PAOLO LAMBERTI.
COLORE FISICO E COLORE MENTALE
Il colore ha nella cultura due dimensioni: quella fisica e quella mentale. Come si vedrà, la natura fisica del colore è prevalente nella filosofia greca, con l’eccezione degli atomisti; tuttavia la loro visione è qualitativa, legata al senso del percettore.
Sarà Newton a recuperare una visione riduzionista, materialistica e atomista della luce, accontentandosi di misurarla da un punto di vista quantitativo, e ritenendo di poterla scomporre nelle sue parti, ovvero nelle sue lunghezze d’onda, come la materia era ritenuta componibile a partire dagli atomi.
Ma la natura del colore ha portato la teoria newtoniana della luce ad essere attaccata da illustri critici. Goethe nella sua Farbenlehre, rifacendo l’esperimento dello spettro al contrario, non ottiene una luce bianca, ma un colore grigiastro. Goethe intendeva valorizzare l’importanza del modo in cui i fenomeni ottici si presentano ai nostri sensi, respingendo l’approccio di chi presume di valutarli in maniera oggettiva, ma al contrario ispirandosi ad una dimensione mistica, plotiniana.
« Wär’ nicht das Auge sonnenhaft,
wie könnten wir das Licht erblicken?
Lebt’ nicht in uns des Gottes eigne Kraft,
wie könnt’ uns Göttliches entzücken? »
« Se l’occhio non fosse solare,
come potremmo vedere la luce?
Se non vivesse in noi la forza propria di Dio,
come potrebbe estasiarci il divino? »
Per Newton la luce bianca è composta di parti colorate e quindi eterogenea, l’oscurità è assenza di luce e i colori fuoriescono dalla luce in base alla loro rifrangibilità (fenomeno primario).
Per Goethe la luce è entità semplice ed indivisa, l’oscurità esiste come polarità, e interagisce con la luce, i colori sorgono lungo i confini tra luce e oscurità e si sovrappongono a formare uno spettro (fenomeno composto): hanno quindi natura sia soggettiva che oggettiva. Essi non sono puri e increati come riteneva erroneamente Newton, ma scaturiscono dalla dialettica dei contrari. Ancor più radicale Schopenauer ne La vista e i colori scrive: «Una più precisa conoscenza circa la natura completamente soggettiva del colore contribuisce ad una comprensione più profonda della dottrina kantiana delle forme altrettanto soggettive ed intellettuali di tutta la conoscenza».
Kandinskj segue non poco Goethe, cerca di individuare un linguaggio del colore, intravedendo un nesso strettissimo tra opera d’arte e dimensione spirituale. Il colore ha due effetti: un “effetto fisico”, superficiale e basato su sensazioni momentanee, determinato dalla registrazione da parte della retina di un colore; un “effetto psichico” dovuto alla vibrazione spirituale (prodotta dalla forza psichica dell’uomo) attraverso cui il colore raggiunge l’anima. Esso può essere diretto o verificarsi per associazione con gli altri sensi. L’effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono.
Tuttavia c’è una terza dimensione del colore, quella chimica: infatti gli esseri umani non si limitano a percepire il colore, lo riproducono; e nel far ciò, dipendono dai materiali e dalla tecnologia.
Le nostre preferenze ed interpretazioni anche simboliche dei colori quindi non dipendono solo da quello che vediamo, ma da quali materiali ci permettono di creare superfici colorate. La tecnologia del colore è un elemento fondamentale della tecnologia umana, e l’arte ne approfitta marginalmente: a guidare la ricerca sono soprattutto la tintura dei tessuti e la produzione di vernici, nonché i cosmetici. Pittori, scultori ed architetti si accodano.
Lo si nota dal rosso Tiziano al verde Veronese alla pittura impressionista, resa possibile solo dai colori sintetici sviluppati per le vernici, a base di cromo, cadmio, zinco, bario, nonché dall’invenzione del tubetto metallico che permette di portare con sé i colori anche en plein air.
Si confronti Turner con Van Gogh: il primo usa ancora i pigmenti naturali del celebre fabbricante Field (che, antinewtoniano, riconduceva i colori a giallo indiano, rosso robbia e blu oltremare), il secondo usa i colori sintetici.
Nel Novecento questo legame con i materiali è esemplificabile in Yves Klein e Mark Rothko: il primo è talmente attento ai materiali da farsi produrre il celebre blu Klein (un oltremare sintetico), e usare i pigmenti puri nell’Ex voto per il santuario di S. Rita, il secondo si limita a scendere nella ferramenta sotto casa e copra le vernici più a buon mercato.
La centralità della materialità dei pigmenti si rispecchia anche nel lessico dei colori.
Pastoreau distingue colori percepiti come primari, che hanno nomi propri (bianco, rosso, nero), colori secondari (marrone, rosa, arancio) che traggono il nome dagli oggetti, e colori terziari che misurano le sfumature (rosa cipria, rosa confetto).
Tuttavia ogni lingua offre un lessico diverso, di difficile traducibilità, perché spesso i riferimenti cambiano: si pensi al rosso Sinope confrontato con la terra di Siena.
Ma soprattutto cambia il taglio culturale, al punto che nell’Ottocento molti antichisti, dinanzi ai termini greci e romani, si chiesero addirittura se essi vedessero come noi. In realtà la fisiologia non muta, mutano i tratti pertinenti scelti per il discorso culturale.
La differenza tra mondo classico e mondo moderno è che materiali diversi e meno numerosi rendono elemento pertinente non la tonalità, come per noi, ma il diverso grado di lucentezza. Le lingue classiche valorizzano perciò il lucido e l’opaco, non la netta gradazione dei colori.
LA TERZA OPSINA
Quando Eva ha offerto la mela ad Adamo, non ha aperto la porta al peccato, ma alla visione a colori del mondo. A correggere l’ennesima cantonata biblica la teoria evoluzionista ha dimostrato che gli esseri umani discendono da antenati arboricoli e fruttivori, vissuti decine di milioni di anni fa. Un ambiente arboricolo e una dieta a base di frutti hanno lasciato in eredità all’uomo due elementi fondamentali della vista: la stereoscopia e la visione a colori. Infatti se ci si muove sui rami la percezione della profondità è vitale, quindi è opportuno avere gli occhi non ai lati del cranio ma davanti; e oltretutto pare che la capacità di discriminare con molta esattezza i margini, fondamentale per capire dove finiscono rami e foglie, sia lo strumento che abbiamo specializzato per discriminare i margini delle lettere, ottenendo così la lettura.
Ma altrettanto importante è la percezione del colore: immersi in un universo di verdi e marroni, se vedessimo come cani o gatti tutto ci apparirebbe più confuso (anche se loro hanno un’acutezza visiva maggiore, adatta a individuare e catturare prede lontane ed in movimento). Ma soprattutto i colori ci avvertono del grado di maturazione dei frutti, evitando sia di mangiarli acerbi sia marci: soprattutto evitando quelli acerbi, ricchi di sostanze chimiche velenose come i tannini. Se invece sono troppo maturi, è vero che sviluppano alcool, ma tutti i fruttivori, uomini compresi, hanno sviluppato enzimi in grado di neutralizzarli. Per altro con un certo piacere.
Se lo sviluppo della vista ha inciso sul nostro cervello, che presenta aree visive molto estese, la percezione dei colori si è valsa dello sviluppo di una terza opsina.
La vista e il colore, per animali visivi come noi, sono stati al centro di fondamentali discussioni sulla nostra natura. Basti menzionare l’occhio invocato dagli antievoluzionisti come organo troppo perfetto per essersi evoluto a gradi, argomento fallace come dimostra Dawkins nel suo libro L’orologiaio cieco, titolo paradigmatico che spiega come organi di vista si siano evoluti molte volte indipendentemente.
Notoriamente la vista umana percepisce le lunghezze d’onda comprese tra infrarosso ed ultravioletto (appunto termini definiti dai colori), ovvero tra 400 (violetto) e 700 nanometri (rosso) di lunghezza d’onda. Se ad ogni lunghezza d’onda è associabile un colore, non è vero il contrario: infatti i colori da noi percepiti sono spesso una combinazione di più lunghezze d’onda, interpretate dal cervello.
Alle aree visive arrivano gli impulsi elettrici dal nervo ottico, che li ricava da coni e bastoncelli. I bastoncelli assorbono tutto lo spettro luminoso, assorbendo la luce solare, la cui intensità è massima intorno al verde; fondamentali per la visione notturna, discriminano essenzialmente tra chiaro e scuro. Una distinzione che ad esempio diventa culturalmente fondamentale nel mondo greco-romano. La proteina che viene attivata dal pigmento sensibile alla luce è la rodopsina, che risale probabilmente a 600 milioni di anni fa. In origine è presente in batteri per proteggerli dalle radiazioni ultraviolette e interviene anche nella fotosintesi e nel movimento; oggi è presente in specie così diverse come la drosofila e l’uomo, e si è specializzata nella visione.
Invece i coni sono di tre tipi, ciascuno con un tipo diverso di rodopsina. Negli esseri umani i tre tipi sono sensibili al rosso, al verde e al blu; se attivati simultaneamente la luce percepita risulta essere bianca. In molti altri animali i coni sono solo di due tipi. Proprio il terzo cono, con la terza opsina (quarta, considerando quella dei bastoncelli), è quella che apre il nostro mondo in technicolor.
Il funzionamento dei nostri coni è simile a quello dei pigmenti. Infatti entrambi assorbono una parte della radiazione luminosa. Nel caso dell’occhio, è la parte non assorbita a stimolare il cervello, nel caso dei pigmenti è la parte non assorbita a essere riflessa.
Come nelle opsine, i pigmenti nel riflettere la luce attivano una serie di reazioni chimiche: tuttavia a differenza delle opsine, che si “ricaricano”, i pigmenti si degradano con il tempo.
LE STRANE TINTE DEI FILOSOFI
La filosofia greca si interessa dei colori, offrendo diverse teorie.
Il primo da menzionare è Empedocle, che sostiene che i colori nascono dalla mescolanza dei quattro elementi, e in particolare da fuoco, che origina il bianco, e acqua, il cui colore è il nero. Anche qui è evidente la centralità della contrapposizione di luminosità, chiaro/scuro, rispetto alla differenziazione dei colori. Dal loro accostamento nascono tutti gli altri colori.
Gli oggetti per Empedocle emettono effluvi (aporroài) che si diffondono per l’aria e che arrivano all’occhio. Un effluvio ha certe proporzioni di particelle dei quattro elementi: particelle di acqua, di terra, di aria e di fuoco. L’occhio è dotato di pori; nell’occhio ci sono pori che accolgono solo le particelle di fuoco e pori che accolgono solo le particelle di acqua degli effluvi. L’occhio non ha pori per accogliere le particelle di aria e di terra, che dunque non vengono percepite e non partecipano al processo della visione, in accordo con il fatto che gli elementi aria e terra non hanno colore e dunque sono invisibili.
Ancora nel Menone (76d4-5) Platone accoglierà questa idea:
«S. Seguendo le tesi di Empedocle, non dite che dalle cose scaturiscono certi effluvi?
M. Senza dubbio!
S. E che vi sono dei pori che ricevono e lasciano passare gli effluvi?
M. Sicuro!
S. E che tra gli effluvi alcuni sono perfettamente corrispondenti ai pori, altri, invece, minori o maggiori?
M. Proprio così!
S. E c’è qualcosa che chiami vista?
M. Sì.
S. Di qui “comprendi quello ch’io dico”, disse Pindaro: effluvio di figure è il colore che esattamente corrisponde alla vista ed è sensibile».
Però il passo platonico più importante, con una teoria lievemente diversa, si ritrova nel Timeo (67-68).
Gli oggetti emanano sempre effluvi: quando c’è la luce e l’oggetto viene osservato, la superficie esterna di quell’oggetto, cioè il suo colore, viene visto. Il colore dunque non è percezione, ma è una emanazione fisica, reale, oggettiva. A differenza però di Empedocle, Platone riconduce ai tetraedri del fuoco gli effluvi; anzi, distingue vari tipi di fuoco, tra cui il “fuoco visuale”, come Giarratano traduce òpsis.
«Ma ora potrebbe essere molto opportuno di svolgere a questo modo l’opinione che sembra più probabile intorno ai colori: le particelle, che si staccano dai corpi e incontrano il fuoco visuale, sono alcune più piccole, altre più grandi, altre infine eguali alle parti di questo fuoco visuale: ora le eguali non generano sensazione e sono dette diafane, ma le maggiori e le minori, quelle che contraggono e queste che dilatano il fuoco visuale, esercitano la stessa azione che sulla carne le sostanze calde e le fredde, e sulla lingua le acerbe e tutte quelle atte a riscaldare, che abbiamo dette piccanti: e le bianche e le nere producono le stesse impressioni di queste cose in un altro genere e per queste cagioni ci sembrano differenti. Così pertanto bisogna chiamarli: bianco [leukos], quello che dilata il fuoco visuale, e nero [melas] il suo contrario». (67 D)
Quindi le particelle
- se sono della stessa dimensione non causano la percezione, e l’oggetto appare trasparente;
- se le prime sono più piccole delle seconde l’oggetto appare bianco;
- se le prime sono più grandi delle seconde l’oggetto appare nero.
Tuttavia ai due colori empedoclei Platone ne aggiunge altri due, giungendo ad uno schema di quattro colori primari che rimarrà paradigmatico nell’arte greca.
Questi colori sono collocati sotto il bianco, ovvero sono particelle più piccole: subito dopo il bianco c’è il rosso (erythròs), ovvero un colore sanguigno (chrōma énaimon): «che arriva fino all’umore degli occhi e si mescola con esso, ma non è fulgido, e al raggio di questo fuoco che si mescola attraverso l’umidità e presenta un colore sanguigno, noi diamo il nome rosso». (68 A)
Al limite inferiore di grandezza delle particelle ritroviamo un colore/non colore, ovvero individuato per la luminosità, secondo la sensibilità greca; è definito lampròn te kài stilbòn, ovvero “splendente”, “luccicante”, “brillante, “raggiante”, “fulgido”: «Quando poi un impeto più rapido affluisce da un fuoco di genere diverso e dilata il fuoco visuale fino agli occhi e dividendo a forza i passaggi degli occhi e disciogliendoli ne versa fuori quella mescolanza di fuoco e d’acqua, che chiamiamo lacrime, ed è fuoco quest’impeto e si avanza di contro; quando di questi fuochi l’uno balza fuori come da folgore e l’altro entra dentro e si spegne nell’umidità dell’occhio, e colori di ogni specie nascono in questa confusione, noi quest’affezione la chiamiamo bagliore, e a quello che la produce diamo il nome di splendente e di fulgido». (67 E).
Dalla mescolanza di questi colori nascono gli altri: «Lo splendente mescolato col rosso e col bianco dà l’arancio/giallo (xanthòs). Il rosso misto al nero e al bianco è il purpureo, (halourgòs, il termine etimologicamente richiama il mare hàls, e va ricondotto all’omerico mare color del vino) ma diviene il bruno (òrphninos, più che un colore indica qualcosa di spento, offuscato) quando a questi mescolati e bruciati si mescola più di nero. Il rosso cupo (pyrròs) nasce dalla mescolanza di arancio/giallo (xanthòs) e di grigio/bruno (phaiòs), il grigio/bruno da quella di bianco e di nero, il color ocra (ōchròs) dal bianco mescolato con l’arancio/giallo. Il bianco unendosi con lo splendente e cadendo nel nero carico produce il colore turchino (kýanous), e dal turchino mescolato col bianco nasce il celeste (glaukòs), mescolato col nero, il verde (pràsios)». (68B)
Per Democrito invece il colore non è proprietà degli atomi, ma effetto della loro superficie sull’occhio: infatti dagli oggetti si distaccano éidōla che colpiscono l’occhio dopo aver solidificato l’aria. La visione è dunque materiale, ma per la prima volta ci si avvicina all’idea che il colore sia una qualità secondaria, come Galileo e Locke sosterranno molti secoli dopo.
Galeno (De elementis secundum Hippocratem) cita Democrito dicendo che «opinione è il colore, opinione è il dolce, opinione l’amaro, verità gli atomi e il vuoto, dice Democrito, ritenendo che tutte le qualità sensibili, ch’egli suppone relative a noi che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia aggregazione degli atomi, ma che per natura non esistono affatto bianco, nero, giallo, rosso, dolce, amaro».
Tuttavia queste opinioni si basano sui diversi effetti della superficie degli atomi: così vengono distinti quattro colori primari, bianco, nero, rosso, verde: «le strutture superficiali lisce, circolari, uniformi producono la sensazione del bianco. Quelle che hanno proprietà opposte, quindi sono ruvide, producono la sensazione del nero. Le strutture del rosso sono identiche a quelle del caldo “infatti quando siamo accaldati arrossiamo” e quelle del verde sono composte di “figure solide e di vuoto”».
Tutti gli altri colori si producono per mescolanza dei quattro colori primari. Democrito (che secondo Teofrasto (De sensu) avrebbe scritto un libro sui colori) cita anche il porpora, l’azzurro, l’indaco, il verde-noce e la loro composizione a partire dai quattro colori primari, e inoltre «il color oro e quello del bronzo nonché ogni colore a questi affine, si compongono del bianco e del rosso, ricevendo dal bianco la luminosità e dal rosso la tinta, in quanto il rosso, nel mescolarsi al bianco, si dispone negli spazi vuoti. Se a questo aggiungiamo il verde, si produce un colore molto bello, ma l’aggiunta di verde deve essere molto piccola, perché il bianco e rosso sono combinati in modo da non permettere una mescolanza più ampia». Epicuro e Lucrezio non aggiungeranno nulla di nuovo.
Complessa è la teoria aristotelica, che parte dalla luce. Questa è un accidente di un corpo trasparente: il concetto chiave è tò diaphanés, il trasparente, tipico dei corpi indeterminati (acqua, aria) o determinati ma trasparenti (vetro, ghiaccio). La luce è lo stato di trasparenza effettiva di questi corpi: «La luce è l’atto di questo e cioè del diafano in quanto diafano. Dove il diafano non è se non in potenza ci sono le tenebre». De Anima 418b9-11.
La luce non è quindi materiale in sé (novità nel pensiero greco), ma partecipa della materialità del corpo. La luce quindi non si vede, ma permette di vedere: di conseguenza è il colore ad essere materiale e caratteristica del corpo.
Tutti i corpi hanno come caratteristica in potenza tò diaphanés; il diafano interno è sempre solo potenziale (non c’è una sorgente luminosa) mentre il diafano alla superficie del corpo può essere potenziale (senza sorgente luminosa) oppure attuale (con sorgente luminosa). Poiché il colore sta nel diafano, se questo è potenziale sarà colore potenziale, se questo è in atto sarà colore in atto. Se il grado di diafanità è elevato, il colore tende al bianco, se è basso il colore tende al nero. Il fuoco ha massima diafanità ed è dunque bianco mentre la terra ha minima diafanità ed è nera. Aria e acqua essendo diafani in grado diverso, non hanno un loro colore intrinseco, sono intermedi, l’aria verso il bianco, l’acqua verso il nero. Sia per “chiaro” che per “bianco” Aristotele usa la parola leukos e sia per “scuro” che per “nero” usa melas. Questo è coerente con il fatto che il colore ha più a che fare con la luminosità che con la tonalità.
I vari colori si formano per mescolanza, secondo tre modalità: giustapposizione, sovrapposizione e mescolanza. Aristotele ne distingue sette:
- bianco (leukos)
- giallo (xanthos)
- rosso (phoinikous)
- viola (halourgos)
- verde (prasinos)
- azzurro (kyanous)
- nero e grigio (melas, phaion)
1 – continua
QUI la seconda parte del saggio