STEFANO SICARDI.
Quella che oggi chiamiamo Unione Europea è sorta dalla necessità, da alcuni europei fortissimamente sentita, di dare una speranza ed un futuro ad un continente, in uno dei suoi momenti più bui e distruttivi. Nel pieno della seconda catastrofe bellica del Novecento si contrappose la ricerca urgente e drammatica (però non disperata ma ricca di tenacia e speranza) di una via per una stabile pace futura, che venne collegata, contro i totalitarismi, alla democrazia di una federazione europea.
Nacque così, dagli oppositori del fascismo là confinati, il “Manifesto di Ventotene” (“Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”), ispirato e redatto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Ernesto Colorni (militanti del Partito d’Azione): un grande progetto di ricomposizione di un’Europa lacerata, che doveva essere rimessa stabilmente insieme, facendo combaciare i frammenti di un puzzle ormai impazzito. In particolare, al centro di questa riflessione stava il legame tra prospettiva federalista e prospettiva democratica, valorizzandosi il più possibile la dimensione di un popolo europeo e dei suoi rappresentanti democraticamente eletti e democraticamente decidenti, rispetto ad una visione centrata sulle volontà degli Stati membri.
Negli stessi anni ’40, fra l’ottobre 1942 e l’8 settembre 1943, anche altri esponenti della stessa area politico-culturale progettavano nella medesima direzione, ispirandosi ai classici greci della politica, al pensiero illuminista, a Kant e Mazzini: proprio nella nostra provincia, a Cuneo, prima di darsi alla Guerra di Liberazione, Duccio Galimberti (che ne fu uno dei martiri) e Antonio Rèpaci concepirono un progetto di Costituzione Confederale Europea.
Le progettazioni erano ambiziose, l’attuazione pratica fu necessariamente più prudente.
I progetti ricordati verranno calati nella pratica delle realizzazioni politiche da alcuni grandi statisti e politici del secondo dopoguerra: Adenauer, Schumann, De Gasperi, Jean Monnet ed altri ancora.
Nell’impossibilità, di fronte alle piaghe della guerra appena finita, di concepire subito un’unione politica, si darà quindi vita ad un progressivo percorso di convergenza europea fondato sulla condivisione di risorse e di beni economici. Anzitutto il carbone e l’acciaio (allora i fattori essenziali dell’industria bellica ma pure di quella pacifica) da mettere in comune tra gli europei e anzitutto tra i “nemici storici” (Germania e Francia).
La ricomposizione europea – difficilissima – la si fece iniziare dall’economia.
La Comunità Europea nascerà quindi (in una prospettiva funzionalista) come mercato comune e come comunità economica (i Trattati di Roma, 1957) attraverso l’accordo dei sei partners fondatori (Italia, Germania allora occidentale, Francia, Benelux) per poi allargare progressivamente tanto la platea dei suoi partecipanti (ad ovest, nord, sud e infine est del continente europeo) quanto i suoi obiettivi ed orizzonti, assumendo competenze di carattere sempre più generale, fino a giungere all’attuale sistemazione dell’Unione Europea, costituita dal Trattato di Lisbona del 2007, entrato in vigore nel 2009.
L’Unione Europea attraversa oggi un tempo difficilissimo, probabilmente come mai in precedenza. La globalizzazione dei mercati e, prima ancora, la pressione dei flussi migratori, correlati a scelte di politica economica proiettate sul contenimento delle spese degli Stati e troppo poco su obiettivi di crescita, solidarietà e sviluppo, stanno mettendo a durissima prova la straordinaria costruzione europea dell’ultimo sessantennio.
Gli incontri politici europei (in particolare l’ appuntamento del 25 marzo, a Roma, per commemorare appunto la nascita dell’Europa comunitaria) devono tracciare strade concrete e significative di rilancio e riforma.
Sull’Unione Europea oggi, in maniera irresponsabile, si polemizza solo sulle disfunzioni e difetti, persino illudendosi su possibili effetti positivi di un suo superamento.
Si dimentica o si vuol far dimenticare che il futuro degli staterelli europei (dico “staterelli”, perché anche i più grandi del nostro continente da soli vedrebbero sempre più declinare il proprio peso) sarebbe quello della crescente emarginazione politica ed economica, a meno di non essere uniti in una dimensione sovranazionale come l’UE e la sua moneta (non a caso avversate da forze agguerrite sia in America che in Russia).
Si dimenticano, accanto ai problemi da risolvere, i grandissimi vantaggi economico-sociali che l’Unione Europea ha dato nei decenni ai suoi partner. Se questi vantaggi, che oggi paiono allegramente ovvi, sparissero ci sarebbe da versare lacrime amarissime ma purtroppo tardive.
Si dimentica il grandissimo valore politico-culturale degli ideali propugnati dall’Unione Europea, oggi indubbiamente sottoposti a dura prova dal difficilissimo scacchiere internazionale, ma da continuare a difendere in Europa e nel mondo: la democrazia liberale, l’universalità dei diritti, il legame tra libertà e socialità, il pluralismo nelle sue diverse manifestazioni, la parità tra i generi, il ripudio della pena di morte e altro ancora.
Si dimentica infine quanto il progetto europeo sia stato essenziale per la costruzione della pace nel nostro continente e per l’affermazione di una prospettiva di pace tra i popoli. Il progetto europeo nacque per disinnescare le faglie telluriche europee: quella del Reno, quella della Manica e infine quella, potremmo dire, del Danubio.
Oggi questa non solo nobile ma concretissima prospettiva di convivenza è soggetta a preoccupanti scricchiolii. La Manica si allarga; la linea del Danubio è in forte sofferenza.
Ma questo non deve portare a rassegnarsi, ma a reagire: l’Unione europea ha bisogno urgente di un rilancio di politiche (sociali e di sviluppo), di maggiore efficienza decisionale, di riduzione di sprechi ma pure di riproposizione della sua prospettiva ideale.
Ha bisogno di continuare a rappresentare quella via su cui, per più di mezzo secolo, si sono ritrovati, in una pace mai vista prima, milioni di europei, di tutte le età, e soprattutto giovani, non più gettati nelle trincee ma circolanti in uno spazio amico di studio, lavoro e comunicazione.
Non si deve mai dimenticare quanto affermava anni fa il cancelliere Kohl: Il fratello di mia madre si chiamava Walter e morì nella prima guerra mondiale. Mia madre chiamò Walter il suo primo figlio, mio fratello, che cadde sul fronte russo durante la seconda guerra mondiale. Mio figlio si chiama Walter, ed è vivo. Questo significa per noi tedeschi l’Europa. Anzitutto la pace».
Stefano Sicardi, già ordinario di Diritto Costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, è stato per molti anni Presidente del Corso di Scienze del Diritto Italiano ed Europeo nella sede di Cuneo. Si è in particolare occupato del rapporto tra maggioranza ed opposizioni, di organizzazione e funzioni del Parlamento, di indipendenza della Magistratura, di laicità e di libertà religiosa. Tra le sue pubblicazioni più recenti ha curato, insieme a M. Cavino e L. Imarisio, il volume “Vent’anni di Costituzione (1993-2013). Dibattiti e riforme nell’Italia tra due secoli” (ove ha scritto i capitoli sulla Costituzione e sulla laicità), Bologna, il Mulino, 2015; è stato coautore, insieme a G. Di Cosimo e A. Pugiotto, del libro “La libertà di coscienza” (cui ha contribuito con lo scritto “Tragitti ed arabeschi delle laicità”), Napoli, Editoriale Scientifica, 2015; da ultimo è stato coautore del volume “La riforma respinta (2014-2016). Riflessioni sul d.d.l. costituzionale Renzi-Boschi” (con i capitoli su “Il bicameralismo. Percorsi e vicende” e “Il nuovo bicameralismo previsto dalla riforma del 2016”), Bologna, il Mulino, 2017.