SILVIA PIO
La prima lingua che senti quando vieni al mondo ti resta per sempre nel cuore. Se ti capita di non sentirla per un po’, ti manca e hai paura di perderla. Questo succede anche se non te ne vai in un paese straniero; in Italia alla gente della mia generazione capita spesso: la nostra prima lingua è il dialetto, o lingua minoritaria, o – più politicamente corretto – lingua regionale.
La parlavano i miei genitori (ma a noi figli si rivolgevano spesso in italiano, sapendo che era meglio che ci abituassimo subito alla lingua ufficiale), tutti i parenti (con differenze che variavano dalla città alla collina alla pianura, e di paesino in paesino) e i negozianti. Anche l’antica maestra delle elementari citava la lingua regionale, che era la sua originaria, nei suoi motti e proverbi.
Quindi tutt’intorno si parlava il piemontese.
Erano gli anni dell’emigrazione dal sud e l’italiano doveva diventare la lingua franca. Nel tempo erano sempre di più gli amici non piemontesi; poi arrivarono anche i non italiani. I piccoli negozietti chiusero e i supermercati avevano commessi che non parlavano con i clienti. Il piemontese non si parlava più.
Ma la nostalgia non se ne è mai andata, e viene placata soltanto nelle riunioni di famiglia, con gli anziani sempre più anziani, ogni anno uno di meno. In una di queste, un pranzo tranquillo all’osteria di Langa, il proprietario parlando con me e mia cugina Ornella, che è una gran simpatica, dice del nuovo parroco: chiel lì l’è ‘n gadàn. Ci guardiamo con l’intesa di sempre e iniziamo a scrivere una lista di come si dice cretino in piemontese. Una lista al maschile.
Gadàn, balèngu, turùlu, tutùlu.
Ce ne devono essere altri, così coinvolgiamo gli zii.
Anterdèt, badòla (e le versioni territoriali di bagiàn, gadòla, garùlu e gadùlu), badalòc, barbagiàcu, babàciu, bavòc, badàgu, beté, fulandràn, fulatùn, fol, fasö (che a Torino, sottolinea la cugina Maria, si dice fasöl) che vuol dire fagiolo. Scriveremo un’altra volta la lista dei nomi di frutta e verdura usati come epiteti; per ora aggiungiamo solo testa ‘d coj.
Gnùgnu, tabaleuri, balòs, ciùla, ciulàn, ciulatùn, ciulandràn, ciulandàri, pìfer, trus.
A questo punto si fanno agganciare anche i parenti che stavano spettegolando e quelli sordi. Il volume si alza e cominciano letteralmente a grandinare le parole.
Tavanàri, burìc (o bàrich, asino), barbabùc (anche i nomi delle erbe si possono usare per le persone), patalüc, panàda, bèdu, fabiòc, fafiuché, falabrac, gàbia (o gabiàs, matto, ma anche sbandà, sbirunà), materlùn, padòan, stàssi, salòpa. Rino di Mombarcaro aggiunge: ciopaquòie; assomiglia a ciaparàt (incapace). Lo zio più vecchio è sicuro che a Narzole dicano papalüna. Non vedo chi urla: famrucöse e non posso chiedere da dove cavolo viene quella parola. La zia acquisita dell’entroterra ligure dà il suo contributo dall’oltretomba ed io mi faccio medium: besügu.
Ora le sfumature di significato si sono fatte più variegate.
Drol (bizzaro), burìc (birichino), sensa süst (senza giudizio), sensa servèl, savàt (grossolano), brucasùn (idem), fracasùn, gnoc, tapìn, slavarun, calabràje (questo si capisce anche in italiano), gamèl (rafforzativo: gamèl da cursa).
Il piacere di insultare l’aria diventa contagioso.
Balurdùn, trapiàs, cujùn (anche questo è ovvio in italiano), pìciu (altra parte anatomica) e piciurilu, cretìn ed merda!
Si è passato il confine e tutti zittiscono. Arrivano i caffè e i pusacafé (digestivi) e con sommo gusto ci godiamo lo sfogo.
La lingua madre (e padre, e parenti tutti) viene dal cuore.
Illustrazione di Franco Blandino
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