FELICE BACCHIARELLO
Il Fronte greco-albanese-slavo
Il Fronte greco-albanese-slavo, causa l’ultimo disperato tentativo nemico di infrangere la resistenza italo-germanica che li circuiva, era diventato un fervore di lotta senza tregua. Da un punto all’altro del fronte echeggiava triste il rombo del cannone micidiale, le baionette si incrociavano nei corpo a corpo in una guerra fratricida, proprio nella ricorrenza del 1941° anniversario della morte di Colui che sul Golgota si immolava per la pace e per la salvezza del genere umano dando all’universo ingrato la più sublime prova d’amore.
Quali insegnamenti ne hanno tratto gli uomini! Oggi pure come allora vi sono Farisei accecati dalla superbia, dall’invidia e dall’egoismo più assoluto, che calpestano le più umane leggi per raggiungere il loro criminoso intento.
In un viavai continuo, aerei da bombardamento nostri, incessantemente, oltre che le truppe in linea, martellavano i porti della Grecia, nei quali erano ammassate le forze Inglesi in fuga, lasciando soli, sfiniti, privi di viveri, in maggioranza mutilati, popolazione e soldati greci, a sfidare l’ultimo tremendo attacco dei nostri eserciti, dopo averli per mesi e mesi cinicamente spinti ed aizzati alla lotta inutile, al solo scopo di assicurarsi che già una nazione fosse resa inefficiente ad ogni futura opposizione alle loro brame.
La Pasqua 1941, segnando così la vittoria nostra, segnava altresì la fine di due eserciti: Greco e Slavo.
In questi ultimi giorni di guerra ebbi occasione di soffermarmi a Tirana, capitale del Regno Schipetaro, ove si vedeva già la mano del fascismo costruttore dei moderni fabbricati in terra altrui mentre invece con maggior profitto attuale avrebbero potuto essere costruiti in territorio nazionale.
Ogni pazzo deve avere le sue manie: Mussolini (pace all’anima sua e parliamone da vivo) aveva quella della magnanimità, l’illusione di essere al maneggio di un tesoro senza fondo, e come i suoi gerarchi ambiva sentirsi osannare per aver speso miliardi e miliardi per fare strade nei deserti africani e palazzoni (poi saccheggiati dai neri, ultimamente, aizzati dagli Inglesi), senza badare che l’opera di civiltà svolta in A.O. avrebbe dovuto prima essere svolta in Italia (basta vedere specialmente da Roma alla Sicilia) e senza curarsi che, mentre ingenti capitali venivano profusi e sciupati per scopi non ben definiti, i soldati che avrebbero dovuto avere la sue prime cure, camminavano scalzi o quasi, mal equipaggiati e denutriti, avviliti più dei prigionieri stessi cui talvolta erano di guardia.
Tornando all’Albania, per dare un’occhiata anche alla popolazione, è da notare che essa è quanto di più indesiderabile possa esservi. Maschera di tutto il popolo è la falsità, superiore ancora a quella posseduta dai Belgi Fiamminghi. Vestiti da pastori con pantaloni strettissimi, da ginocchio alla caviglia, giacca a tre quarti, berretto di feltro a tronco di cono, rappresentano il classico tipo mussulmano, completato poi dai baffi spioventi.
L’unico mezzo per ottenere confessioni piuttosto sincere da quelli religiosamente convinti è quello di presentarglisi innanzi muniti di rasoio pronti a radere loro barba e baffi. Il Mussulmano che si lasci fare o faccia tale cosa è ripudiato dalla religione e non andrà più nel paradiso di Allà. Molte sono le sette religiose in Albania, impenetrabili i loro misteri.
Non esistono per loro cimiteri comunali come da noi in Italia, ma ogni famiglia conserva i propri morti nella sua proprietà (vicino alla casa, in un angolo di un orto, ecc.) parlando certo di un popolo povero, di pastori, come l’albanese e mettendo in testa al tumulo, in luogo della nostra croce, una pietra (tipo paracarro) e null’altro.
Non è il caso di descrivere modi di sepoltura, costumi di matrimonio e sistemi per far morire presto un moribondo che abbia la disgrazia di essere proprietario di campagne o molto imparentato, e conseguente cerimonia funebre, cose che non sapendo bene descrivere sono più divertenti che credibili.
Le donne sembrano fantasmi, escluse le città, nelle quali in forza del commercio se ne vedevano alcune; nel tempo dell’occupazione ricordo di non aver quasi visto donne nei vari paesi per i quali sono passato. Sono di età indefinibile per il loro modo di vestire specialmente perché molte portano il velo in faccia.
Fisionomie di donne albanesi davanti ai miei occhi non se ne affacciano, per quanto mi sforzi; ricordo solo dei fantasmi.
Dopo aver tanto divagato torno al concreto e cioè al fatto che più stava a cuore ad ognuno di noi: che le ostilità su quel fronte con la Pasqua del 1941 erano cessate, pertanto, essendo i poveri alpini come gli ebrei destinati a vagar sempre, dopo lunghe peripezie ripassammo per la terza volta da Elbasan, sempre a piedi (nemmeno dopo aver “spezzato le reni alla Grecia” ci eravamo meritati un viaggio fino a Durazzo in macchina – camion a gomme piene!).
Le navi del ritorno ci attendevano nel porto di Durazzo e, senza ripianto, sfidando qualunque destino ci avesse atteso poi, ognuno altro non agognava che poter porre piede nella nostra bella e cara terra, perché su di essa stavano tutti gli affetti del cuore, i più cari e già si pregustava la gioia vicendevole del prossimo abbraccio!
In un sobborgo di Bari, in un oliveto, alzammo la tenda per il cosiddetto campo contumaciale, che ci segregava da ogni contatto civile, finché, sperimentato che il cambiamento di clima non avesse causato alcuna epidemia ed accertato che lo spidocchia mento fosse avvenuto regolarmente, saremmo stati ritenuti idonei per essere riammessi tra le persone dette civili. Salutati dagli scugnizzi che trovavano in noi poca esca per i loro affari, non solo ma in certi casi del danno, risalimmo sul treno per ripercorrere la strada dell’andata, ma questa volta con maggiore entusiasmo, inebriati di gioia, di una felicità tutta speciale che si conosce solo in tali momenti. Sembra di essere redivivi, già non ci sembrava più credibile quello stato di malumore, di irascibilità che poco prima regnava nel nostro spirito.
Come erano belli stavolta i paesaggi che attraversavamo, resi più belli ancora dal mese di maggio, ma il più bel panorama è nulla in confronto a quello che è scolpito nella mente del soldato nell’imminenza di un ritorno fra le braccia dei suoi cari, dopo aver affrontato ogni sorta di pericoli ed esserne scampato.
Ci accolse all’arrivo Mondovì, ridente e bella nel mese dei fiori, indi si fece scalo a Beinette, proseguendo poi per Chiusa Pesio in attesa della meritata licenza che enne in giugno.
Così ebbe termine il secondo triste episodio della mia avventurosa giovinezza, le cui conseguenze risentirò per tutta la vita.
(Continua)
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Seconda puntata
Terza puntata
Quarta Puntata
Quinta puntata
Si ringrazia la famiglia Bacchiarello per la concessione del testo e delle foto. La foto di copertina porta scritto “Con Barberis Attilio Pietraporzio 1940″ e si riferisce ad un episodio antecedente a quelli raccontati in questa puntata.