Anse di Memoria di Paola Musa

copertina-dante

Anse di memoria
sinuose e sfuggenti.

Ri
verso
di ogni foce.

Liquidi canti
fecondano lievi
in gole di roccia.

Eccomi,
appena adagiata
su un grumo di spuma.

Un’orma
nell’orma
di ciottoli e sabbia.

*

L’azzurro intanto
assedia in retroscena
ogni pensiero.

Dov’ero
quando non ero?

Il rantolo assordante
delle onde

rimesta questo carme

da una brocca
all’altra.

*

La bambina
attraversa ignara
cumuli di storia.

Sente il peso delle epoche
tra i sentieri sterrati
nelle corse polverose.

La fionda di un fratello
si è incagliata su un ramo

forse non c’è fionda
né fratello
né ramo.

L’anima oppressa
vorrebbe afferrare
la vastità dei continenti

ma può solo lanciare
sassi nello stagno.

Guarda i maiali
uscire dai recinti
e un pensiero
le scheggia lo sguardo.

Paola Musa, Anse di Memoria, MACABOR Francavilla Marittima (CS) 2017
In copertina: Dante Musa, Cara terra madre, 2015

Foto di Tore Piano

Foto di Tore Piano

Dalla Prefazione di Davide Zizza
«Il poema di Paola Musa, Anse di memoria, prende il titolo dai primi versi che ne danno l’avvio e rappresenta un viaggio nelle radici attraverso la finestra della memoria. Perché anse? L’ansa è la curva larga di un corso d’acqua, un meandro ed è in questo meandro – il passato – che Paola rielabora uno scavo personale, prezioso, volto al riconoscimento di una verità, disvelatasi epifania alla sua autocoscienza. L’elemento dell’acqua – nello specifico il mare, caratterizzato nel poema sia fisicamente sia psicologicamente come un confine quasi invalicabile – rievoca un moto eterno. A tal proposito uno dei fondamenti tematici dell’opera è giustappunto il richiamo circolare anticipato nell’epigrafe tratta dai Quattro quartetti di T.S. Eliot (quinto canto dell’ultimo quartetto): “Non smetteremo di esplorare/E alla fine di tutto il nostro andare/Ritorneremo al punto di partenza/Per conoscerlo per la prima volta”; ebbene tale richiamo di-venterà la quintessenza della ricerca della poetessa. La rete di suggestioni, impressioni, rimandi, ricordi, tessuta fra affondi nel passato e riflessioni sul presente si tradurrà per Musa in una necessaria unità di entrambi, proprio sul leitmotiv eliotiano, perché avvenga la salvezza e non si perda il senso della ricerca stessa.»

Foto di Tore Piano

Foto di Tore Piano

Poesie brevi ed essenziali, che percorrono un’esistenza dove gli aspetti naturali si intrecciano con gli accadimenti e gli stati d’animo. La prima persona è sempre plurale (“Il nostro orecchio è da sempre una conchiglia dai flutti incessanti”). La terza persona è “la bambina del limbo”, che fa un viaggio quasi mitico nella terra d’origine, la Sardegna, tra “i lembi di Ichnusa” (nome in greco antico della regione che significa impronta): un itinerario “nel ventre delle origini” e nel “paesaggio indelebile dei primi sguardi”. “La bambina attraversa ignara cumuli di storia” scoprendo che “la vita è una catena di lutti”.

Il paesaggio è circondato da “quel mare – confine annunciato e taciuto”. “Ovunque mare e domande”, un luogo che “è ogni luogo e nessuno”, i “possibili altrove da varcare e costruire” sono al di là di esso, al di là del mare.

In questo mondo senza tempo si muovono i personaggi, di “millenni addietro” e di adesso: sacerdotesse vergini che percorrono acque sacre e vedove “nei sentieri dei camposanti”, “agricoltori, pastori, principi e guerrieri”. Il pastore “conta le stelle e le pecore” e sogna la sua donna. Il “pescatore del nuovo millennio” resiste alla modernità che si insinua (betoniere e bagnanti, “dalle bocche delle navi escono auto come mosche”) e osserva i traghettatori di “maleodoranti barconi ricolmi di miseria” pensando: “per pochi che partono, molti che arrivano”. Nonni-padri-figli (“chiedi e saprai cos’è la fatica”) che conoscono le leggi di natura ma ignorano quelle del destino.

Foto di Tore Piano

Foto di Tore Piano

La donna non è solo madre-madonna-strega: “qui tutto ha impronta di donna”; è continua metafora, “epidermide di donna vezzosa” sono i lembi della terra. E il figlio
“ha paura che il mondo
sia donna sconosciuta e vile
di voglie nascoste e volubili
assediata da troppi amanti
e pochi amati.”

Nella parte finale della raccolta la poetessa raggiunge una potenza che conduce il lettore ancora più nel profondo di questa terra “di pietra e vento” e nell’“anima oppressa” che “vorrebbe afferrare la vastità dei continenti”. La bambina raggiunge la consapevolezza “d’inganni e incanti”, il passato si srotola (“ci vuole tempo perché il tempo riaffiori”), l’anima affaticata si ferma e le attese, come stormi, “spiccano infine il volo”.
“La bambina
sfila il suo centro dal torace
e posa il nuovo palpito
accanto a quello nato.
Dovunque vada,
adesso sa:
anche il cuore
ha foggia di isola.”

(A cura di Silvia Pio)

Paola Musa in Margutte: Mi spezzo alla luminosità perduta

Foto di Tore Piano

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