Storie di cavalli volanti

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GABRIELLA VERGARI.

Il filo si agitava vivace per le strade del centro, quando all’improvviso mi strappai verso l’alto, con volo leggero. Lo sbigottimento deluso del bimbo che fino ad allora mi aveva tenuto accompagnò la mia ascesa, temperandomi l’ansia di cielo, ma ben presto il vento mi obbligò al suo comando ed io lo seguii docile. Ancora vibravo e mi sentivo dentro l’attimo che mi aveva infuso la vita, rendendomi variopinta e grande testa di cavallo da inerte vescica qual ero, eppure la mia esistenza terrena si era già volta alla fine. Adesso mi si spalancava davanti l’orizzonte, ed ebbro di scoperte mi abbandonai con entusiasmo ai misteri del volo, finché le correnti d’aria non mi frenarono lo slancio, lasciandomi a galleggiare morbido e dimentico di essere solo un fragile guscio, rigonfio di elio.

Dalla mia nuova postazione aerea, la terra sembrava un brulicare convulso di gente. Un’interminabile gala pulsante che si avvolgeva e svolgeva, gaia e variopinta, per vie, piazze, traverse. Le maschere si mischiavano ai volti, punteggiando il corso di Acireale, di insoliti festoni e di costumi carnascialeschi fusi agli abiti comuni in un abbraccio giovialmente solidale. Volteggiavo lieve, finché il vento non cadde repentino e fui sospinto verso il basso, a pochi metri dal selciato. Non ero più solo. Altri “fratelli” stavano solcando l’etere come me, floridi e vigorosi o già più languidi e flosci, prossimi a precipitare giù per sempre.

Consolato da una bella nuvola di zucchero filato, la destra stretta ad un coloratissimo manganello di plastica con cui rifilare sonore randellate ai passanti, il mio piccolo proprietario si era infine chetato e non piangeva. Accanto a lui trombette e coriandoli impazzavano al punto da ficcarsi nei posti più impensati e ricamare impreviste fantasie su cappotti, sciarpe e berretti.

Nero ed impettito un signore si ostinava a calcarsi sul capo il cappello che, bizzoso, a tratti gli si sollevava. Non si era accorto, il poveretto, che dal balcone sotto il quale si era messo in attesa, qualcuno gliel’aveva arpionato con un uncino attaccato ad una lenza e lo manovrava ad intervalli studiati, con polso sapiente.

Mastodonti al traino di motrici asmatiche di fumo, i carri allegorici intanto procedevano lenti, e insieme a tutto quel trionfo di cartapesta i gruppi mascherati inscenavano infreddolite baldorie, animandosi al ritmo di cadenze sudamericane. Dall’alto di una macchina infiorata, una minuscola regina dei fiori lanciava baci e coriandoli, ricambiando con sorrisi aggraziati i cenni e i commenti degli spettatori a grappoli assiepati sui balconi barocchi

Il freddo di quel martedì sera si stava facendo pungente, ma nell’euforia collettiva la folla, coi baveri striati di schiuma e di stelle filanti, le bocche serrate per non ingoiare i coriandoli, gli occhi ridenti, le mani colme di calia e semenza, sembrava ignorarlo. Se c’era ancora un posto per il rovesciamento di ruoli e forme, mi pareva di vederlo proprio lì, in quella universale ed indiscriminata disponibilità al divertimento, nell’apertura all’ innocuo e svagato sollazzo.

Distratto dallo spettacolo, non feci così in tempo a scansare un altro palloncino che mi stava venendo addosso veloce. Sembrava già vizzo di viaggi e carico di racconti. Mi disse di aver colmato inimmaginabili distanze, coperte per giorni e giorni al capriccio dei venti.

Passaggio del fercolo di Sant'Agata sotto l'Arco di San Benedetto, dettaglio.

Passaggio del fercolo di Sant’Agata sotto l’Arco di San Benedetto, dettaglio (da Wikimedia Commons)

“Quando mi sono sollevato in volo dalle mani del venditore,” mi confidò con emozione “la cera sfrigolava bollente, gocciando in vaste chiazze collose per tutto il lastricato delle vie di Catania. Nell’impellenza dello sforzo, le nuche degli uomini parevano schiacciarsi a terra sotto il peso immane dei ceri votivi, i visi stravolgersi intenti, le fronti contrarsi in solchi madreperlacei di sudore. Al tiro di un interminabile cordone, miriadi in sacco bianco e scuzzitta nera urlavano la loro devozione per Agata, la martire dal nome di pietra, mentre con vispo ciangottio di cardini e tintinnio di pendagli, la vara d’argento avanzava estenuantemente tarda e solenne, abbrancata di continuo da mani che donavano fiori, candele ed offerte. Rotta insieme da preghiere e imprecazioni, l’aria fragrava di olivette, bomboloni, minnuzze, torrone e mandorle tostate e tutti si addensavano sotto al fercolo per deliziarsi delle aristocratiche fattezze di una Patrona giovinetta, fulgida di gemme, monili d’oro, medaglie ed onorificenze, alla luce di centinaia di fiammelle che ardevano le tenebre a gara con cincischiati archi di luminaria.  Un po’ più avanti sfilavano, a straordinario picchetto, turrite cannilori, cerei lignei che, nel rutilante sventolio di luci, angeli e bandierine, ondeggiavano all’annaccata di spalle maschie e muscolose. Non era certo carnevale, pure la città sembrava pervasa da un’unanime eccitazione che di eccezionalità parlava e le persone erano tutte lì, riversate sulle strade a migliaia o affollate su ogni possibile apertura che desse all’esterno. E pregavano, cantavano, agitavano fazzoletti e guanti bianchi, gridavano: Semu tutti devoti, tutti?  Tutti, tutti.  Poi, ad un tratto, il cielo rintronò di scoppi, illuminandosi a giorno di strani arcobaleni che esplodevano fastosi di colori e subito declinavano in una pioggia di scintille polverose. Ed il velluto della notte abbagliava di vezzi, di giade, di smeraldi e rubini, trapuntandosi di fontane lucenti, che ricadevano in scrosci ingemmati di zaffiri e perle sul plauso di quelli che stavano a guardare col naso all’insù. Il vento mi chiamò infine alla montagna e non ricordo altro” concluse con una nota di breve rammarico, prima di sperdersi ancora e andare chissà dove lontano.

Ed ecco che all’improvviso anche il mio cielo cominciò a rintronare e quasi le scintille mi rovinavano addosso, sfiorandomi pericolosamente. Terrorizzato, cercai quindi di sfuggire fino a quando non mi sentii al sicuro.

Solo allora mi volsi indietro per un’ultima occhiata di congedo. Con un silenzio corposo la calma era discesa sulla cittadina. Diretti alle loro case, gli ultimi ritardatari percorrevano fiaccamente le vie intessute di cartocci, coriandoli e trombette, mentre al centro della piazza il rogo di Re Carnevale consumava i suoi ultimi crepitii, levandosi in dense strie, plumbee di fumo e solitudine.

Il nuovo giorno sembrava ancora distante ma si sarebbe profilato sicuro, promessa di penitenza, ordine e stabilità nell’effimero viaggio della vita.