandone ottava per ottava, verso per verso, parola per parola, tutti i 38.736 endecasillabi partoriti dalla folle e geniale penna di Ariosto.
Mi si potrebbe obiettare che trarre godimento dalla lettura critico-analitica di un mattonazzo lungo quasi il triplo della Divina Commedia sia molto più folle che geniale, tuttavia io l’ho adorato!
Amavo alla follia l’intreccio narrativo di messer Ludovico, contorto come la sua selva e mistico come i suoi castelli incantati; mi perdevo, strofa dopo strofa, nel fascino delle storie che si incrociavano continuamente tra loro; scopersi l’invenzione della pubblicità, dell’attesa e del paraculismo, tutti elementi che il buon Ariosto utilizza praticamente alla fine ed all’inizio di ogni canto. Come lascia col fiato appeso lui, non lo fa nessuno, neanche la più feroce delle soap opera!
Ricordo che ero tanto impregnato di quel poema e delle sue trame che stroncavo ogni tentativo di spoiler da parte dei miei colleghi di allora! Non volevo sapere se Orlando avrebbe ucciso l’orca; se Ruggiero avrebbe salvato Bradamante o se Rinaldo avrebbe bevuto dalla coppa della conoscenza. No! Perso nella ricercatezza delle rime e dall’andamento cadenzato degli endecasillabi, giunsi alla fine del poema sentitamente dispiaciuto che fosse finito.
Fui così preso da questa meravigliosa opera che mi addentrai anche nella lettura del Morgante di Luigi Pulci e della Gerusalemme Liberata di Tasso, anche se il mio amore propendeva sempre per lui, il Divo Orlando, per la casata di Chiaramonte, per i paladini e per i mori, per le battaglie epiche e per l’immensa mitografia che prende letteralmente vita nelle pagine di Ariosto.
E qui giunse la follia che mi colpì più dura di una maledizione di Ate! Mi resi conto di aver scoperto uno dei migliori modi di comunicare: l’ottava!
L’ottava è una struttura perfetta, una monade che non ha bisogno di sostegni né di essere scissa, un nucleo semplice fatto di quanti e quark e che ne so io, perché non sono mica un fisico! Comunque ero felicissimo! Grazie all’ottava mi si era aperto un mondo. E sempre grazie ad essa iniziai a dire praticamente tutto. A un certo punto mi sono accorto che mi era più semplice scrivere in ottave che in prosa e da allora ancora non mi sono stancato.
Quello che voglio presentarvi è uno dei parti più infetti della mia mente malata: una storia, compressa in sole cinque ottave, che parla di vendetta, di magia sciamanico-druidica, di morte e distruzione. Vi presento Saprof, il Mostro Saprofita (effettivamente non proprio originale come nome, ma mi faceva quadrare l’endecasillabo!). Buona lettura e… a presto… Spero…
SAPROF
Atlante Mago un giorno prese forza
e mescolò l’argento con la terra,
vi pose del mercuro e della scorza
di melogran e un po’ del che rinserra,
e polvere di morto e acqua che smorza,
infine sangue e lacrime di guerra
per procreare il mostro saprofita
che gli divori, ovunque c’era, vita.
Il Mago lo guardò dicendo: – A questo! -
mostrando ne la sfera il suo nimico,
- Dovrai polverizzare presto e lesto,
ché primamente fu mio buon amico
ma poi cambiò e mi cadde fuor di sesto.
Dovrai seccarlo come fece al fico
il bon Pastore e come fe’ a Gomorra
con fuoco e zolfo bruci in questa forra! –
Di lì partissi Saprof come un lampo
- così lo strego il mostro avea nomato –
e prese l’avversario in mezzo al campo
in cui per bere un po’ s’era fermato.
Sul corpo gli si pose crudo a stampo,
finché l’ebbe de l’acqua disseccato.
Di poi si fece tutto piccolino,
più micro d’una perla d’orecchino.
Entrando da la recchia giunse al collo,
sguazzando ne l’arteria e ne la vena,
e poi che dentro il sangue stette a mollo
scavò nel collo un buco come cena.
Ma poi che non fu pago né satollo,
pensò di dargli più gravosa pena:
il capo divorò fin al cervello
e dentro il cranio vuoto fece ostello.
E poi che non rimase a quel dannato
nemmeno in testa un pelo od un capello,
con l’occhio dritto e manco or accecato,
col ventre senza stomaco o budello,
e l’osso de la schiena frantumato,
il core gli mangiò quel mostro fello!
Gli consumò poi l’alma e la memoria
e scomparì per sempre dalla storia.
***
SAPROF: ANALISI TESTUALE
Condensato in sole cinque ottave, questo poemetto brevissimo è in realtà ricolmo e strabordante di immagini iconografiche talmente plastiche da poterne estrarre un intero repertorio artistico. L’ispirazione che lo anima è chiara: la vendetta. Esso trae vero e proprio nutrimento dalla sete di nemesi da cui il protagonista, il Mago Atlante, è afflitto in maniera inestinguibile. Non si conoscono le cause di questo sentimento talmente negativo da diventare livore prima, rabbia poi, infine desiderio di morte. Si sa solo che un suo “vecchio amico” prima “cambiò” e poi “gli cadde fuor di sesto”. Evidentemente Atlante avrà provato altre strade per risolvere la situazione, magari avrà tentato una riconciliazione, oppure avrà aspettato un ritorno da parte dell’amico. Non abbiamo altre notizie a riguardo. Le cinque strofe fotografano un preciso istante, quello cruciale, culminante nella truculenza più assoluta e nella violenza cieca e senza appello. Il Mago si spinge oltre, arriva ad un estremo che potrebbe quasi costargli l’anima: crea egli stesso il proprio boia, un golem composto da vari materiali, tutti aventi un significato recondito notevolissimo ed efficace. Egli, dunque, per poter avere soddisfazione, non attende paziente il cadavere del suo nemico portato dalla corrente del fiume. Egli non è un saggio né tantomeno un magnanimo, ma vuole creare con le sue mani il suo esecutore, il Paladino Nero che, agli ordini del proprio sovrano, possa fare giustizia all’anima traviata del suo padrone. Alla fine non conosceremo lo stato d’animo di Atlante, non sapremo se la fame di vendetta sia stata saziata – prova che i sentimenti oscuri e proibiti non portano a nulla di buono – ma vedremo solo un po’ di fumo, un silenzio cosmico ed una damnatio memoriae che hanno reso completamente vana l’esistenza di un essere vivente. Di cui, in tutto il poemetto, non verrà neanche riportato il nome.
***
CENNI NON-BIO NÉ TANTOMENO BIBLIO-GRAFICI
Se avesse previsto che la mia nascita sarebbe avvenuta ad agosto, afflitta da una canicola talmente torrida da inaridire i fichi d’India, probabilmente mia madre avrebbe rimandato la fatal copula da novembre a marzo, così che, con un po’ di fortuna, sarei nato proprio insieme a Gesù Bambino. Invece nacqui proprio il giorno dopo le Feriae di Augusto, nell’anno dei Mondiali spagnoli, di cui, ovviamente, non vidi manco una partita. Il danno più grave è che Nando Martellini andò in pensione, lasciando campo aperto alla cattività di Bruno Pizzul, durante il cui antipapato non crebbe più erba sulle vittorie della Nazionale. Ma questa è un’altra storia.
Ad ogni modo, coccolato da entità che sembravano nate solo per farmi mangiare, crebbi roseo e pingue come un beluga, tanto che i miei compagni delle elementari mi chiamavano affettuosamente “Papà Luigi”.
Attualmente porto sulle spalle 34 primavere ed una carriera da idealista e nullafacente, il cui cursus honorum mi avrebbe regalato solo amarezze e delusioni. Perso tra i sogni di una passione inutile, ho frequentato il gloriosissimo Liceo Ginnasio “Bernardino Telesio” di Cosenza Vecchia – mia città natale – per poi continuare a scavarmi la fossa ulteriormente, iscrivendomi al Corso di Laurea in Filologia Classica dell’Unical, sterminato Ateneo della Calabria del Nord. Dopo tante traversie, riuscii ad ottenere un pezzo di carta lungo e largo, talmente rigido da non poter essere usato neanche per gli usi igienici di quotidiana profilassi. Ho provato ad accrescere la stima di me stesso dedicandomi ferocemente alla scrittura e al giornalismo, mietendo insuccessi su varie testate locali e ricevendo sportellate sulle tibie da diverse case editrici.
Convinto di dover fare l’eterna vita del mentecatto, fui poi assimilato in un tessuto pluricellulare polivalente, in cui tuttora mi agito alla ricerca di una dimensione personalistica.
Grazie per l’attenzione e scusate il disturbo.
MARIA VALERIA SANNA, Illustratrice, si presenta:
È da sempre che lo adoro: accarezzo il foglio grezzo, cellulosa misto cotone, ed inizio a disegnare. Lascio la matita e prendo la penna per tratteggiare il mio ritratto. Improvvisamente ho il blocco (notes) dello scrittore, un foglio bianco non terrorizza solo chi disegna allora!
Vi faccio una domanda: avete presente quel momento in cui vi trovate ad un bivio e il vostro desiderio vi suggerisce la via da seguire?! Beh, non so bene perché, ma io ho sempre preso l’altra. Forse alla base c’è solo il mio problema nel distinguere la destra dalla sinistra. Ed è così quindi, che dopo la maturità classica, ho pensato bene di iscrivermi alla facoltà di matematica (il mio masochismo mi ha spinta persino alla soglia dell’agognata laurea triennale). Cos’è successo dopo? Inutile dirlo, ho fatto un’altra scelta, che mai mi sarei aspettato di fare, per la quale ho lasciato la mia amata, bellissima, eterna, insuperabile, affascinante, romantica, unica e inimitabile Roma, per stabilirmi a Milano… Milano e basta.
Forse vi sareste aspettati un cenno al mio percorso simil-artistico, ma la verità è che lungo tutti questi anni di scelte illogiche, da ventisette anni ormai, ho sempre disegnato solo per PASSIONE.