Trent’anni fa moriva Primo Levi, esattamente quarant’anni dopo aver pubblicato presso il piccolo editore De Silva il suo “Se questo è un uomo”, che i ‘grandi’ editori avevano rifiutato. Margutte lo ricorda proponendo la recensione di quell’edizione del libro, scritta da Ezio Petrolini per “Artestampa” di Savona del marzo-aprile 1948 (anno II, n. 4-5).
L’autore della recensione (Savona 1921 – Mondovì 2006), docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Classico “G.B. Beccaria” di Mondovì dal 1954 al 1984, era stato catturato dai nazisti nella caserma di Bressanone il 9 settembre 1943 e a sua volta deportato come militare nei campi di concentramento di Dęblin-Irena (Polonia) e di Oberlangen (Bassa Sassonia).
Prendendo la parola sul libro di Levi, Petrolini in realtà parla di sé e della sua analoga esperienza di prigioniero dietro un filo spinato: ne parla nell’unico modo per lui possibile, cioè per interposta persona. Non si spiega altrimenti un inciso come: “[…] lo sfondo ambientale senza cui, anche per chi è stata vita vissuta, questa esperienza tocca i limiti dell’assurdo”.
Chi conosce il libro di Levi quasi non lo riconosce, attraverso la lettura di Petrolini: è come se gli si sovrapponesse una seconda voce, il controcanto di un’altra testimonianza leggibile in filigrana, ma che tende imperiosamente a venire in primo piano.
Nello stesso tempo si avverte una presa di distanza da quell’esperienza, la volontà di rinchiuderla in un ‘allora’ remotissimo (ed erano passati solo pochi anni…), di voltare pagina rimuovendo tanto orrore. Ma “un uomo libero non può disdegnare questa pacata meditazione”: un uomo libero deve guardare in faccia la realtà e ragionare su di essa “sine ira et studio”, senza delegare a nessuno il compito di farlo al posto suo.
Grazie, professore, per questa lezione postuma.
Gabriella Mongardi
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EZIO PETROLINI.
Questo libro di Primo Levi è di particolare interesse per i «curiosi» dell’anima.
Sono 194 pagine nude, senza retorica, che denunciano nella loro frammentarietà la caratteristica del diario, a cui il prigioniero tende per una invincibile e segreta forza interiore di «liberazione»: necessità di una contemplazione oggettiva dei suoi fantasmi a volte puerilmente semplici, a volte allucinati; pagine tendenti nel contempo a ricostruire lo squallido mondo che per anni si agitò scomposto dentro la barriera spinata di un campo di annientamento nella Polonia invasa.
È in sintesi la penosa storia dell’io nei successivi momenti della discesa «sul fondo», il tormento vissuto a questo livello che di umano conserva una grottesca parvenza e da cui fugaci e inconsuete si presentano le evasioni, tendenti alla ricostruzione di una vita che diventa fittizia e i cui valori, nello stagnare del tempo, sempre più perdono della loro vivezza, fino ad atteggiarsi in una drammatica, se pur conseguente, problematicità.
La cornice in cui si svolge questa singolare avventura acquista rilievo unicamente nell’aderenza che ad essa gli ultimi residui dell’io riescono a mantenere nel lento digradare della coscienza ed è il naturale, logico punto d’appoggio del pensiero che rivive il dramma nei suoi toni violenti e nelle sfumature paradossali, cercando di tratteggiare con esattezza lo sfondo ambientale, senza cui, anche per chi è stata vita vissuta, questa esperienza tocca i limiti dell’assurdo. Infatti qui tutto vi è rovesciato, e non di rado si ha l’impressione che l’anima si sia disciolta nell’enorme pantano o sia stata inghiottita dalla nebbiosa tristezza del cielo.
Due forze lottano, ma in apparenza: paura, degli schiavi, e odio, dei padroni, servi a loro volta di indistinti imperativi, per cui tutto è unicamente paura. Paura, più forte del tempo che ha per limiti due «pasti» intercalati dal lavoro sfibrante, e più forte di ogni sentimento di dignità umana o di dolorosa fraternità. Spento l’uomo, l’umanità è solo il «bisogno», originaria potenza che al Lager mostruosamente sj rinnova ad ogni fugace appagamento e domina questa sinistra moltitudine senza Dio e senza etica, determinandola in «sommersi» e «salvati».
Bisogno equivale a sofferenza, per cui il dolore, contrapposto al dolore, diviene vita, salvazione. La legge è una: «Cercare di non capire».
In V. Hugo accanto alla parola fango troviamo la parola anima: il fango, ma l’anima. Qui no; gli uomini sono diventati «bestie stanche», che possono a volte sperare o, anche, sognare: ma è dolore che si somma a dolore. Il nulla, forse, se potesse essere.
I congiunti inghiottiti dalla notte; l’Heimweh scomparso nel dolore più fisico di ogni attimo, affiorante nel sogno pesante, distrutto nella veglia dalla certezza logica della fine che bandisce il domani perché ogni cosa acquista nell’attimo il silenzioso pallore della lontananza; la liberazione un pensiero fisso degli ultimi arrivati, che si spegne ogni giorno un poco. Piove. «Quando piove si vorrebbe poter piangere. E’ novembre, piove già da dieci giorni, e la terra è come il fondo di una palude. Ogni cosa di legno ha odore di funghi». (pag. 145).
Il tempo, col suo futuro, è fatto per gli uomini liberi; qui è il mattino, il pomeriggio, tutto al più il Morgen fruh. Avventurarsi nel tempo è un secondo grado di pazzia; così col tempo cessa la storia.
Come il pensiero, anche il sogno è pazzia, dolore. Ma basta un nonnulla che ripari appena al supplizio del corpo perchè esso esploda in direzioni obbligate e susciti lo struggimento del rimpianto.
La presentazione del sogno è forse la cosa migliore di questo libro, aderente in maniera perfetta.
V’è pianamente descritta la selvaggia gioia dell’evasione a cui di colpo s’inserisce il veleno dell’unica certezza, quella di essere «dall’altra parte», fuori del mondo dei «vivi», che non potrà comprendere.
Solo a questo punto il lettore si rende conto del perchè di queste pagine che stanno fra un carme che ci ricorda Ezechiele e lo sconcertante «Jawohl» di Sòmogyi morente, quando la libertà non è più pazzia. Qui può allontanare il timore – in parte giustificabile – che queste pagine costituiscano esclusivamente un documento in più di protesta dell’ebraismo combattuto e disperso.
«Se questo è un uomo» è un libro di solitudine, analizzante con quella lente deformatrice che fu l’occhio umano di allora. Di solito pubblicazioni di questo genere vengono tenute lontane, anche perchè furono chiaramente additate come pericolose per una valida ricostruzione d’un mondo più integralmente umano. Questa giusta esigenza segna di per sè i limiti anche di quest’opera; a ciò del resto fa cenno l’autore nella breve introduzione.
A me pare tuttavia che un uomo libero non possa disdegnare questa pacata meditazione.