Santa Croce

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LORENZO BARBERIS.

Ho visitato di recente, per l’ennesima volta, la cappella di Santa Croce a Mondovì Piazza, accessibile nella giornata della cultura ebraica il 29 settembre ultimo scorso (tale giornata è di solito, ogni anno, il momento più adatto per trovare questo spazio aperto).
Santa Croce è una chiesa gotica dagli eterodossi affreschi ricchi di fascino, come altre a Mondovì.
Sorta probabilmente sul finire del Duecento (attestata dal 1297), la pianta è molto semplice, quadrata con volta a croce (struttura comunissima, ma che qui si carica di un rimando al tema specifico della croce qui presente), dagli archi gotici ogivali. Un piccolo ingresso, privo di affreschi, è un’aggiunta successiva, seicentesca.
Gli affreschi sono quattrocenteschi, e ricollegati da molti alla figura di Antonio Dragone da Monteregale, il principale frescante monregalese del periodo, in quanto si riconoscerebbe l’uso comune, per certe parti, dei cartoni da lui usati ai Molini di Triora, luogo di una sua identificazione certa. Inoltre, appaiono su una vela di una volta due immagini di un drago nero, che costituisce la sua firma in pittogramma. La chiesa sarebbe, nel caso, il suo ultimo capolavoro, l’opera più tarda, la sua eredità. E infatti qui il Maestro si è superato, nel lasciarci il suo testamento spirituale con un tema inconsueto, e magistralmente condotto.
La chiesa presenta, infatti, la Croce Brachiale o Vivente, in connessione strettissima col tema antisemita prevalente, probabilmente connesso a una prospera comunità ebraica presente presso la Mondovì dell’epoca, nella seconda metà del Quattrocento. Una presenza da cui l’antisemitismo della cappella, legata agli ordini predicatori, domenicani (giunti in città nel 1247) forse oppure francescani.
Difficile, senza documenti, scoprire l’ordine religioso preciso, dato il dualismo di riferimenti presente nella cappella. Infatti, a dissimulare la forte rivalità, era di prammatica per i domenicani esaltare i francescani, e viceversa (così avviene, tra l’altro, nel Paradiso Dantesco, dove il francescano Bonaventura – presente tra l’altro qui, a Santa Croce – esalta San Domenico, e San Tommaso esalta Francesco).
Ma per capire a fondo il senso del ciclo e del suo elemento principale riportato sopra, dobbiamo effettuare un – non breve – excursus storico.

La figurazione personificata della Chiesa e della Sinagoga è antica quanto l’arte sacra stessa. Il tema appare per la prima volta nella basilica di Santa Sabina a Roma, una delle prime basiliche ufficiali, edificata a partire dal 432 d.C., quando da poco era stato definitivamente vinto lo scontro con i pagani (uno degli ultimi campioni era stato quel generale Stilicone che, nel 402, aveva salvato l’impero alla battaglia di Pollenzo, per poi cadere in disgrazia ed esser eliminato proprio per la sua eccessiva potenza).

Santa Sabina è tra l’altro la prima chiesa dove, timidamente, appare la più importante figurazione dell’ars cristiana.

La figura dell’Orante avvia infatti qui la sua trasformazione nell’immagine del Crocifisso, ancora pudicamente solo accennato, ma ormai riconoscibile nel suo schema fondamentale.

I due simboli, quello fondante del Crocifisso e quello accessorio delle due Ecclesiae (comunità), quella delle Genti e quella dei Circoncisi, nascono quindi pressoché in parallelo. Era destino, dunque, che dovessero incontrarsi, quasi già richiamati da quel dualismo del tema crocifissorio portato dallo schema Ladrone Buono / Ladrone Cattivo, che accompagnerà anche l’evoluzione dello schema su una opposizione chiesa-bene / sinagoga-male, inizialmente assente: i due elementi rappresentavano infatti le due componenti del cristianesimo delle origini, gli ebrei convertiti e i convertiti gentili.

La fusione avviene, in modo sistematico, dopo il declino dell’arte nei secoli bui, in alcuni avori carolingi (800 d.C.). Inizialmente la Sinagoga non è associata così chiaramente a un elemento negativo. Ma l’idea dell’Ecclesia circoncisa è ormai solo più un ricordo, il cristianesimo è solo più quello delle Genti. Non malvagia, la Sinagoga si deve però in qualche modo inchinare maggiormente a Cristo, cedergli il passo e proclamare implicitamente conclusa la sua era. La chiesa è associata al calice del Sangue di Cristo, mentre la Sinagoga alle tavole della legge mosaica, secondo uno schema che diverrà usuale.

Per quanto da più parti si sottolinei questa matrice ancora positiva della Sinagoga fino al 1215 (anno di cui diremo), in più punti inizia a rafforzarsi questa diversità di ruoli. Emblematico è qui un capolavoro come quello dell’Antelami, dove la Chiesa bacia la mano di Cristo deposto (venendone così implicitamente investita) mentre un angelo depone la corona della Sinagoga, piegandole la testa in posizione quasi penitente. Lo stendardo della Sinagoga (in bassorilievo), tra l’altro, è spezzato. E siamo nel 1178, nettamente prima della data chiave che vedremo.

Notiamo anche la presenza di Sole e Luna, che si aggiungono ai due ladroni e alle due Ecclesie nel dualismo bene e male che la Crocifissione viene a segnare.

La sovrapposizione di questi due simboli, Chiesa/Sinagoga e Sole/Luna, in una chiesa trecentesca del Kosovo ha generato uno dei più celebri casi di ipotetica “ufologia antica” ricercata nei soggetti religiosi dagli appassionati del genere.

Spesso Sole e Luna sono ritenute “astronavi” anche in altri casi (anche quando, invece dei due astri stilizzati in volti antropomorfi, troviamo ad esempio il tema dei due Carri, della Luna e del Sole) ma questo dipinto è particolarmente intrigante in quanto due figure sembrano trovarsi dentro a due astronavi, invece che al comando di un cocchio tradizionale. Un’ipotesi per la singolare fusione rimanda appunto al collegamento diretto del tema con Chiesa / Sinagoga: i gesti del Sole personificato, che pare pilotare, verrebbero associati al reggere, con la mano posta in alto, la coppa semicancellata, mentre la Luna/Sinagoga tiene, in posizione bassa, le declinanti leggi mosaiche al fronte del Nuovo Comandamento.

L’Hortus Deliciarum (1185), di pochi anni più tardo dell’Antelami (neanche un decennio), contiene invece una figurazione ben più complessa, già affine a quella che sarà di Mondovì, quasi tre secoli dopo. Chiesa e Sinagoga sono a cavallo: la prima di un grifo coi quattro evangelisti, la seconda di un asino scavezzato (la cavezza giace sotto la sua testa), simbolo di ostinazione ribelle. La Sinagoga non è ancora bendata, ma il suo velo le copre gli occhi; ha ancora le tavole della legge in mano, ma la sua Lancia, benché non spezzata, è deposta. Inoltre, la Sinagoga è scalza, segno di umiliazione, mentre la Chiesa no. Sotto la croce notiamo la tomba di Adamo, solitamente raffigurato come un semplice teschio, e altre figure che escono dai sepolcri; i tendaggi in alto sono il velo celeste che ci separa dal Paradiso, che con la morte di Cristo viene per la prima volta squarciato temporaneamente.

Un tema che probabilmente torna a Mondovì (il ciclo è mutilo, come vedremo) e che, curiosamente, è all’opposto filosemita, non antisemita: con la morte di Cristo, gli antichi ebrei vengono liberati dal Limbo e condotti in Paradiso. Ma questa visione positiva degli ebrei dell’Antico Testamento è simmetrica a quella negativa degli ebrei successivi al Nuovo: la Sinagoga è accettata nella misura in cui finisce ad Anno Zero, ed apre poi alla Chiesa. Certo, ciò si associa con un passaggio di consegne, non con l’incombente demonizzazione, che vedremo.

Difficile dire se il tema, nel dotare le due figure di cavalcature, le abbia recuperate dalla fusione episodica col sopraccitato tema del Carro della Luna e del Sole. Specialmente nell’arte alchemica, infatti, Sole e Luna personificati non guidavano i reciproci carri di Apollo e di Diana, ma cavalcavano direttamente animali simbolici: un Leone il Sole – Zolfo, e un grifone la Luna – Mercurio.

Altre miniature del XII secolo ci mostrano comunque il tema in modo più esplicitamente aggressivo: ma, curiosamente, spesso si associano solo pudicamente al Tau, non alla croce vera e propria (e meno ancora alla Crocifissione). Qui è la chiesa a strappare la corona e le tavole della legge a una sorpresa Sinagoga bendata.

Qui invece la Chiesa inizia ad associarsi al possesso, oltre che di un calice, di una figurazione simbolica della Chiesa di mattoni, volto visibile della Chiesa / Ecclesia di persone, così potente da sostituirsi, nell’immaginario diffuso e nel linguaggio, al significato simbolico preesistente. Forte l’antisemitismo implicito, notiamo, nella Lancia spezzata della Sinagoga, che si spezza contro l’Agnus Dei al centro del Tau, sovrapponendosi alla Lancia Longini. La “lancia spezzata nel petto di Cristo”, spesso evocata dai reazionari clericali per identificare il progressismo interno, visto come supremo tradimento.

A Saint Denis (ancora, sempre, XII secolo), a Parigi, vediamo che è Cristo stesso, non crocifisso però, a imporre le sue mani alle sue due “figlie” spirituali. La sinagoga non appare però qui particolarmente umiliata, benché con espressione triste (e la chiesa invece felice). Forse il Cristo opera la transizione delle corone, ma in un contesto qui ancora di rispetto di entrambe le figure.

Una svolta è posta dal 1215, data del quarto Concilio Laterano. Il Concilio condanna le eresie gnostiche tornate alla ribalta, e per combatterle ufficializza il sorgere dell’Inquisizione. Ma soprattutto, definisce il ruolo degli ebrei vietando loro l’accesso a cariche pubbliche, concedendo in compenso in modo esclusivo l’usura, e riservando ai buoni cristiani di rivalersi contro di loro in caso di eccessi nella loro avidità. La concessione diviene così una terribile arma a doppio taglio: il potere economico è concesso dalla chiesa agli ebrei come dono avvelenato, che accumula ricchezza e quindi potere in un soggetto che, altrimenti, non ne ha alcuno di tipo politico-religioso, e che può essere facilmente eliminato nel caso di eccessivo potere. Inoltre, la chiesa impone un marchio giallo, che poi diverrà tristemente famoso, che gli ebrei dovranno cucire sulle proprie vesti, comunque differenti da quelle dei cristiani stessi.

Tre disposizioni (ebrei marchiati, lontani da ogni potere politico, ma con il pericoloso e odioso potere dell’usura) che sono usualmente associati alla recrudescenza vera e propria dell’antisemitismo cristiano.
Figurazioni con la Chiesa che schiaccia la Sinagoga si vedono solo dopo questo momento, come nella miniatura presentata sopra.

 
 
Nel salterio di Scherenberg (1260, vedi sopra) notiamo che il tema del crocifisso con Chiesa e Sinagoga si inizia a legare a quello della Croce come Legno Vivente (vite da cui si protendono i tralci della chiesa cristiana). La croce, fatta del legno vivo dell’Albero della Vita secondo varie leggende cristiane, schiaccia il drago infernale e, tramite il sacrificio di Cristo-Pellicano, apre le porte del regno celeste.
 
 
 
Una prima, importante ripresa rinascimentale di tale tema è dato dal ciclo di San Petronio a Bologna, ad opera di Giovanni da Modena, e risale al 1420. La sua somiglianza al ciclo di Mondovì è notevole, e per apprezzarla pare giunto il momento di confrontarli.
Le braccia che incoronano e pugnalano sono riprodotte in modo pressoché perfetto, salvo per una mano più imprecisa nel caso della croce di Mondovì. La mano che incorona tra l’altro qui non ha più manica, presente in quella che pugnala.
La mano che apre la Porta del Cielo è invece perfettamente verticale, come probabilmente anche la mano che probabilmente rompeva, con un martello, quella degli inferi. Qui pare onestamente invece più elegante, poiché più simmetrica, la scelta di Mondovì. Il castello celeste è identico in ambo i dipinti, fino alla porta decorata di una trama di rombi sottili, ai tre merli, alla forma della chiave.
In ambo i casi, le figure parlano con cartigli. Nell’immagine di Bologna, le figure li stringono in mano, come a Mondovì avveniva nel bellissimo ciclo di San Bernardo delle Forche. In Santa Croce, di poco successivo (tra 1450 e 1486, sono i limiti temporali certi) i cartigli invece sono liberi, e dipartono dalla bocca delle figure ascendendo al cielo, perfettamente simmetrici anch’essi. Parla anche l’angelo; parla anche, dagli inferi, qualche figura, con un cartiglio semicancellato.
L’innovazione più forte è la Spada, ovviamente, che decapita la Sinagoga. Nell’immagine di Bologna, essa è ormai scoronata, la testa coperta da un turbante alla turchesca. Il capro ha le gambe spezzate, come il vessillo nella figurazione tradizionale, e l’allegoria è bendata, poiché cieca.
A Mondovì cambiano molti elementi, in chiave decisamente meno tradizionale. Il capro sussiste, figura più demoniaca dell’asino, prima e più blanda figurazione. Probabile la derivazione, in ambo i casi, del tema della scissione tra buoni e cattivi nel giudizio universale: gli agnelli siederanno alla sua destra, e i capri alla sua sinistra. E poi il capro è l’animale sacrificale ebraico, associato già prima di Umberto Saba all’etnia semita, e con toni ben meno affettuosi del poeta moderno.
Il capro di Mondovì è decapitato, con figurazione ben più inquietante. Le ginocchia sono spezzate, ma non si piega, si regge ancora in piedi. Altri segni trionfali sono presenti sulla Sinagoga, benché connotata in modo chiaramente malvagio: la Corona è ancora sul suo capo e la Lancia non è spezzata (come sempre, invece, nelle figurazioni più recenti); il suo sguardo non è chiuso e il suo cartiglio, a differenza di Bologna, si erge al cielo (già a San Bernardo avevamo notato come la direzione del cartiglio è fondamentale nella simbolica, anche nella Mondovì coeva). Inoltre, il vessillo che si erge fiero porta su di sé, come un cartiglio, scritte in un alfabeto cifrato, ma forse affatto tracciato a caso. Cartiglio simmetrico e opposto all’altro “cartiglio reale” e non simbolico presente nel testo iconico: il cartiglio I.N.R.I sopra Cristo stesso. Quasi un dualismo tra la semplicità lineare del cartiglio-base della fede cristiana, e i complessi e fumosi arzigogoli della dottrina diabolica (“sia il vostro parlare sì, sì, no, no”).
Tornando alla Sinagoga, la ricca veste scarlatta (e a Bologna?), da prostituta, come i ricchi capelli ricci e rossicci, e il cavalcare il capro la avvicina ad uno dei primi nuclei del pensiero antisemita: la Sinagoga di Satana nell’Apocalisse. Essa non è, qui, la Sinagoga tout court, ma al limite una sinagoga particolarmente ostile ai cristiani, e forse nemmeno ortodossa, ma riferimento a qualche setta di contaminazioni ebraico-cristiane ma con elementi paganeggianti di sintesi del dualismo dio-satana, come sarà frequente poi nello gnosticismo.
Per tale ragione, la Sinagoga di Satana è divenuta in età moderna allegoria ottocentesca della Massoneria, così definita in numerosi passi affatto scevri di spirito antisemita. Quando non, nei più esaltati, simbolo di una continuità dagli gnostici ai templari, dai templari ai rosacroce, dai rosacroce ai massoni, in una sequela però non positiva, come rivendicata dalla tradizione ermetica, ma negativa in massimo grado.
La Sinagoga di Satana non è un’allegoria, nell’Apocalisse, solo una criptica citazione nel messaggio cifrato alle sette chiese. Invece è una potente allegoria la Donna Scarlatta, la Prostituta di Babilonia. Qui la Sinagoga satanica e la donna dell’Apocalisse appaiono precocemente avvicinate visualmente.
Va detto che a Mondovì, nel 1472, la Lussuria sarà rappresentata come prostituta che cavalca un capro nella figurazione della chiesa di San Fiorenzo, presso la Bastia di Mondovì, nella Cavalcata dei Vizi, con un gesto lascivo che evidentemente predata di molto la pornografia moderna (curioso, qui, il dualismo tra l’apparente candore della ricca veste esterna, simbolo fallace di purezza, e il rosso tentatore della calza mostrata dall’impudica fanciulla).
Tra l’altro, a San Fiorenzo, ad essere ghermito da Lucifero, con particolare predilezione, non è Giuda come da lunga tradizione (Dante vi aggiungerà Bruto e Cassio, i Cesaricidi, con colpa uguale al deicidio), ma Advocatores e Procuratores, ovvero figure del mondo dei primordi della speculazione finanziaria, particolarmente amate già allora. Il fatto che prendano il posto di Giuda non è probabilmente totalmente disconnesso dall’ideale antisemita che collegherà gli ebrei al prestito a usura (nel medioevo, ciò si fondava su un dato reale, ma certo non cercato dalla comunità ebraica, che vietava il prestito a interesse ai cristiani, almeno nelle forme più esplicite).
A Mondovì il tema della Sinagoga si amplifica: alla Sinagoga si affianca Eva, la prima donna, che stringe il pomo offerto dal Serpente, nel peccato originale. In mano porta il teschio di Adamo, simbolo della mortalità superata nel Nuovo Adamo, Cristo (e solitamente posto alla base della croce, come visto). Il teschio Eva, non a caso, lo porta in grembo, madre di mortalità. La veste verde, serpentina, ben si associa alla sua natura.
Dall’altro lato, la Chiesa incoronata si regge non su una cavalcatura, ma sui quattro evangelisti, come già in figurazioni precedenti. L’angelo e l’aquila parlano con piccoli cartigli, il Leone e il Bue sono muti. Armata di Chiesa e Stendardo, all’Ecclesia manca però il suo segno più prestigioso: il Graal, presente invece a Bologna, dove cavalca un grifone con volto umano e zoccoli di toro. I simboli apocalittici sono scissi nei quattro componenti, invece che unificati. Una modifica che però, volenti e nolenti, rende più maestosa, nel male, la Sinagoga, effigiata a cavallo.
Dietro la chiesa, Maria, che tocca il costato della Croce di Cristo che spezza il caduceo con attorno avvolto il serpente, simile anch’esso, in fondo, a un muto e avvoltolato cartiglio. Il potere salvifico del sangue di Cristo e dell’intercessione di Maria è un tema ampiamente sviluppato, a Mondovì, a San Bernardo delle Forche, e che qui ha un ulteriore rimando (anche qui, nel tema della Bona e Cativa preghiera collegato al ciclo, notiamo un riferimento al pauperismo cristiano, nel laico che prega male rivolgendo le sue preghiere ai beni terreni; tale tema non si connota però qui in senso antisemita).
La parte inferiore dell’affresco appare cancellata dall’altare barocco controriformista. Si ipotizza, per contiguità tematica, la liberazione delle anime dal limbo. Sarebbe interessante comprendere quanto di casualità vi è stata in questa totale sovrapposizione. Se ad esempio, come logico, tra le figure vi fossero figure ebraiche, avremmo un rafforzarsi dell’antisemitismo (si cela che almeno gli antichi ebrei sono degni e salvati, con un attenuarsi del monolitismo antisemita). Oppure potrebbe esservi qualche altro elemento di eterodossia che per ora non possiamo cogliere; o una semplice casualità. Un aiuto potrebbe darlo il cartiglio che ancora emerge, per quanto scolorato.
Sulla volta, troviamo altri temi che completano il ciclo in una nota chiaramente antisemita. Dai tratti semitici sono i tre flagellatori, anche se dovrebbero essere soldati romani, agli ordini di Pilato (che ordina la flagellazione per placare il popolo e salvare la vita a Cristo).
Anche la Salita al Calvario si compie, più che sotto gli ordini romani, in un tripudio di ebrei dai cappelli a punta e il volto grifagno. Vestito di una ricca veste, non manca però anche il Cireneo, colto nell’atto di sorreggere la croce di Cristo. L’ebreo della ricca colonia greca di Cirene, tuttavia, pare quasi ridurre lo sforzo al minimo. Le trombe diaboliche degli ebrei portano lo stendardo del Grifone, quando più tipico sarebbe quello dello Scorpione, come a San Fiorenzo, simbolo del traditore. Il grifone è invece spesso simbolo di Cristo, fusione dei quattro evangelisti zoomorfi. Ma come visto nel corso di questa trattazione, è anche associato alla Luna alchemica, mercuriale e volatile.
Sarebbe curioso vedere se l’assenza di un Drago nelle insegne, invece, non derivi dal nome dell’autore, Antonio Dragone, il quale firmava con la silouhette di un drago e potrebbe aver voluto non associare questo simbolo all’elemento malvagio della scena. Comunque sia, si nota il debito dell’autore con l’analoga scena dello Jacquerio, a Ranverso, che vediamo qui sopra.
Dopo il trionfo simbolico della Crux Brachialis o Vivente, Cristo è deposto da tre ebrei vistosamente connotati come tali, dalla foggia degl’abiti, dai volti, e dal borsello bene in vista. Borsello, certo per caso, quasi simile al simbolo Illuminato e massonico della Piramide con l’Occhio; ma allora certo ignoto e dunque tale solo per puro caso, per evidenziare, ancora, l’aspetto economico. Bello il paesaggio alpestre in scorcio della scena.
Nelle Lunette, due elementi associabili al momento successivo, la Resurrezione.
Il Risorto è privo dei dubbi che, nella stessa epoca, si manifestano nel suo omologo di San Bernolfo. Due soldati dormienti paiono romani, mentre due portano le barbe lunghe e i tratti del volto associati agli ebrei.
Completa la scena il medaglione delle Armi di Cristo, effigiante tutti gli strumenti della passione. Scena contemporanea alla dirimpettaia, dato che appare il Cristo nell’atto di uscire dalla stessa, rossa tomba. Anzi, un poco precedente, dato che la figura ha ancora tutti e due i piedi nella tomba. Due angeli gli porgono, o ostendono, una bianca sottoveste e una veste ricamata (quella che i soldati hanno giocato a dadi).
Un agnello e un leone in posa eretta reggono una lancia (di Longino?) e uno stendardo, avvolti in un mantello che garrisce al vento come quello dei supereroi (quello dell’Agnello è la Sindone, o meglio il Mandylion). Gli angeli reggono due vesti del Cristo risorto, confinato in sfondo. Lo stemma è sormontato da un elmo, come gli stemmi nobiliari, sormontato a sua volta dalla corona di spine e dal sudario.
Pezzo forte è l’Arma Christi, l’insegna araldica di Cristo, che vediamo coronata dai trenta denari di Giuda. Al loro centro, ricorrono i simboli geometrici che accennavamo in mano alla Sinagoga. Molti ricorrono, e non è certo casuale: la loro natura è identica e, nell’associare Giuda ai Giudei, li collega al tradimento e all’avidità. Tra i simboli presenti, notiamo l’ampolla di aceto, la bacinella di Pilato, martello e tenaglie per i chiodi, la Lancia Longini, la frusta, i tre chiodi, la scala per la deposizione, le tre mani che schiaffeggiano, picchiano e insultano (quella vicina alla colonna compie un gesto singolare, che sembra vicino a moderni gesti di scherno, con qualche variazione), il volto che insulta o addirittura sputa. Centrale la Colonna della fustigazione, sormontata dal Gallo che canta tre volte (e che diverrà il simbolo della ceramica di Mondovì, probabilmente non da qui).
I simboli ritornano sullo stendardo della Sinagoga. Presuppongo un significato alchemico, anche abbastanza preciso. Ma dire quale è impossibile. Bisognerebbe trascrivere, seriare, classificare e analizzare. Un fatto che non escludo, ma rimando al futuro, per ora.
Conclude il ciclo l’immagine, ugualmente trionfale, del Cristo che regna in trono dalla Mandorla, circondato e sorretto degli angeli. Non a caso, proprio sopra il castello della Gerusalemme Celeste. Da notare come anche il Pantocrator non sia più quello bizantino, ieratico e imperturbabile: qui il rosso manto aperto mostra il petto, con l’evidente trafittura del costato già mostrata a Tommaso.
Qui, tra l’altro, regna il Padre, anch’egli circonfuso di Angeli e accompagnato dalle soavi melodie degli angeli musici. Anche Dio Padre parla, ma unico tra i personaggi, non ha bisogno del Cartiglio. Potenza di Dio, o necessità strutturale delle piccole dimensioni della figurazione (notiamo anche che ogni elemento è chiarificato da una sottile didascalia).
Nelle nicchie laterali troviamo elementi utili alla datazione. La Madonna in trono è attorniata da Pietro da Verona, domenicano, e da un altro santo, il francescano Bernardino da Siena, già con aureola, canonizzato nel 1450 a pochi anni dalla morte (e quindi termine post quem). Forte predicatore antiebraico, tra l’altro, e predicatore dell’ordine francescano. 
Il tema antiebraico appare anche nella presenza di una nicchia con una coeva Sant’Elena, ritrovatrice della Vera Croce e madre di Costantino: il tema delle sue storie presenta spesso forti elementi antiebraici, dato che l’imperatrice-madre aveva fatto torturare degli ebrei per rinvenire la croce, secondo la leggenda. Tale tema antigiudaico appare anche nel più celebre ciclo di tale genere, quello realizzato da Piero della Francesca, nello stesso periodo (1455-1462) ad Arezzo.
Completano il quadro iconografico i dodici medaglioni raffiguranti gli Apostoli: tutti sono aureolati, ma non essendo l’ultima Cena, è plausibile che Giuda Iscariota sia stato sostituito, come avviene nel testo biblico, da Mattia Apostolo. Per averne certezza ci vorrebbe un analisi dei cartigli semicancellati o dei temi iconografici, non sempre risolutivi in caso di figura generica. A Castelmagno si trova un singolare Giuda con aureola, ma qui, dato il tema antisemita prevalente, mi sento di dar buona la lettura più tradizionale, salvo altre verifiche.
Nella parte interna dell’arco sono rappresentati quattro santi: Domenico e Stefano da un lato, Francesco e Lorenzo dall’altro. Il colto teologo è associato al primo martire, il poverello d’Assisi ad uno dei primi intellettuali della chiesa, martire anch’egli. Continuità che si forma, così, tra gli ordini mendicati, fatti di eroici martiri e colti predicatori, e il passato.
Attorno alla croce brachiale d’altare troviamo a sinistra san Gregorio Magno papa, che spezza così la perfetta simmetria tra domenicani e francescani in favore di questi ultimi. San Gregorio, del resto, era stato il papa che aveva ottenuto, verso il 590-600 d.C., la visione dell’Arma Christi vista sopra.
Appare infatti a destra, ancora senza aureola, Bonaventura da Bagnoregio, il teologo dell’ordine francescano, che sarà canonizzato solo nel 1482, e che qui è associato al cappello cardinalizio che può essere letto, all’uopo, come un comodo disco volante. La perfetta simmetria avrebbe dovuto associare a Bonaventura l’Aquinate domenicano, che però era già stato canonizzato nel 1323. Qui si crea invece una simmetria Papa e Cardinale, che mette maggiormente in risalto un francescano. Ma anche qui; per identificazione con l’ordine della chiesa, o per cortesia simbolica dei Domenicani? Impossibile a dirsi.
1450-1482, comunque, viene fissata come finestra temporale del ciclo di affreschi; e la maggioranza degli autori colloca il tutto nella decade 1470.
Il tema della crux brachialis, in modo minoritario, sopravvive per un po’ anche nell’arte successiva. Qui sopra, due esempi rispettivamente del 1500 e del 1575 circa; la Controriforma (1565), una volta pienamente applicata e dispiegata, ne segnerà il declino, come di molte figurazioni eterodosse che sopravvivono nel gotico monregalese eccezionalmente ricche. Notiamo le anime degli ebrei retti in attesa della liberazione via martello dal limbo, inginocchiati in adorante gratitudine e venerazione.
Un frammento sopravvissuto all’altare controriformista, addossato alla parete, ci mostra a Santa Croce quello che pare un lembo della tunica di un uomo inginocchiato. Una riprova anche visuale, se fosse necessaria, dell’idea di qualcuno rinchiuso in un limbo in attesa di liberazione.
Un ultimo elemento di inquietudine vena però questo ultimo dettaglio: la tunica bianca dell’ebreo buono, meritevole di essere salvato in Paradiso, appare venata da labili, però evidenti, rivoli di sangue. Perché?
Credo che mai troveremo risposta.