L’Uno e la Coppa

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GIANNI PETRONIO

Assuefatti alla terra, sprofondati nel ciclo della natura, come ipnotizzati dalla giostra delle stagioni dove ad ogni giro riappare Persefone, più bella e pura del narciso che le costò la dorata prigione di Ade, non abbiamo più tempo per guardare il cielo: così ci perdiamo la bellezza del volo, solo apparentemente ozioso, degli uccelli, il fascino arcaico di una grossa luna adagiata sui falcetti dorati dei druidi, le imperiose guglie gotiche dei cipressi che sembrano ricercare nel languore delle nuvole l’arcadia perduta di San Guido.
Da sempre ci insegnano che bisogna fare attenzione a dove si mettono i piedi, che bisogna guardare per terra, come fa il bue menato per il campo, per non cadere nei pozzi, come capitò al povero Talete che aveva solo occhi per le stelle.
Eh già! Fosse solo quello!
Ma c’è dell’altro. È chiaro!

Diventati tutti saggi, come i cittadini ateniesi arringati da Paolo, non vogliamo sentire parlare di resurrezione, di vita eterna, faccende appunto del tutto celesti; il disincanto di chi arranca sul crinale impervio dell’ascissa non lascia spazio al pensiero verticale che assieme alla Speranza si arrampica su per le misteriose altezze dell’ordinata.
Tuttavia noi tutti ci sorprendiamo, qualche volta, con il naso all’insù, ad esempio quando ci capita di doverci svegliare all’alba.

Quando, nel pentagramma del tempo che scorre, i registri lamentosi di sora civetta e frate gufo s’assottigliano fino a derubricarsi in fastidiose lacinie della notte e la fragranza del pane appena sfornato sale di sfera in sfera per soddisfare l’appetito incruento di rinnovati dei, ecco che alziamo lo sguardo e ci troviamo, così, a contemplare gli orli dorati e purpurei dell’aurora imbastiti sul drappo invisibile del nuovo giorno.
Nella prorompente alba, nel diffondersi della luce di una nuova genesi riscopriamo il cielo.
Così piccoli! Effimeri!

Seppur impotenti di fronte alla vastità del creato, possiamo, però, compiere un grande gesto: innalzare la coppa della nostra anima per raccogliere l’infinito amore che incessantemente rampolla dal vertice dissimile da ogni cosa pensabile, dall’Uno, dal quale ebbe origine ogni cosa.
E allora un pianto irrefrenabile di gioia ci prende.
Lacrime copiose cadono nella polvere sublimandola a fango, nel quale un passo dopo l’altro imprimiamo le nostre orme.
Le orme di chi abita la terra, ma che ha nel cuore il cielo.
“GLORIA IN EXCELSIS DEO”

(Foto di Fiorenzo Calosso)