FELICE BACCHIARELLO
La notte di San Giovanni
Sotto una pioggia senza tregua che ancor si aggiunse alla già triste situazione, per tutto il periodo delle operazioni, dai Laghi Lunghi a Cima Diavolo indi alla Valletta di fronte all’Otion, il nemico versava incessantemente su di noi i suoi micidiali proiettili i quali tanto lutto portarono tra le nostre file. Bagnati sino al midollo, privi di rancio da tre giorni, si doveva pur rimanere a sfidare l’ira nemica e il tempo stesso, che pure parea si fosse schierato contro di noi onde renderci più dura l’esistenza e più triste e penosa l’agonia.
Avuto il cambio si ridiscese la Valle di Valdieri ed a marcia forzata con indosso i panni bagnati da otto giorni, passando per Borgo San Dalmazzo – Caraglio – Dronero si risalì la Val Maira per Stroppo – Chiappera diretti al Pal Piccolo, posizione infernale in cui trovarono la morte non solo per arma da fuoco ma per assideramento (era il 21 giugno) molti ragazzi. Sempre sotto il fuoco delle artiglierie francesi appostate nei fortini antistanti si discese la Valle di San Bartolomeo in Francia.
Non è il caso di descrivere dettagliatamente gli inconvenienti e gli incidenti di questi trasferimenti, basti dire che si era privi di tutto ciò che era di prima necessità. Si pensi che in sette giorni si è riusciti ad avere una volta, Dio solo sa da quale distanza, una zuppa che anziché calda arrivò con un centimetro di ghiaccio sopra. Molti di noi, per non correre il rischio di abbreviare la fine dei nostri pur tristi giorni ingerendo una tal vivanda ghiacciata quando già si era mezzo gelati, non osarono mangiarla accontentandosi di finire la pagnotta con una porzione di formaggio.
Così per una settimana, una pagnotta, una galletta ed una scatoletta di carne furono il cibo dei poveri lottatori con la morte.
La notte di San Giovanni, poi, fu l’apoteosi di tutti i patimenti e pericoli. Chiusi in un vallone dal quale non poteasi né indietreggiare, perché il retro era battuto incessantemente dalle artiglierie francesi, né avanzare, perché si sarebbe andati in bocca al nemico senza giovamento alcuno, con il nevischio che ci accecava, bivaccammo come pulcini impotenti, al riparo dei macigni sotto l’ululare incessante dei proiettili delle artiglierie italo-francesi che incrociavano il fuoco sopra le nostre teste, mentre i colpi francesi diretti a noi si andavano ad infrangere contro le pareti rocciose a meno di centro metri dietro le nostre spalle, passandoci a meno di cinquanta sopra il capo, con sinistri e spaventosi sibili.
Ore d’inferno; assordati dal rombo dei cannoni a breve distanza e dallo scoppio delle granate, intirizziti dal freddo, sfiniti dalla fame, si era in uno stato di semi incoscienza, spaventosa, impossibile a descriversi, rassegnati ad una sicura e vicina morte.
Quanto maggiore è il pericolo, tanto più ci si sente attaccati all’esistenza, alle persone che ci sono care, alla famiglia ed allora ci pervade un senso indescrivibile da non sapersi ben definire se coraggio, scoramento o nostalgia per il rischio che si corre di perdere tutti questi affetti.
In tali frangenti si riconosce e si comprende pienamente quanto sia preziosa l’esistenza, non solo per il proprio Io, bensì per i nostri più cari; allora una tremenda angoscia ci assale e si vorrebbe piangere per trovare almeno sfogo nelle lacrime all’impotenza di agire, di porsi in salvo; ma nemmeno questo è più possibile tanto ci si trova annichiliti, ridotti a nulla.
Ci si vorrebbe porre in salvo e non di meno si sta ad attendere la morte in forse, come il condannato il quale aspetta tra lo spavento e l’impazienza il colpo della mannaia che gli dovrà togliere la vita.
In quella notte d’inferno i colpi di artiglieria non si distinguevano, tanto velocemente si succedevano l’uno all’altro, perciò in quel vallone altro non udivasi che un continuo boato, assordante, spaventoso, come quello che Dante descrive non suo inferno.
Quella notte la passai quasi tutta in una buca sotto una roccia; forse era la tana di una marmotta, nella quale non so come abbia potuto entrare, uscendone a stento di tanto in tanto, per mettere in modo le membra intirizzite dal freddo, preferendo, se mai quello fosse stato il destino, morire reciso da una scheggia anziché assiderato nella tana come un topo.
Verso l’alba, tutto quel terrore era finito; solo si sentiva qualche raro colpo in lontananza sparato da una batteria più restia alla resa. I Francesi avevano cessato il fuoco; la calma era tornata su tutto il fronte.
Si risalì la valle mentre il sole dopo tanti giorni di ammutinamento riappariva sulle vette inargentate dalla recente nevicata, mandando bagliori accecanti e riflessi di luci che parevano del tutto nuovi ai nostri occhi da tanti giorni languidi e senza speranza.
Nei nostri cuori pure, man mano che si ascendeva il monte, sorgeva il sole, nuovamente sorgeva la speranza e la gioia di essere ancora vivi! dimentichi già della fame, dei patimenti sofferti, tanta era la gioia che inondava i nostri cuori.
Ma non tutti ascesero il monte. Parecchie mamme dovettero, con lo strazio nel cuore, piangere la perdita del loro figlio più caro; in quei cuori più non sorse il sole del mattino di San Giovanni, per loro è nato invece un rustico cimitero, pieno di austerità, ai piedi del Monte che li sovrasta come custode conscio del tesoro sacro che gli è affidato.
In quelle fosse quei prodi, vittime di un crudele destino, sono stati adagiati amorosamente come fratelli da fratelli, mormorando loro ancora una promessa: “Andrò io a dire una parola affettuosa alla mamma tua, a colei che invano attende il tuo ritorno sulla soglia di quella casa benedetta”; a lei dirò: “non piangere mamma, accetta l’affetto di un altro figlio che come quello ti ama e comprende il tuo dolore; il figlio tuo è morto col nome tuo sul labbro, sii forte nel dolore”.
(Continua)
Si ringrazia la famiglia Bacchiarello per la concessione del testo e delle fotografie.