STEFANO CASARINO.
1.
Durissima la breve vita di Anton Cechov (1860-1904), piena di dolore, complessità e contraddizioni: un’infanzia brutalizzata da un padre-padrone; la miseria nell’adolescenza; la scrittura a ritmi forsennati di racconti (alla fine saranno più di seicento) per guadagnare qualcosa e mantenersi agli studi; la laurea in medicina e la pratica della professione medica; la condizione di malato cronico di tisi; il matrimonio in età piuttosto avanzata con l’attrice Olga Knipper, celebrato in segreto e soli tre anni prima della sua morte; la difficile convivenza con le donne di casa: moglie, madre, sorella…
Strano destino, il suo: una volta raggiunto il successo, dovette vedersela coi giudizi impietosi di Tolstoj; far l’abitudine al fatto che molti suoi drammi alla prima rappresentazione subissero lo sfavore, quando non la contestazione, del pubblico, salvo poi essere compresi ed apprezzati tempo dopo; aver a che fare con un regista del calibro di Stanislavskij che spesso andava ben al di là delle sue intenzioni, enfatizzando il realismo presente nei suoi drammi.
Credo ci sia molto di Cechov nelle due figure di scrittori che compaiono ne “Il gabbiano” – scritto nel 1895, rappresentato a Pietroburgo l’anno dopo e clamorosamente fischiato dal pubblico, salvo ottenere poi un grande successo due anni più tardi –-, l’adolescente Konstantin Gavrilovič Treplev, che mai conoscerà davvero il successo, e il maturo e affermato Boris Alekseevič Trigorin. Il primo tutto proteso alla ricerca del Nuovo, cultore di simboli e alla ricerca di significati profondi, forse troppo; il secondo sempre con penna e taccuino in mano, pronto a cogliere ogni spunto da ciò che gli accade attorno per infilarlo in una sua opera. Uno innamorato dell’Assoluto; l’altro cronista della Realtà.
Sono solo due dei tanti personaggi che animano il dramma: in modo simmetrico, due sono anche le figure di attrici, la debuttante Nina Michailovna Zarečnaja, facile all’infatuazione per il teatro e per il successo (anche e soprattutto per la gente di successo, verso la quale prova ammirazione ed invidia) e la veterana Irina Nikolaevna Arkadina, che ha già un grande avvenire dietro le spalle e che teme più di tutto il tempo che passa. Quest’ultima è anche la madre di Kostantin, ma per lei l’amore materno non è al primo posto nella scala dei suoi valori esistenziali. E tra i tanti temi che sostanziano il dramma, il rapporto madre/figlio è uno dei più importanti e dei più sconvolgenti.
Non ci sono in Cechov personaggi minori: tutti hanno una storia, soffrono in modo diverso, amano senza essere ricambiati, non hanno più illusioni, invecchiano e basta.
Anche il maestro Semen Semenovič Medvedenko, quello che più di tutti appare come una “macchietta” col suo tradurre tutto subito in denaro, col suo piangere miseria rammentando ai suoi interlocutori la sua infima paga, ha la sua dignità esistenziale: è un altro infelice, consapevole che sua moglie Maša, sempre vestita di nero, lo ha accettato come un ripiego, sperando di dimenticare col matrimonio e con la nascita del figlio – che comunque poi trascura: non ci sono proprio grandi figure di madri in questo testo! – il suo vero amore, quel Konstantin che invece ama, non riamato, Nina.
A protestare contro l’ingiustizia dell’esistenza è Petr Nikolaevič Sorin, padrone di casa e fratello di Arkadina, sessantenne e malato cronico (un’altra proiezione di Cechov stesso?): egli non accetta l’invito alla rassegnazione del saggio dottor Dorn, che nemmeno gli prescrive delle cure; afferma con forza, nonostante la sua infermità, di aver ancora voglia di vivere, di volere quello che la vita non gli ha concesso: figura patetica ed ironica al tempo stesso, che commuove il pubblico, colpito dal suo legame affettivo col nipote (lo zio e il dottor Dorn sono gli unici a capire davvero Konstantin) e dall’assoluta indifferenza con cui la sorella neppure si accorge di quanto egli stia male.
Inutile tentare di dar conto della complessità della trama e della ricchezza degli elementi che la strutturano: basti dire che i fatti più eclatanti Cechov non li rappresenta in scena; che l’azione si dipana nel tempo: tra il terzo e il quarto anno intercorrono due anni, un lasso di tempo in cui le vicende di Nina, Trigorin, Treplev vengono raccontate tra una chiacchiera e l’altra; che il gesto simbolico del dono dell’albatro, ucciso da Konstantin per Nina, segna irreparabilmente il destino di quest’ultima; che, soprattutto, il tentato suicidio di Konstantin – anche questo solo raccontato – si realizzerà alla fine del dramma, tra l’indifferenza di tutti gli altri che giocano a tombola e la soverchiante risata di Arkadina, sempre e solo tutta concentrata su se stessa.
2.
Una materia così complessa è stata magistralmente proposta dall’eccellente Compagnia del Teatro Stabile di Genova il 19 marzo 2017. Il regista, Marco Sciaccaluga – che lo scorso anno aveva offerto un bellissimo Schiller, “Intrigo e Amore” – ha, direi, un’evidente predilezione per Cechov: lo “legge” con grande accuratezza, fin nei minimi particolari : va segnalato il coraggio di adottare proprio la prima versione del dramma, quella impietosamente fischiata, del 1896 e di ricorrere alla fedele traduzione di Danilo Macrì.
Con spietata nettezza Cechov emerge come nostro contemporaneo proprio rispettandolo filologicamente: rubli, copechi, verste in originale, come pure i difficili nomi propri russi; candele e lumi a petrolio; e, soprattutto, il lago sullo sfondo, in una suggestiva ed imprescindibile scenografia (al lago stregato, onnipresente personaggio muto del dramma, alla fine del Primo Atto il dottor Dorn attribuisce la responsabilità di tutti quegli amori fallimentari e di tutto il nervosismo dei residenti).
Ma all’inizio della rappresentazione qualche attore arriva in scena dalla platea e poi esce anche da lì, confondendosi col pubblico. E, alla fine, le forti luci di scene si riversano sugli spettatori, li abbagliano: i personaggi di Cechov sono come noi, noi siamo come loro. Opportunamente Sciaccaluga riprende il giudizio scritto da Maksim Gorkij a Cechov stesso: “Vedete, a me pare che trattiate gli uomini col gelo del demonio” e lo integra così: “Il palcoscenico di Cechov è la forma più gentile, condivisa, ironica, di spietatezza. Il suo ̒Teatro della Crudeltà̉ è il più umano che io conosca”.
Rare volte capita, di questi tempi, di imbattersi in una così completa comprensione dell’autore da parte di un regista.
Tutti gli attori non avrebbero potuto corrispondere meglio alle intenzioni, tutti hanno meritato caldi e reiterati applausi alla fine del non breve spettacolo (più di tre ore, passate però in totale rapimento): restano impressi nel ricordo molti gesti, molti momenti fatti vivere in modo straordinario dalla bravura degli interpreti.
Come, ad esempio, le riflessioni di Trigorin su cosa significhi essere scrittore: molto più croce che delizia, nonostante quanto possa credere l’ingenua Nina, e la gente in genere.
Si è posseduti da un’irrefrenabile smania, si teme il giudizio del pubblico, si sa benissimo che, per quanto ci si impegni, certi modelli restano inarrivabili, non si sarà mai né un Tolstoj (un nome certo non casuale, tenuto conto di quanto Cechov ne temesse il giudizio) né un Turgenev: “Giorno e notte mi opprime lo stesso assillante pensiero: debbo scrivere, debbo scrivere, debbo… Ho appena terminato un racconto che, non so perché, debbo scriverne un altro, poi un terzo, poi un quarto… Scrivo, scrivo senza posa, senza fermarmi mai come se corressi per le poste; e non posso fare diversamente. In questo, vi domando io, che c’è di bello e di luminoso? Una vita infame!”
Come quanto dice il moribondo Sorin: un bilancio solo apparentemente ironico, in realtà straziante della propria esistenza: “Voglio dare a Kostja il soggetto per una novella. Dovrà intitolarsi così: ̒L’uomo che ha voluto ̉ […] Da giovane volevo diventare un letterato e non lo sono diventato; volevo diventare un elegante parlatore ed ho sempre parlato in modo da far rabbia.[…] Volevo prender moglie e non l’ho presa; volevo viver sempre in città ed ecco che finisco la mia vita in campagna; ecco tutto”. Ancora una volta la vita al servizio dell’arte: ma non c’è alcun riscatto, alcuna nobiltà in questo, solo grande disperazione.
Come, infine, quanto dice l’esacerbata Nina: “Adesso, Kostja, io so, io comprendo che nella nostra opera, sia essa di scrittore o di attore, l’importante non è la gloria, non il lustro, non ciò che sognavo, ma saper soffrire”.
3.
Classico è ciò che è sempre attuale, sempre contemporaneo a chi lo avvicina.
Questo incontro con Cechov, propiziato da questa magnifica rappresentazione, fa riflettere su quanto sia difficile l’accordo delle diverse sensibilità degli esseri umani, ieri come oggi come sempre.
Nel Quarto Atto, mentre si gioca a tombola, Samraev, l’amministratore della tenuta, rammenta a Trigorin che gli aveva chiesto, due anni prima, di impagliargli il gabbiano ucciso da Konstantin: ma lo scrittore non ricorda assolutamente.
Come può non ricordare quello che si era coscienziosamente appuntato, mettendone a parte Nina, la ragazza alla quale poi lui rovinerà per sempre l’esistenza: “Un soggetto per un breve racconto: sulla riva di un lago vive fin dall’infanzia una giovinetta come voi; ama il lago come un gabbiano ed è felice e libera come un gabbiano. Ma giunge per caso un uomo, la vede, e, così tanto per passare il tempo, spezza la sua esistenza, come a questo gabbiano.”
Come fa Trigorin a non ricordare affatto quanto successo solo due anni prima?
Eppure è così: qualcuno investe tutto su qualcun altro, si fa prendere totalmente dalla passione, muta radicalmente; e l’altro si limita ad assistere, si fa coinvolgere il minimo indispensabile, dimentica.
E come sono sempre tesi, conflittuali, drammatici i rapporti tra le generazioni, tra i vecchi e i giovani. Konstantin, nella lite violenta che ha con la madre nel Terzo Atto, così sbraita: “Io ho più talento di tutti voi, se vuoi che te lo dica! Voi, da gente pratica, siete riusciti a strappare un primato nel campo artistico e ritenete giusto e vero solo quello che fate voi. Gli altri li schiacciate e li soffocate.”
Gli altri, cioè chi viene dopo, i giovani. Se a “campo artistico” sostituiamo “ campo lavorativo, politico, ecc..” il risultato resta identico: gli adulti non accettano mai volontariamente di cedere il passo ai giovani, il ricambio generazionale è più auspicato a parole che reso possibile nei fatti.
Infine, una curiosità. In questo dramma è esplicitamente citata Genova.
Ciò che a qualcuno del pubblico poteva sembrare una libertà (o un rifacimento) del regista per una facile captatio benevolentiae è invece, ancora una volta, puro rispetto filologico. Quando all’inizio del Quarto Atto vien chiesto al dottor Dorn che ha girato il mondo quale città straniera gli sia piaciuta più di tutte, egli testualmente così risponde: “Genova. […] Per le strade di Genova c’è una folla straordinaria, Quando alla sera esci dall’albergo, tutta la strada rigurgita di gente. Poi te ne vai a zonzo senza una meta, di qua, di là, a zig-zag. Tra quella folla, vivi della sua vita, ti fondi completamente con essa e cominci a credere che sia realmente possibile una sola anima universale..:”
Dorn qui dà voce allo stesso Cechov (in quanti personaggi si nasconde il grande autore!): direi che Genova ha perfettamente ricambiato questo lusinghiero giudizio con lo spettacolo al quale abbiamo avuto la fortuna di assistere.
(foto di Giuseppe Maritati)