GABRIELLA VERGARI.
Troneggiava sullo specchio dell’ascensore, spalancato sulle due facciate così che tutti potessero leggerne il contenuto. Intimidatorio e minaccioso, come lo scheletro disegnato con vivezza icastica in calce alla prima pagina e, ad un tempo, pregno di promesse, come la ricca cornucopia ai piedi dell’altra. Quanto al testo, la calligrafia ampia e rotonda, contraffatta, volutamente infantile, le molteplici e gratuite sgrammaticature, lo stile ellittico e perentorio, l’anonimato, lo rivelavano per quello che era: un perfetto prototipo di lettera volta ad alimentare improbabili catene di Sant’Antonio.
Lo strano era la destinazione, non ai singoli ma all’intero condominio, quasi a coinvolgerlo in una sorta di responsabilità collettiva, come nelle società tribali.
Peculiarità, questa, che non mancò di destare l’attenzione del plurilaureato prof. Abelardo Gervasoni, filosofo, antropologo, chimico e, a quanto si sussurrava in giro, anche un po’ mago.
Quando se ne accorse, ovviamente, perché non se ne accorse subito. Pur abitando al quarto piano, all’ascensore preferiva, infatti, le scale, che gli offrivano l’unica occasione di moto durante le sue pienissime giornate, trascorse sempre e comunque seduto, o in cattedra, o alla scrivania, o in poltrona, o sullo sgabello del suo misterioso laboratorio. Anzi, proprio per questo, qualcuno aveva sospettato che il foglio fosse stato affisso da lui per propiziarsi un’ennesima, ghiotta occasione di studio dell’umano comportamento e le umane miserie. E, certo, di materiale ne avrebbe avuto parecchio, se solo si fosse preso la briga di ascoltare i commenti degli altri condomini o avesse installato un’invisibile video-camera all’interno dell’ascensore.
Il pianista del secondo piano, ad esempio, non solo non lesse mai il messaggio, ma proprio non lo vide. Si stava preparando per gli esami di diploma e la sua mente non aveva spazio che per crome, biscrome, minime e semiminime. Beethoven e Liszt, Rachmaninov e Ciaikovski la sua unica, temporanea ragione di vita. Se gli avessero parlato di catena di Sant’Antonio, con la sua solita aria trasognata avrebbe probabilmente risposto di non aver mai avuto occasione di eseguire quel pezzo.
Non così la moglie del tappezziere, terzo piano.
Carica di pacchi e pacchetti, per chiudere la porta dell’ascensore, si era proprio ritrovata davanti la dettagliata lista di sventure occorse a tutti gli inadempienti. La cosa l’aveva scossa fortemente. Dapprima ave¬va appallottolato con rabbia l’inquietante missiva, poi l’aveva scagliata a terra e calpestata ben bene, infine, con tardivo ripensamento, l’aveva raccolta con delicatezza, spianata con cura e piazzata nuovamente sullo specchio. In fondo, che ne poteva sapere il foglio del suo scatto di nervi? Era stato indirizzato a tutti, mica soltanto a lei. Meglio perciò mostrarsi indifferenti. Per prudenza, non si era più comunque servita dell’ascensore.
L’avvocato, suo dirimpettaio, aveva subito riconosciuto la natura dello scritto e aveva ironizzato con la moglie, ricercatrice universitaria, sulla neo-barbarie dei tempi moderni. – Chiunque sia stato, ha certo l’indole dell’untore post litteram, untorello di panico a buon mercato! – E con questo avevano ritenuto chiuso l’argomento. Ad ogni buon conto, nessuno dei due aveva toccato la lettera.
Affascinato dallo scheletro, il bambino della signora del quinto piano, eccezionalmente privo della sorveglianza materna, aveva provato ad arrampicarsi fino allo specchio, ma era caduto malamente fratturandosi il naso. Nulla di grave, per fortuna. La notizia aveva in ogni caso suscitato un bel po’ di scompiglio, se non altro perché la madre dello sventurato pargolo, una volta rassicuratasi sullo stato di salute dell’amato figlioletto e sull’entità della lesione, aveva minacciato di intentare una bella causa per danni al condominio. Perché mai gli uomini delle pulizie non avevano eliminato il foglietto? E come mai non era accompagnato da un adulto un minore di nemmeno otto anni? Forte di tale linea di difesa, l’amministratore non aveva dubbi: si azzardasse pure ad adire le vie legali quell’antipatica attaccabrighe del quinto piano – sempre lei -, ci sarebbe stata una bella battaglia e forse si sarebbe fatta giustizia di tanti altri fattarelli…
Certo, il foglio andava tolto, qualcuno l’avrebbe dovuto fare, prima o poi, ma non toccava a nessuno in particolare e gli uomini delle pulizie avevano chiesto una peraltro legittima settimana di ferie. Naturalmente non gli passò nemmeno per la testa che potesse toglierlo lui. A ben vedere, lui rappresentava il condominio, non era il condominio.
Fu a questo punto della vicenda che il prof. Abelardo si accorse di qualcosa di insolito. Inizialmente colse nella sua direzione alcuni sguardi di disapprovazione. Se ne stupì un pochino, ma non diede troppo peso alla cosa: le stranezze e le contraddizioni degli umani costituivano il campo privilegiato della sua indagine, convinto che, in realtà, non rappresentassero deviazioni dalla norma, ma la norma stessa colta da una diversa angolazione.
E, tanto per cominciare, era egli stesso contraddizione.
Filosofo rigorosamente razionalista, era affascinato dall’arcano e dall’occulto, al punto da trascorrere intere giornate a studiare almagesti, misteriosi trattati rinascimentali, formule magiche giunte a lui attraverso non si sa quale eredità spirituale, tarocchi e similia. Ordinato fino a rasentare la pignoleria in tutto il resto della casa, teneva lo studio e soprattutto la preziosa e ricchissima biblioteca nel più completo disordine, sostenendo che il caos gli favoriva la concentrazione.
Sale e Pepe, due attempati micioni – Sale, ovviamente, era il nero – vi avevano libero accesso, mentre Concetta, la donna che lo aiutava nelle pulizie, non poteva nemmeno avvicinarsi da lontano. Vegetariano radicale, era un acceso sostenitore della caccia.
Insomma, bislacco era bislacco, ma innocuo, mite come un agnello, anche se certi imprevedibili guizzi nel suo sguardo occhialuto finivano spesso per inquietare i suoi interlocutori. Alle donne, invece, ispirava invariabilmente tenerezza, anche perché arrossiva come un papavero se solo rivolgeva loro la parola. Eppure, qualche volta di notte, pareva che proprio dalla casa di Gervasoni si levassero suoni di inconfondibile natura, accompagnati da strepiti ed urla evocatrici di amplessi furibondi e scatenati.
Concetta pareva saperla lunga ma non parlava, anzi sull’argomento era muta come una tomba, fingeva di non cogliere le garbate allusioni dei più curiosi e se per caso si accennava alla timidezza del prof. Abelardo abbassava pudicamente gli occhi e sorvolava.
Comunque, rumori e misteri a parte, quella del professore era divenuta una presenza originale e tuttavia familiare, così che, in definitiva, tutti gli inquilini lo consideravano alla stregua di un caro, vecchio zio, un sorta di mascotte del condominio.
Per questo le occhiate di condanna di alcuni avevano messo in stato di allerta le sue sensibili antenne, ma ciò che veramente lo insospettì fu il nervosismo con cui pareva che i più si accostassero all’ascensore: o ne aprivano la porta con un risolino un po’ isterico, o vi entravano di spalle o, addirittura, preferivano fare le scale a piedi.
Fu allora che, venuto meno alla radicata consuetudine del moto, notò finalmente la lettera, le spiegazzature, i graffi, la peculiarità della responsabilità collettiva e comprese di colpo la situazione.
Ci fece sopra una bella risata, poi, senza pensarci due volte, divertito dallo spropositato rilievo assunto dalla vicenda, prese il foglio, lo portò a casa, nel suo studio, lo sminuzzò in una miriade di coriando¬li, accese solennemente un cerino e diede fuoco al misero mucchietto di carta.
La fiammata non fu granché ma il prof. Gervasoni si ritenne ugualmente soddisfatto dell’omaggio così tributato alla superstizione più o meno dichiarata dei condomini.
Quello che accadde tre giorni dopo non ebbe, certamente, nulla a che vedere con l’episodio.
Fatto sta che, nel rincasare, come fu e come non fu, il professore mise un piede in fallo, ruzzolò giù dalle scale, sbatté la testa e morì.
“Tragica fatalità”, recitò il necrologio dei condomini e questo fu quanto.
Da Sirene, chimere ed altri animali, Solfanelli editore, Chieti 1993
illustrazione di Franco Blandino