SERENA SANTORO.
Il signor D’Andrea era un rinomato e famosissimo domatore di bestie in un circo. Conduceva uno stile di vita strambo, e soleva ripetere: «Ah figliolo caro!» a chiunque chiedesse notizie riguardo il suo tenore di vita.
Bisognava percorrere una strada contorta e molto strana per capire fino in fondo questo personaggio. La sua famiglia gestiva il circo da moltissimi anni, ed egli era certo il frutto di tutti quei mostruosi intrecci di razze. Aveva dei capelli crespi e corvini ma il viso bianco, la sua fronte era piena di rughe, i suoi occhi plumbei e il corpo magro. In una cosa il domatore D’Andrea era però impeccabile : nessuno, moralmente parlando, sapeva rigare dritto meglio di lui. Il circo andava molto bene, le bestie venivano sfamate ma nello stesso nello stesso tempo educate al giusto comportamento, quasi quasi il domatore assumesse le connotazioni di un giudice.
Sì, esatto, il giudice D’Andrea. Mi piace come suona questo nome.
Egli era un tipo ansioso e pensava molto di notte, ma il pensare non aiuta la salute, anzi per niente.
In particolare una notte si sentì molto agitato. Si spazzolava i capelli freneticamente, riusciva a tratti a dormire e faceva strani sogni, come quello in cui vedeva una via luminosa di stelle che lo conduceva forse al successo. Chissà se quello era un sogno premonitore. In realtà egli aveva paura che il suo circo, un giorno, avrebbe perso la sua unicità e che la tradizione della sua famiglia sarebbe tramontata, come fa il sole ogni sera. E questo era ovviamente inaccettabile per un uomo, moralmente parlando, corretto come lui.
Il mattino seguente, il giudice si recò dunque in una tipografia; aveva deciso di stampare dei bandi per dei provini così da procurarsi nuovi artisti per la sua attività. Alla fine, ai prescelti, avrebbe rilasciato un riconoscimento importante, una patente.
Rimase giorni interi nel suo ufficio: provava tanta agitazione fino quasi ad essere soffocato dai suoi stessi pensieri, tanto che, ad uno dei partecipanti, fece ripetere il provino una seconda, una terza e perfino una quarta volta. Era tutto troppo convenzionale, troppo banale, aveva bisogno di un talento nuovo. Quando capiva che aveva visto e sentito fin troppo, voltava la faccia, serrava le labbra, respirava a fatica e alla fine ributtava l’aria con un senso di nausea. Quanto a discrezione non si può certo dire che fosse molto bravo.
Tutto sembrava perduto.
Un giorno però si presentò un uomo. Il suo nome d’arte era il “Chiàrchiaro”, ovvero lo iettatore. Il giudice D’Andrea gli porse la mano ma quello lo fermò prontamente: «No, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, diventerà cieco!».
Il giudice lo guardò sconvolto, ma vi era un qualcosa in quella strana persona che lo attirava, aveva un suo quid. Il giudice gli chiese allora quale fosse la sua abilità e il “Chiàrchiaro” rispose che era quella di portare sfiga: desiderava perciò lavorare nel suo circo.
«E perché mai, uno etichettato come “iettatore” vorrebbe mostrarsi in pubblico?» si stupì il D’Andrea. Lo iettatore lo guardò un attimo e scoppiando a ridere chiarì: «Ma davvero non comprende il mio intento? Io desidero un riconoscimento ufficiale della mia abilità, ormai questo è il mio unico capitale. Per dirigere un circo, Lei ha avuto bisogno di un attestato, ed io voglio il mio, la mia patente. In questo modo potrei esibirmi, dimostrando a tutti quello che posso fare e in seguito sarei certamente pagato per allontanarmi da luoghi e persone e a poco a poco potrei costruire il mio, di capitale».
Il giudice ci pensò bene prima di decidere.
Ma poi si disse che in questo modo avrebbe ottenuto ciò che voleva prendendo due piccioni con una fava. Vagando con il suo circo, avrebbe senz’altro ottenuto un pubblico curioso e nuovo, che si sarebbe divertito con questo “fenomeno da baraccone” con un potere un po’ speciale. Al contempo lo iettatore avrebbe ricevuto un salario di cui potesse essere soddisfatto.
Dopo quello strano colloquio, il D’Andrea si affrettò quindi a fissare la data del successivo spettacolo: non stava quasi più nella pelle per l’emozione.
Era curioso, era pronto, era ansioso di vedere che cosa sarebbe accaduto. Ormai non riusciva a pensare ad altro.
Nei suoi sogni vedeva continuamente quella via luminosa di stelle e sentiva il successo sempre più vicino. Quando però provava a toccare il punto più in alto, questo svaniva e si trasformava in polvere dorata. Il giorno tanto atteso arrivò comunque in fretta e il giudice sistemò ogni minimo dettaglio, le gabbie, i sedili, aveva controllato persino la sabbia dell’arena! Doveva essere tutto perfetto.
Quando il pubblico giunse, nell’aria regnava sovrana la tensione ma poi, quando lo spettacolo iniziò, sembrava che stesse andando tutto per il meglio.
Il D’Andrea osservava e scrutava i volti di ogni singolo spettatore da dietro una tenda e quando vedeva in ogni bambino uno sguardo acceso e vivo, magicamente si sentiva appagato e soddisfatto. Forse in questo modo, o almeno così lui pensava, non sarebbe stato costretto a chiudere ed il “tramonto” dell’attività familiare si sarebbe trasformato in un’“alba” sfavillante.
Ma si sa, a volte, l’eccesso di ambizione invece di portare al successo, ha l’effetto di condurre alla rovina. E, infatti …
Quando entrò in scena il “Chiàrchiaro” successero le cose più strambe. Uno dei due trapezisti si schiantò al suolo, uno dei due leoni si imbelvì e sfuggendo al controllo del domatore seminò il panico generale. Gli elefanti barrirono spaventati e uno di questi correndo come un matto andò a sbattere contro un palo al quale era attaccato un faretto luminoso che cadendo vicino ad un lembo del tendone incendiò in un attimo l’intera struttura.
Gli spettatori erano tutti esterrefatti e correvano di qua e di là. Solo il “Chiàrchiaro” era l’unico composto e tranquillo: sapeva già che cosa, anche solo la sua presenza in scena, fosse capace di fare. Infine uno degli spettatori, prendendo in braccio il suo figlioletto e guardandolo con aria accigliata, gli urlò contro: «Prenda questi e se ne vada!», lanciandogli con sprezzo delle banconote. Ed ecco come la grande ambizione di un uomo sognatore andò in rovina.
Non appena tutti ebbero lasciato il circo correndo all’impazzata, il giudice, afflitto, si recò a casa sua camminando a testa bassa, le braccia a penzoloni ed era sul punto di crollare: non poteva credere di essere stato così ingenuo da fidarsi di quello strambo personaggio. Avrebbe dovuto ingaggiare, al suo posto, un clown e restare tra le righe.
Rimase sveglio tutta la notte: ormai non riusciva più ad immaginarsi la via dorata del successo, vedeva solo un buco nero.
Tutto sembrava essere perduto.
Il mattino seguente trovò però una piccola folla, ad attenderlo sotto casa.
«Sono finito!» pensò tra sé. Ma ecco che, contro ogni sua aspettativa, la gente non cominciò a urlargli contro maledizioni o lamentele. Tutt’altro: gli chiedevano addirittura di tornare ad esibirsi! Il suo circo, dicevano, non era convenzionale: era piuttosto un continuo carico di emozioni alle quali, invece che con paura, uno spettatore poteva reagire perfino con entusiasmo e sorpresa. Sembrava proprio che il non sapere cosa sarebbe accaduto, durante ogni spettacolo, potesse trasformarsi in una fonte inesauribile di curiosità e sensazioni.
Benché stupefatto, il giudice ripensò allora al suo sogno ricorrente, benedicendo l’ incontro con il “Chiàrchiaro”. Altro che sfortuna! Aveva finalmente fatto la scelta giusta entrando in affari con lo iettatore il quale, d’altra parte, ottenne così la sua sospirata patente.
***
Cos’è che fa di un classico un classico?
La quaestio, più che vexata e dibattuta, ha ricevuto, com’è noto, risposte di ogni tipo, anche molto belle. Ma dimostra di restare in fondo aperta quando, in un’occasione topica come quella degli Esami di Stato, un ‘grande’ del ‘900 – ahimè non proprio noto –, finisce ad esempio per spiazzare docenti e alunni, soppiantando gli autori di un canone più riconosciuto e consolidato. E ci si chiede pure come andrà a finire: Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Biagio Marin (stranamente ancora nessuna donna), solo per citarne alcuni, finiranno per sostituirsi – come sta già in parte avvenendo – a Goldoni, Metastasio, Marinetti, addirittura (orrore!) a Dante e Leopardi?
Chi lo sa?
Certo la coperta della scuola è quello che è. Ricevendo feed-back e impulsi di ogni tipo da scelte ministeriali quantomeno imprevedibili, potrebbe finire per lasciarsi tirare solo da una parte e abdicare al proprio secolare ruolo di tutela di una certo tipo di tradizione letteraria, per avvolgerne un’altra più contemporanea, tutta però ancora da scoprire e concordare.
Un discorso che potrebbe portare molto lontano…
Ebbene, per tornare al punto, io condivido appieno la celeberrima affermazione di I. Calvino, secondo la quale (parola più, parola meno) classico sia ciò che non abbia mai finito di comunicare ciò che avesse da dire.
In questo senso la parodia o la riscrittura di un testo, lungi dal rivelarsi approcci minori o banalizzanti, possono al contrario proporsi come forme alternative, ma non per questo meno profonde, di “dialogo” tra generazioni e di vivace comunicazione tra un autore e i suoi destinatari, al di là del tempo e dello spazio.
È stato perciò questo lo spirito con cui il CNSP, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, di Agrigento, ha un paio di anni fa proposto agli alunni delle scuole superiori nazionali un concorso di rielaborazione creativa che, prendendo a spunto una novella pirandelliana a scelta, potesse arricchire, pure dal “vivo”, l’incontro con l’ Autore, in parallelo con i lavori scientifici del proprio Convegno di Studi.
Al lettore valutare quanto “classica” sia stata, per la giovanissima Serena Santoro, la lezione del “Maestro” Luigi.
(Gabriella Vergari)
Nell’immagine di copertina, il logo del CNSP.