In questa mia storia d’amore con Margutte, qualche tempo fa mi ero ripromesso di innalzare templi ai vizi ed ai peccati e di scavare oscure prigioni alle virtù. E sto, pian pianino, facendolo. Ma mi interrogavo se, al di là di un intento provocatorio, io sia proprio amico del peccato e nemico della virtù. E, in questa operazione di autoanalisi, all’improvviso mi è comparsa di fronte una virtù somma della quale ero assolutamente ben disposto a tessere l’elogio: il silenzio. Sono andato a compulsare i sacri testi per verificare se fosse teologale o cardinale ma, con sorpresa, ho verificato che non c’è. Fede, speranza, carità le teologali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza le cardinali. Insisto e trovo elenchi di virtù civili, militari, domestiche, mi arrampico su onestà, umiltà, verecondia ma dell’amato silenzio nessuna traccia. E così ho deciso, con atto unilaterale, di eleggere il silenzio a virtù somma ed assoluta, intima essenza di tutte le virtù senza la pratica del quale tutte le altre virtù appassiscono.
Tacere, sentire, ascoltare: verbi che utilizziamo continuamente senza, forse, riflettere sul loro profondo significato. Ci aiuta a rendercene conto provare ad immaginare di rivolgerci ad un interlocutore: “taci”, “senti”, “ascolta”; alcuni di questi termini richiedono un’azione, altri anche una preparazione all’azione. Taci vuol solo dire stai zitto, senti richiede il collegamento con me, ascolta richiede da parte del ricevente attenzione.
Il silenzio: uno stato che siamo poco abituati a frequentare. Gli allievi di Pitagora erano costretti ad ascoltare i suoi insegnamenti senza poterlo vedere, nascosto da una tenda, e senza poter dire parola. Per cinque anni. Poi, se avevano imparato a tacere, ascoltare, capire erano ammessi alla presenza del Maestro ed iniziava la loro carriera. Iniziati, appunto, alla Geometria. Mozart era solito dire che, in musica, i silenzi sono più importanti dei suoni perché è nei silenzi che la musica trova il proprio compimento. L’amante delle escursioni in montagna – che sarei io – rabbrividisce, si indigna e… tace quando incontra gruppetti di escursionisti, di solito giovani, che salgono con le orecchie tappate da aggeggi e fili che raggiungono scatolette infernali. Resisto sempre alla tentazione di provare a spiegare loro che in montagna si va anche per ascoltare il silenzio. So che sarebbe inutile. Immagino con che occhi mi guarderebbero se, dopo averli convinti a scollegare l’aggeggio, provassi a dire, con Carducci, il divino del pian silenzio verde o con Foscolo sacro è il silenzio a’ vati, e vi fa belle più del sorriso (parlava alle Grazie) o, addirittura, con De Gaulle silenzio, splendore dei forti, rifugio dei deboli, o se recitassi, d’un sol fiato, “La pioggia nel pineto” piena di “taci, ascolta, odi”: il più grande e maestoso inno ai silenzi delle voci ed alle voci dei silenzi. E sarebbe inutile attesa aspettarsi che il colto del gruppo, con Pascal, mi replicasse: Il silenzio è la più grande persecuzione: mai i santi hanno taciuto e Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi spaventa. Ma, se succedesse, replicherei con Cervantes nella bocca chiusa non entrano le mosche o col Giusti molto sa chi non sa, se tacer sa o con Stecchetti ed io che intesi quel che non dicevi, m’innamorai di te perché tacevi. Ed al suo tentativo di replica chiuderei con un anonimo – che potrei essere io – Taci. Nessuno ti ascolta. Abbandonati i chiassosi gitanti lascerei le amate e silenti montagne per tornare al rumoroso piano. Riflettendo. E canticchiando, solo dentro di me, La voce del silenzio con Mina: ci sono cose in un silenzio che non mi aspettavo mai… ed improvvisamente mi accorgo che il silenzio ha il volto delle cose che ho perduto.
In realtà oggi viviamo in un mondo assordato dai più sgradevoli rumori e ne siamo diventati così schiavi che, con riflesso condizionato, ci divertiamo a violentare anche i silenzi rituali, tradizionali ed imposti. Chi frequenta gli stadi sa che tutte le volte che, in memoria di persone o fatti, si osserva il canonico minuto di silenzio, lo stesso dura, si e no, tre secondi perché scatta l’applauso. Lo stesso ignobile ed osceno applauso che scatta, all’uscita delle chiese, quando compare la bara di chiunque sia il morto bravo, bravissimo, che gran cosa hai fatto a morire, se potessi ti chiederei l’autografo o di farti un selfie con me. Mi aspetto che, prima o poi, nelle chiese cattoliche postconciliari – già violentate da chitarre e canzonette, da segni di pace falsi scambiati con sconosciuti – al momento dell’Elevazione scatti un bell’applauso per Padre, Figlio e Spirito Santo. Come sempre accade a Napoli per la liquefazione del sangue di San Gennaro. Questo povero silenzio, quello che ha l’oro in bocca, quel bel tacer che non fu mai scritto ci sembrano, in questo mondo, insopportabili.
E pensare che le religioni, le associazioni colte e tradizionali, le filosofie, le scienze, le arti hanno cercato, nei secoli, di educarci al silenzio proponendoci il linguaggio dei simboli. Per un credente Gesù in croce non necessita di spiegazioni, per un massone squadra e compasso sono una voce , una formula, un dipinto, una meditazione – non hanno bisogno di parole. Il linguaggio dei simboli è muto e non a caso simbolo deriva dal greco “sùn-bállein” = unire, mettere insieme, collegare. E tanto dovrebbe bastare. E magari farci riflettere sul fatto che, sempre in greco, “dià-bállein” voglia dire separare, dividere e, quindi il contrario di sim-bolo sia, guarda un po’, dia-bolus, diavolo. E, allora, se il simbolo è silenzio, il diavolo è rumore. Evviva quindi la pratica onanistica della lettura solitaria (unico rumore ammesso il fruscio della pagina girata), le silenziose escursioni in montagna (fischio della marmotte), le passeggiate nei boschi (calpestio di foglie secche a terra, vento tra i rami e la mitraglia del picchio).
E, ad abundantiam, in difesa dell’elevazione del silenzio a virtù, almeno cardinale, ci sarebbe anche il fatto che, tacendo, si può persino meditare, si impara a conoscersi meglio e ci si può preparare ad ascoltare, con santa pazienza, le voci che non ci interessa ascoltare ma, siccome siamo buoni, facciamo finta che non sia così. E, infine, come non citare Oscar Wilde: meglio tacere e far pensare agli altri di essere stupidi che parlare dando loro la certezza che lo siamo.
(Nelle foto, dell’autore, due luoghi cinesi del silenzio)