Esce la biografia di Giacomo Oddero, uno tra i personaggi più influenti per lo sviluppo della Provincia di Cuneo, redatta da Attilio Ianniello.
SERGIO SOAVE
Prefazione
Della classe dirigente che ha valicato il fascismo, partecipato alla ricostruzione e governato la provincia di Cuneo nel successivo cinquantennio repubblicano, Giacomo Oddero è indubbiamente un protagonista di prima grandezza. E questo denso libretto che ci racconta la sua vita, le sue opere, le sue idee è e rimarrà come punto di riferimento ineludibile per chi voglia capire, oggi e domani, le ragioni di una storia che ha portato la provincia Granda a uno sviluppo imponente, senza tuttavia disperdere caratteri specifici che continuano a farne un unicum nel panorama dell’Italia contemporanea.
Insieme a Attilio Ianniello, che ne ricostruisce accuratamente lo sfondo storico e politico, Giacomo Oddero intreccia un colloquio piano, facile, emotivamente coinvolgente che, senza indugiare nella nostalgia (ma la musicalità poetica della nostalgia si sente in tanti suoi ricordi personali), ci spiega sia i difficili tornanti della grande storia del suo tempo, sia il suo modo di esserci, di dare il suo contributo, di guardare le cose con un “realismo ispirato” e cioè , da un lato, con i piedi ben piantati nella tradizione della sua terra e, dall’altro, con un spirito innovativo nutrito di buone letture e dall’incontro personale e fecondo con grandi maestri, come don Bussi, come Chiodi e Cocito o come il poco più adulto Fenoglio e altri ancora.
Così la storia del bambinetto che fa tutti i giorni sei kilometri a piedi per andare a scuola e istruirsi sul mondo, diventa un poco la metafora della sua vita.
Perché di là è partito Oddero. Da un albese povero che cedeva ogni anno migliaia di braccia alla emigrazione, infinitamente lontano dall’Eldorado di oggi. Perché attorno alla famiglia di un contadino “benestante”, come lui la definisce i primi giorni del ginnasio, per non sfigurare vicino ai figli di colonnelli e professionisti dell’élite albese, suoi compagni di classe, c’era la malora vera e i patimenti e le sofferenze di una gente che non ce la faceva più a campare.
Lui, di per sé, poteva starsene lì tranquillo, a governare l’azienda di famiglia e farsi, come tanti, i suoi affari che sarebbero stati buoni. E invece no.
E, una volta presa la laurea in farmacia, a Torino, poteva fare tranquillamente il farmacista, professione invidiabile per il reddito che di norma assicura. E invece no.
E invece incomincia a fantasticare con il suo socio, lui democristiano convinto, l’altro, il dott. De Giacomi, altrettanto convinto liberale, sul futuro della società e sulle responsabilità civili degli uomini del suo tempo. E, a sentire, sono discussioni epiche (cui si affacciano Pinot Gallizio e Paganelli e altri, in una sorta di cenacolo di cui, in Alba, si favoleggia), mentre le mogli di entrambi fanno andare avanti farmacia e famiglia e quante volte devono aver detto loro benevolmente, vedendoli immersi in discussioni politiche: “Sah, toglietevi dai piedi e andate a fantasticare da un’altra parte”.
Così, tutto diventa, pianamente e naturalmente consequenziale. Magari con qualche scarto rispetto al suo partito, la DC, contro la cui lista è costretto a presentarsi, al tempo del suo esordio pubblico, per diventare giovane sindaco di La Morra, sospinto dalla pressione degli abitanti del paese che a lui si rivolgono non perché fosse un notabile, ma perché s’era impegnato per far avere l’acqua al paese della grande sete, mettendo le basi alla risoluzione di un problema annoso, che sarebbe stato poi affrontato definitivamente con l’Acquedotto delle Langhe.
E in questo scarto, tuttavia, non c’è la compiaciuta solitudine del ribelle, ma una convinzione che si fa magistero e già un indizio fondamentale del carattere dell’uomo e di quella che diventerà una sua permanente attitudine: prima i problemi, poi i colori della bandiera. Se un partito fa il contrario, pazienza. Se non si è radicati nell’animo, nei bisogni, nelle tensioni e nelle ambizioni di una gente non si va lontano.
Con questo bagaglio iniziale lui, Giacomo Oddero sarebbe andato lontano, ma sempre a quel modo.
Risolto il problema dell’acqua, c’era quello del vino, cioè di una viticoltura da proteggere, di vini pregiati da promuovere come il Nebbiolo, il Barolo o il Barbaresco. Infinite discussioni ideologiche avevano diviso (sempre en amitié) De Giacomi e Oddero. Ma la nuova causa li unì, insieme al più giovane e nuovo sindaco di Alba, Ettore Paganelli, agli inizi di una grande carriera. Forme a torto considerate folkloristiche (L’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba) si unirono a convegni di esperti e di legislatori. Arrivarono leggi sagge e protettive che misero le ali al grande business del vino delle terre albesi. E, insieme, arrivò l’intuizione-invenzione-mito del tartufo. Dico invenzione perché i trifulau non c’erano solo nell’albese (nelle terre dei miei nonni dell’alto monferrato, in tanti allevavano “i can da trifula” e si facevano la stagione), ma quando gli albesi inventarono la fiera e la leggenda del tartufo, sembrava che i tartufi bianchi nascessero solo lì. Gli altri guardarono prima sospettosi e irritati, poi capirono e inseguirono. Ma era tardi: ormai il mito aveva attecchito e aveva trovato eco ben oltre i confini regionali e nazionali.
Con il vento in poppa dell’altro incredibile motore albese, la Nutella, e lo sviluppo di altre grandi fabbriche come la Miroglio, Alba aveva spiccato definitivamente il volo.
E il resto della provincia si accorse che quelli di Alba avevano un marcia in più.
Le leggende sulla loro furbizia commerciale, sulla loro innata capacità di impresa fiorirono copiose, ma imitarli era difficile. Non erano solo quelli con cui non bisognava giocare a carte, se no ti mangiavano la cascina o i pochi soldi che avevi. Erano quelli che ci mettevano un impegno speciale a intraprendere, a non arrendersi davanti a niente, a dimostrare che si può sempre andare avanti.
Così, a livello politico, fu giocoforza per la DC, trionfante nella estesa Provincia, ma anche tentata di sedersi sugli allori, decidere che fare con questo dinamico farmacista di Alba che una ne pensava e dieci ne inventava. Mandarlo a Roma? Ma lui non voleva. Voleva stare sul suo territorio, dove aveva applicato così bene le regole di una politica sana: capire i problemi che la realtà ti pone e cercare di risolverli. Quello sapeva fare. Il resto gli interessava poco. Allora decisero di sfidarlo sul suo terreno. Che replicasse per tutti, come assessore provinciale all’agricoltura, quello che aveva fatto per Alba! Questa era la sottintesa ragione della sua nomina. E Oddero non si tirò indietro e replicò. Dopo tutto, ora Alba era ben presidiata da Sobrero; e Paganelli la rappresentava in Regione dove pure ci volevano buone sponde per proseguire.
Il suo sguardo si allargò allora, dall’albese alle questioni di una economia provinciale più complessa che conosceva sì, uno sviluppo tumultuoso, ma che vedeva moltiplicati i problemi, nel passaggio dalle vecchie tradizioni colturali, tutto sommato fungibili per un equilibrio interno, alle sfide di un mercato che travolgeva antiche regole, tradizioni, costumi e provocava anche zone di sottosviluppo e di crescente disagio.
A un certo punto scoppia la crisi degli allevamenti bovini a causa di importazioni aggressive e in parte sleali? E allora avanti, ad affrontarla con la lungimirante visione di stalle da risanare, di razze da tutelare, di fiere per dimostrare la nostra qualità, di rapporti con Roma, per ottenere leggi adeguate.
Si crea lo spopolamento delle montagne? E allora avanti con l’Istituto piante da legno, con il piano dei rimboschimenti e delle riqualificazioni, con il tentativo di fare della montagna una risorsa preziosa, anziché un doloroso rimpianto economico e sociale. E avanti anche con la valorizzazione dei formaggi tipici che in ogni vallata hanno un gusto e profumo diverso e speciale.
C’è una pianura fertile, ma in crisi colturale? E allora avanti con la Fiera della meccanizzazione agricola saviglianese, diventata poi di rilevanza nazionale, o con la promozione del settore ortofrutticolo braidese.
Manca ancora, nella vasta Langa e nel Roero, l’acqua che lui aveva portato a La Morra e Verduno con i suoi consorzi? E allora avanti, e finalmente, con la più grande avventura dell’Acquedotto delle Langhe, un disegno quasi impossibile di portar l’acqua da Limone e Vernante fin nei più remoti campi delle colline; un disegno che con lui si attuò dopo anni di indugi, difficoltà, tentennamenti.
Sicché, quando un vecchio di Camerana, che lo aveva guardato sospettoso tutte le volte che prometteva l’acqua e ora gli andò incontro felice per dirgli con le lacrime agli occhi: «Io nella mia vita non ho mai visto tanta acqua così», anche a lui viene voglia di piangere di commozione. E ci ripensa, mentre ritorna a casa, a sua volta felice, dicendosi: “Questo era per me fare politica”.
Quella sequela: bisogni del territorio, volontà di sviluppo, contatto con la gente, sarebbe stata del resto la base di altri suoi incarichi, primo fra tutti quello di presidente della Camera di Commercio, prima provinciale e poi regionale, ruolo che gli permette di completare il lavoro e di far conoscere, anche attraverso avventurosi viaggi all’estero e oltreoceano (che racconta con gusto particolare), i nostri prodotti e la nostra terra. Intanto in Provincia, il timone sicuro di Giovanni Quaglia segue l’identica rotta con le stesse convinzioni, mentre sta crescendo vicino a lui quel Ferruccio Dardanello che dalla Camera di commercio di Cuneo salirà fino alla presidenza di Union Camere nazionale.
Infine, c’è l’impegno forse più arduo, quello di prendere in carica la fondazione della Cassa di risparmio di Cuneo, nel momento di un trapasso di norme delicato e difficile per tutti.
E anche qui, il banchiere vignaiolo, compie da par suo un’operazione di sistema tra le più delicate.
Le aggregazioni richieste sembrano infatti metterlo in conflitto con il principio cardine della sua azione e cioè l’amore per il territorio, anche perché un primo tentativo di coinvolgere le altre Casse di risparmio della provincia non va a buon fine. E allora? Se si cercano partner fuori provincia o regione non si rischia di prendere soldi, ma di perdere l’anima di una secolare e feconda storia?
Oddero non vuol perdere né gli uni, né l’altra e l’aggregazione con forti istituti lombardi, mantenendo salda la maggioranza delle azioni, spinge Cuneo su una ribalta nazionale, permettendo alla Fondazione, fattasi assai più ricca di patrimonio e dotazioni, di incidere più di prima nello sviluppo complessivo (cultura, solidarietà, sviluppo) della società cuneese.
Così il cerchio si chiude.
Ora, il banchiere, assessore provinciale, sindaco e pluripresidente è a riposo e, come è giusto che sia, ci racconta la storia qui sommariamente tratteggiata.
Cita sempre tutti i compagni di avventura, perché sa che quella trascorsa è la storia di un gruppo di uomini ispirati da identici obiettivi e non di singoli che si beano dell’acuto. E fa bene, perché così è. Sono infatti uscite in questi anni altre biografie di quello squadrone democristiano che non ebbe rivali nel governo della provincia per un cinquantennio. Abbiamo così potuto leggere di Paganelli, di Zanoletti, di Carlotto, mentre continuiamo ad attendere qualcosa su Sarti (i famosi diari che lui spesso citava) o su Mazzola che pure ci ha lasciato le sue ipotesi sul caso Moro in un godibile romanzo allusivo.
Io ho vissuto quegli anni dall’altra parte della barricata, perché al mondo d’oggi, con la velocità incredibile dei continui mutamenti di prospettiva, c’è sempre qualcuno che resta schiacciato dal peso delle cose, che può subire ingiustizie, che può stare indietro.
Ma ricordo bene quando a Roma, negli anni ’80, volendo a mia volta interpretare i bisogni di un territorio che rappresentavo e interpellando dunque il governo su questa o quella questione, mi trovavo anticipato dalle interrogazioni di Carlotto, perché non c’era foglia che si muovesse in Provincia, senza che i mediani di centrocampo di quello squadrone non ne percepissero la minima vibrazione.
E però, il segreto della fortuna di quello squadrone, se si eccettuano i Sarti e Mazzola, subito proiettati sullo scenario nazionale, sta proprio nella “filosofia” di Oddero. Fu quella, a segnare per prima la strada.
Ed era una filosofia talmente forte da essere pervasiva anche oltre i confini del partito o delle coalizioni che la interpretarono. Sicché anche noi, che eravamo arrivati alla politica, partendo dall’ideologia cui la realtà avrebbe dovuto adattarsi, dovemmo fatalmente ribaltare il punto di partenza, se volevamo in qualche modo avere più largo ascolto nelle comunità nella quale ci trovavamo per sorte a vivere.
Facciamo un esempio e un nome: pensiamo a Carlin Petrini al suo “folle volo” che, grazie alle sue fulminanti intuizioni, ne ha fatto un personaggio del mondo, che può parlare alle Nazioni Unite o ricevere una telefonata del Papa. Un mito, insomma.
Ma quelle sue intuizioni sullo slow food, sulla qualità dei prodotti, sui presidi alimentari, sul recupero delle tradizioni e della storia della cultura contadina , avrebbero potuto partire da Bra, se non ci fosse stato il sedimento già consolidato di quel lavoro paziente oscuro e tenace degli Oddero e, nell’aria, come aleggiante, il senso di quella “filosofia”? Alla quale, di suo, Carlin avrebbe aggiunto poi (e qui l’ideologia poteva tornare in campo), la visione ecumenica di Terra madre e la sottolineatura del valore universale del recupero delle radici, come antidoto alla spersonalizzazione di un mondo omologato e dimentico della secolare e paziente fatica dell’intelligenza molteplice dei popoli.
E’ stato così? Chi lo sa? Ma quando ci penso, mi viene in mente come naturale risposta quella della metafora calcistica. Essere cioè quello che di straordinario è accaduto qui da noi, nella provincia veramente “granda”, un po’ come il gioco di una squadra che vince perché i suoi grandi goleadores, possono contare su un centrocampo di meno appariscenti, ma indispensabili costruttori di gioco; e cioè, nella fattispecie, sugli Oddero che segnano passaggi, traiettorie, percorsi.
E’ stato così? Chi lo sa? Non tocca ancora a noi dare risposte definitive.
Per ora godiamoci la lettura di questo libro che Giacomo Oddero ha voluto significativamente condire anche con la breve prefazione di un suo lontano competitore, come è stato il sottoscritto. E anche in questo non c’è solo cortesia, ma un tratto significativo della sua concezione della politica.
Perché noi non fummo mai nemici, ma competitori leali.
Ideologie distinte e modeste abitudini politiche, nonché tifoserie rancorose ci avrebbero voluti interpreti diversi del gioco di opposizione che è il sale della politica.
Abbiamo invece recitato un’altra parte in commedia: quella del rispetto reciproco, nella contesa. Un rispetto che non è mai mancato e che ci ha portato poi a costruire insieme, sul finire del secolo, nuove prospettive politiche basate sulla convergenza di valori che nutrivano le nostre parti, che abbiamo mantenuto nello spaesamento collettivo e che non vorremmo si perdessero.
Sicché proprio ora che, sospinto dalla morsa della crisi, il tempo della rabbia, dell’anatema, dello schiamazzo, del disprezzo tra uomini di diverse inclinazioni politiche sembra ridiventato costume ordinario, leggere queste pagine piane, armoniose ed intense può servire (è un’illusione?) a superare quell’intossicazione degli animi che, domani, potrebbe distruggerci.
Il libro è stato presentato ad Alba il 27 giugno, con la partecipazione di Attilio Ianniello, Sergio Soave, Armando Gambera,Claudio Puppione e Roberto Fiori. Un resoconto si trova qui.