Leggere Pirandello in classe

Luigi Pirandello,1933 Helsinki (da Wikimedia Commons)

Luigi Pirandello,1933 Helsinki (da Wikimedia Commons)

GABRIELLA MONGARDI.

Personalmente, mi sembra un buon segno che fra le tracce proposte nella prima prova dell’Esame di Stato vi sia l’analisi testuale, e che gli autori oggetto di analisi non siano sempre quelli canonici: perché non si chiede più al candidato di svolgere il classico “tema di letteratura” basato soprattutto sulla conoscenza di “ciò che il critico tale e tal altro hanno detto dell’autore in questione”, bensì gli si richiede di dimostrare di saper “leggere” un testo, magari di un autore a lui sconosciuto, mettendo alla prova competenze acquisite: questo può essere un primo passo per una scuola meno verbalistica ed astratta, più attenta al saper fare concreto. Come scriveva Tullio De Mauro in un articolo su Insegnare, stigmatizzando il “malanno verbalistico” della scuola non solo italiana: «Verificare che gli alunni sappiano ripetere che cosa dice il manuale di Ariosto è più facile che verificare che abbiano letto, capito e apprezzato qualche ottava». Nell’insegnamento della letteratura, l’analisi testuale dovrebbe servire appunto a questo: a fornire agli allievi gli strumenti per capire e apprezzare un testo, purché la teoria non diventi a sua volta un sapere fine a se stesso, ed il manuale di narratologia semplicemente prenda il posto del manuale di storia della letteratura, finché dura questa ‘moda’…

Dall’archivio dei miei ricordi di insegnante, proverò perciò a recuperare la lettura della novella pirandelliana Il treno ha fischiato (19141, 19372), fatta nella classe terminale di un Liceo Classico con gli strumenti dell’analisi testuale. Applicata a un testo narrativo, significa scomporre un testo in sequenze, distinguere fabula e intreccio, tempo della storia e tempo del racconto,  ricostruire le relazioni che intercorrono tra i personaggi, cogliere i rapporti che li legano al contesto, riconoscere la posizione del narratore e da quale punto di vista è condotta la narrazione, e così via.

Suddividere in sequenze Il treno ha fischiato è facilissimo, perché i confini delle varie macro-sequenze sono già segnalati dall’autore con il salto di linea, come se la novella tendesse a scomporsi in atti teatrali, secondo la ben nota commistione di narrativa e teatro che è tipica di Pirandello, così come c’è in lui una perfetta sovrapposizione, una coincidenza tra vita e teatro. Innumerevoli sono le dichiarazioni pirandelliane in tal senso: «La vita è una grande pupazzata»; «Pupi siamo»… Per Pirandello la vita è teatro, in quanto fatta di quinte, di falsi fondali, di ruoli, di convenzioni accumulate una sull’altra, e reciprocamente il teatro è vita non in senso naturalistico, mimetico, bensì nel senso rivoluzionario di una totale teatralizzazione dell’esistenza. Si potrebbe obiettare che Il treno ha fischiato è una novella di cui non esiste la versione teatrale: ma proprio per questa ragione serve tanto meglio a dimostrare la “teatralizzazione della narrativa” tipica di Pirandello, come vedremo.

In questa novella la narrazione comincia quando i fatti sono già accaduti: la prima sequenza infatti, da Farneticava. Principio di febbre cerebrale a …la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso, mette direttamente in scena, dopo una minima presentazione da parte del narratore, un coro di voci di compagni d’ufficio che commentano il ricovero in manicomio di un collega improvvisamente impazzito, il povero Belluca. Abbondano i termini medici, usati con compiacimento dai colleghi “sani” a sottolineare la loro differenza dal “malato”, differenza rimarcata anche dall’antitesi fra il triste ospizio dov’era stato ricoverato Belluca e il gajo azzurro della mattinata invernale. La sequenza si chiude con un commento del narratore esterno, onnisciente, che avanza l’ipotesi che l’accaduto non si debba interpretare come delirio, bensì come un caso naturalissimo (espressione che ritorna due volte in poche righe, ad indicare la corretta chiave di lettura dell’episodio).
La seconda sequenza, da Veramente, il fatto che Belluca la sera avanti a trascinato nell’ospizio dei matti, soddisfa almeno in parte le attese create dalla prima. Si apre infatti con un rapido flash-back, che informa il lettore che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capufficio; presenta poi un ritratto del personaggio (mansueto, sottomesso, metodico, paziente…circoscritto entro i limiti angustissimi della sua mansione di computista) con riferimento al suo abituale comportamento in ufficio, dove accettava sempre senza un lamento tutte le angherie e gli scherni dei colleghi; ritorna infine al racconto dettagliato dell’ultima, straordinaria giornata di lavoro di Belluca. Era arrivato in ritardo, non aveva fatto niente tutto il giorno e al giustificato rimprovero del capufficio aveva reagito, inveendo e gridando che ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più essere trattato a quel modo. La narrazione, dopo il sintetico sommario iniziale, è rallentata da descrizioni, iterazioni, e infine dal dialogo cruciale tra Belluca “trasformato”, ilare e sorridente, e il capufficio che quella sera doveva essere di malumore. Il narratore, sempre esterno e onnisciente, assume qui sostanzialmente il punto di vista dei compagni d’ufficio, i “sani”, i “normali”, che non capiscono questa stramberia del treno che aveva fischiato.
La terza sequenza, da Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno a appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui, è nuovamente ambientata al manicomio, e riporta di nuovo, ma questa volta con la tecnica del discorso indiretto, le impressioni che ricevono i visitatori di Belluca dalla sua nuova personalità, dal suo mutato aspetto (gli occhi gli ridevano lucidissimi, come quelli di un bambino o di un uomo felice), dalle sue nuove parole, definite da chi le ascolta espressioni poetiche, immaginose, bislacche. Lo stupore di chi ascolta Belluca è concentrato nelle parole “cose inaudite”, ripetute a poca distanza: ma è destinato a trasformarsi in sconcerto di fronte alle reazioni del narratore, che in questa sequenza compare in prima persona, come colui che ascolta appunto il resoconto dei visitatori e promette loro una sua diversa spiegazione dell’accaduto – una spiegazione naturalissima – non appena anche lui si sarà recato da Belluca. Ritorna di nuovo il superlativo naturalissimo, parola-chiave della prima sequenza, che caratterizza la prospettiva del narratore, la sua interpretazione “umoristica” dei fatti.
La quarta sequenza, brevissima (va da Cammin facendo a Una coda naturalissima), contiene le riflessioni del personaggio-narratore mentre cammina verso l’ospizio, e conferma la sua ‘simpatia’ per il protagonista. Ci dà anche un’altra parola-chiave per capire l’accaduto: è l’aggettivo impossibile, che ritorna tre volte a qualificare la vita condotta fino ad allora da Belluca.
Nella quinta sequenza (da Non avevo mai veduto un uomo vivere come Belluca a da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai) il narrratore, dopo essersi presentato come un vicino di casa di Belluca, ne racconta in flash-back la vita famigliare, ricorrendo di nuovo all’imperfetto iterativo o a frasi nominali (Zuffe furibonde, inseguimenti … pianti, urli, tonfi), a sottolineare la fissità, l’immobilità, l’insostenibilità di quell’opprimente carcere famigliare. Qui è obbligatorio notare l’iperrealismo espressionista di P., che sembra quasi ‘divertirsi’, con amara ironia, ad accumulare intorno al suo personaggio figure femminili “impossibili”: tre vecchie cieche, due figlie vedove, e uno stuolo di ragazzi indiavolati.
La sesta sequenza si apre con un’apostrofe del narratore ai lettori (Ebbene, signori), che sintetizza il suo giudizio sulla vicenda, riproponendo l’aggettivo naturalissimo, e poi contiene il resoconto della visita che il narratore stesso fa finalmente a Belluca, al manicomio. Adottando prevalentemente la tecnica del discorso indiretto libero, il narratore fa spazio al punto di vista di Belluca, per cui la cosiddetta “pazzia” non è che la risorsa estrema per sopravvivere nel suo inferno quotidiano di famiglia e ufficio, è una boccata d’aria presa con l’immaginazione. In questa sequenza è fondamentale l’opposizione spaziale tra il mondo chiuso, claustrofobico di casa e ufficio, dove si svolge la sciagurata esistenza di Belluca, e il mondo esterno che il fischio del treno nella notte evoca; tra l’angusto, il soffocante qua della non-vita di Belluca e l’indeterminato della vita degli altri. L’ansia di libertà di Belluca trova sfogo in spazi vasti, ariosi, mobili, che egli può liberamente immaginare: tante città, a cui quel treno s’avviava, le montagne solitarie nevose, gli oceani, le foreste…

Se si vuole ricostruire la “fabula” del racconto, riordinando le macrosequenze in successione cronologica (all’incirca 2-5-6-2-1-3-4-6), risulta però necessaria un’ulteriore suddivisione, perché alcune sequenze contengono informazioni relative a tempi diversi della vicenda. La seconda, ad esempio, presenta sì il fatto clamoroso, la causa prossima del ricovero di Belluca in ospedale, ma illustra anche le abituali angherie che il protagonista subiva in ufficio; analogamente la sesta racconta sì del fischio del treno, ma anche della vita attuale di Belluca in manicomio e – da ultimo – dei suoi nuovi propositi per l’immediato futuro. La tecnica tramite cui è realizzata questa sfasatura tra fabula e intreccio è quella dell’analessi, segnalata dall’opposizione imperfetto-trapassato prossimo, dove il trapassato prossimo segna il recupero di un evento anteriore, l’imperfetto la condizione abituale di sfondo. Questo procedimento ha una funzione ben precisa, che va al di là della ricostruzione dell’antefatto: esso consente infatti al lettore di scendere ai livelli più profondi della coscienza del personaggio e di comprendere le motivazioni del suo comportamento.

Per quanto riguarda l’analisi del personaggio, per evidenziare la metamorfosi di Belluca basta confrontare il ritratto del protagonista prima e dopo l’esperienza del “fischio del treno”: la fisionomia del personaggio non è unitaria, ma presenta diverse sfaccettature tra loro contrastanti. Per lungo tempo Belluca è vissuto senza ribellarsi, prigioniero della “forma” che gli è stata imposta dalle circostanze della sua sciagurata esistenza. Per definire questa sua condizione, Pirandello adopera metafore e similitudini animalesche, che comunicano sensazioni di oppressione e di pesantezza. Basta però un evento minimo, un qualunque lieve inciampo impreveduto, a provocare la catastrofe di questa forma e Belluca, da impiegatuccio mansueto e sottomesso, si trasforma in un uomo capace di ribellarsi al capufficio: gli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli di un bambino o di un uomo felice. Tutto ciò determina prima il mancato riconoscimento da parte degli altri impiegati, abituati a vederlo come un uomo mite, poi l’attribuzione di una nuova “forma”, quella del pazzo, che la società, spaventata, allontana da sé e isola in manicomio.

Allo stesso modo si procede per quanto riguarda la dimensione spaziale, che muta parallelamente al processo di trasformazione del personaggio, o ancora per illustrare il diverso atteggiamento degli impiegati e del narratore nei confronti di Belluca.
Se si pensa ad altre novelle di Pirandello, quali ad esempio Ciaula scopre la luna (1912), si noterà che qui lo spazio alternativo a quello dove si svolge la vita impossibile del protagonista non è solo il mondo della natura, ma anche quello delle città: Torino, Venezia…: non importa quale città. Quello che importa, qui, è il fatto che Belluca è un escluso dalla vita tout court, e che il suo sogno è sentirsi per un attimo di nuovo dentro il flusso della vita.

Particolare attenzione merita poi la figura del narratore, che nella novella assume un ruolo fondamentale in quanto, con la lucidità razionale della sua analisi, filtra le percezioni probabilmente confuse e approssimative di Belluca. Una volta entrato in scena, a metà circa della novella, egli dapprima descrive dal suo punto di vista la vita di Belluca, poi si fa interprete e portavoce della sua esperienza. Belluca non prende direttamente la parola, tuttavia il lettore riesce a immedesimarsi in lui grazie al passaggio quasi impercettibile dal punto di vista del narratore a quello del personaggio, che emerge nella parte finale della novella, interamente costruita con la tecnica del discorso indiretto libero.
Anche la figura del narratore subisce una metamorfosi, che si spiega solo con quella “teatralizzazione della narrativa” di cui s’è detto: il narratore, che sparisce come narratore esterno per entrare egli stesso in scena come personaggio, porta con sé il trionfo della mímesis sulla díegesis, per usare la terminologia aristotelica ripresa da Genette: in altri termini, trascina il racconto verso il teatro (la principale differenza strutturale tra teatro e racconto – ricordo – è il fatto che nel primo caso gli avvenimenti sono rappresentati direttamente davanti al pubblico da attori, nel secondo caso sono raccontati da un narratore). Dall’analisi testuale dunque emerge che in questa novella proprio una delle strutture basilari, fondanti, di un testo narrativo, la voce narrante, subisce un trattamento “teatrale”: tale dato conferma ulteriormente una caratteristica fondamentale della produzione pirandelliana e quindi rinforza il discorso critico, agganciandolo appunto alla concretezza di un testo.

In sintesi: la novella suscita interesse nel lettore sia per la singolarità del contenuto (segnalata fin dall’enigmatico titolo, ripetuto in chiusura del racconto), sia per la strategia della narrazione stessa: in particolare per la metamorfosi della voce narrante, che dapprima sembra appartenere ad un narratore esterno, mentre si rivela in seguito essere quella di un personaggio-testimone incluso nella vicenda, il quale guida il lettore attraverso i fatti, argomentandone le cause e commentandone gli sviluppi.
Dicevo del titolo: esso anticipa l’evento occasionale che scatena la ‘pazzia’ di Belluca, senza che per altro nulla trapeli del suo significato: tale preliminare attesa di senso contribuisce a tenere sospesa fino alla fine l’attenzione del lettore. La curiosità accesa da una frase che, in quanto titolo, è fuori da un contesto che la spieghi, è sollecitata e tenuta viva dalla ripresa ricorrente (in tre punti) del tema del “fischio del treno” lungo la novella: solo la terza volta, nell’ultima sequenza, il senso del titolo diviene finalmente chiaro.

Per quanto riguarda la strategia della narrazione, il procedimento è quello del recupero “retrogrado” di quanto è accaduto e delle sue cause. L’attacco in medias res che abbiamo rilevato ci immette infatti in mezzo al caos delle congetture post factum, cioè dopo che un fatto strano e clamoroso, però ancora sconosciuto al lettore, è già avvenuto; con l’avvertenza che, a saper bene le cose, potrebbe esserci, di quel fatto, una spiegazione naturalissima. Per gradi successivi si incominciano quindi a fornire informazioni indirette sull’indole e sul comportamento abituale del protagonista (secondo l’ottica parziale e riduttiva dei colleghi d’ufficio), e si racconta, in contrasto, il suo strano contegno del giorno prima, le sue spiegazioni incomprensibili, le reazioni del capufficio, il ricovero forzato in manicomio. Siamo alla fine della seconda sequenza: si è compiuto un primo percorso all’indietro nella vicenda, e il lettore ha una prima informazione retrospettiva sui fatti.
La terza e la quarta sequenza risultano essere, insieme, un momento di transizione tra il primo percorso ricognitivo e il seguente. La terza sequenza contrappone il punto di vista dei colleghi di Belluca (che non sanno) a quello del narratore, che invece sa come il Belluca ha vissuto fino a quel momento e che, grazie a questa conoscenza, può capire e giustificare quello che per gli altri è stravaganza, follia. La quarta sequenza è per così dire una pausa meditativa: estremamente significativa è l’implicita similitudine tra l’improvvisa esplosione di Belluca e la coda del mostro, che sembra mostruosa solo a chi la considera di per sé, avulsa dal contesto cui appartiene – mentre risulta una coda naturalissima se la si connette con il mostro che la possiede.
E arriviamo al secondo flash-back, in cui il narratore illustra il tragico squallore esistenziale del protagonista; quindi il narratore compie un salto temporale in avanti (tramite un’ellissi) e, anziché mostrarci in atto il colloquio con Belluca al manicomio, ne riferisce ad incontro già avvenuto, chiarendo infine, in un ultimo flash-back, che cosa sia successo due notti prima a Belluca, quale straordinario significato abbia avuto per lui il fischio del treno.
Sembrerebbe possibile, pertanto, rintracciare nella struttura della novella un ritmo ternario: le sei sequenze sono raggruppabili in tre blocchi di due, tre sono i flash-back che progressivamente soddisfano la curiosità del lettore, tre sono le ricorrenze del motivo del “fischio del treno” (e di altre parole-chiave), così come la vicenda del protagonista si può scandire in tre tempi: un prima (negativo, opprimente), un evento (liberatorio) e un poi (positivo??). Tale ritmo è però – se così posso dire – turbato, impuro, imperfetto, in quanto disturbato dall’interferenza di strutture binarie, quali l’opposizione tra i due punti di vista che prevalgono nel racconto, quello dei colleghi di Belluca e quello del personaggio-narratore, o l’opposizione degli spazi di cui s’è parlato; ma soprattutto la simmetria ternaria sembra vacillare in relazione al protagonista, spezzarsi proprio per quanto riguarda il terzo momento della sua vicenda, il poi. Vediamo in che senso. Per questa ricognizione ho utilizzato (fino ad un certo punto) il commento di Briganti nell’antologia pirandelliana Dalle novelle al teatro, edita da Bruno Mondadori nel 1990: non mi sembrano però condivisibili le conclusioni ‘ottimistiche’ a cui egli giunge.
Scrive Briganti: «La situazione iniziale di Belluca è quella di un sepolto vivo nella prigione della routine quotidiana. L’abbruttente lavoro d’ufficio, il lavoro extra a casa per arrotondare lo stipendio, la sciagurata e spropositata famiglia da mantenere: questi i confini della sua prigione, un vero inferno casalingo senza possibilità di riscatto. La condizione del protagonista è disumana, quasi bestiale, è come un asino con tanto di paraocchi – come sottolineano le definizioni dei colleghi nella seconda sequenza (vecchio somaro che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi), o la similitudine del narratore nella sesta sequenza (come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una noria o d’un molino). Ecco però, ad infrangere la schiavitù del dovere servile e la catena dell’abbruttimento, la folgorazione improvvisa, l’avventura dell’immaginazione: l’occasionale fischio del treno nella notte apre per un attimo uno spiraglio nella sua prigione, ed egli può riconoscere l’esistenza di quel mondo esterno (con tutto il corredo di emozioni, sensazioni, distrazioni) che sembrava del tutto sparito intorno a lui, o addirittura mai esistito. Il fischio del treno è dunque il varco improvviso, lo squarcio mentale per l’epifania del mondo esterno, sparito da tempo immemorabile dalla vista di Belluca. La repentinità del processo provoca in lui un’alterazione evidente e determina un comportamento scambiato per pazzia». Fin qui si può concordare con l’interpretazione del Briganti. Il quale però continua: «Sedimentata la prima sconvolgente esperienza, egli, tornato in sé, potrà anche riprendere il proprio posto di lavoro: rientrerà cioè nella società da cui in un primo momento si era “alienato”. E tuttavia il suo ritorno sarà quello di un uomo “nuovo”: la libertà di “visione” appena assaporata, una volta acquisita e assestata, gli permetterà di ri-assumere il proprio ruolo con una nuova autonomia di pensiero e con piena dignità d’individuo consapevole, non più disposto a subire pazientemente i soprusi e lo scherno dei superiori e dei colleghi; forse, più in generale, non più disposto ad arrendersi incondizionatamente allo squallore della propria esistenza. Belluca si riappropria della libertà del mondo esterno, della capacità creativa e poetica della parola, della propria identità e dignità. L’epifania del mondo esterno attraverso un’avventura mentale, oltre a poter costituire in futuro per il protagonista una valvola di sfogo dell’immaginazione repressa e della libertà negata, significa anche una riassunzione della personalità perduta, un recupero d’identità; si risolve infine anche nella postulazione di nuovi rapporti con gli individui e con le istituzioni del mondo reale e quotidiano».
Questo giudizio critico si può ovviamente discutere con i ragazzi, problematizzandolo: la ‘pazzia’ di Belluca è davvero riducibile ad una sorta di ubriacatura di libertà, che il personaggio può comunque tenere sotto controllo ed utilizzare al bisogno, quasi come un farmaco, per consolarsi? O è una deriva, un viaggio senza ritorno, una fuga da una realtà insostenibile, che non offre però un’alternativa vitale valida? Ovviamente, la risposta ce la dà il testo.

La risposta positiva, ottimistica, è quella che si dà lo stesso Belluca, nella conclusione della novella che è affidata esclusivamente alla voce del personaggio, al suo punto di vista: ma il lettore non deve prendere per oro colato la speranza che lui esprime, di poter tenere sotto controllo la pazzia ed usarla come una valvola di sfogo – soprattutto, non deve ritenere che questa sia anche l’opinione di Pirandello! Un lettore ingenuo cade inevitabilmente in questo ‘tranello’: l’abitudine all’analisi testuale dovrebbe invece consentire di evitare simili semplicistiche identificazioni. Se dunque la distinzione dei punti di vista ci impone come minimo di sospendere il giudizio sulla funzione positiva o meno della pazzia nella novella di Belluca, una risposta al dilemma possiamo trovarla leggendo altri testi di Pirandello, quali la novella Fuga e il dramma Enrico IV.
A questo punto è facile concludere, con E. Gioanola, Pirandello la follia, che la pazzia in Pirandello è sempre una falsa soluzione, una strada di libertà solo apparente che in realtà conduce al nulla, e non c’è ragione perché Il treno ha fischiato faccia eccezione (del resto, si noti che l’ultima sequenza della novella è ambientata in manicomio: anche questo è significativo!). Non c’è via di fuga praticabile, nell’universo pirandelliano, non c’è scampo dalla condanna all’inesistenza: se la vita quotidiana con i suoi ruoli, le sue maschere, le sue costrizioni coarta l’individuo, i tentativi di liberarsene sono destinati al fallimento, perché dietro la maschera non c’è un volto, ma il vuoto. La follia in Pirandello è semmai sentita come una minaccia sempre incombente, l’estremo pericolo di disgregazione totale di un io già debole, diviso: è un’ossessione da cui e contro cui nasce il miracolo della scrittura, dell’arte.

Spero di essere riuscita a dimostrare che potente strumentazione sia quella dell’analisi testuale, e come, a saperli leggere, i testi ci possano dire – e dare – tantissimo. Di fronte a qualunque testo, anche in sede d’esame, bisogna a leggerlo una volta, poi rileggerlo, ‘smontarlo’, cercare le parole-chiave, le immagini – non potrà non scoccare una scintilla, uno spunto per l’interpretazione d’insieme… Anche nel commento ai testi vale quello che dice Seneca, Ad Lucilium 64, 7-8: «Resta ancor molto da fare, e molto ne resterà. Anche dopo mille secoli, a nessuno sarà precluso di aggiungere qualcosa».

(nell’immagine, il logo del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani)