Armonia

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GABRIELLA VERGARI.
Era la prima volta che si trovava a passeg¬giare quando tutto è quiete e solitudine e mai, prima di allora, aveva sentito così acutamente l’incanto del giorno nascente.
Nel silenzio del luogo, l’unica presenza di vita erano i gabbiani: volteggiavano con continui stridii a rendere omaggio al sole appena sorto, che li attendeva galleggiando, maestoso, sull’acqua del mare.
Al centro della baia, l’isoletta, con la sua pelliccia ricciolina — muschi, licheni ed erbette dalle cangianti tonalità di verde — sembrava l’ultima sentinella prima del campo aperto.
In lontananza, il nero profilo suggestivo di un castello diroccato narrava di fate e fanta¬smi, intrighi e tornei. In quante vi avevano patito l’attesa ed il distacco? sperato in un ri¬torno mai avvenuto? recitato l’eterna cantile¬na dell’addio, porgendo teneri pegni d’amore ad un cavaliere che partiva per luoghi e lidi lontani?

Mio Signore, tornate presto da me.
Dolce amica, non penate per me.

Anche lei era partita per luoghi e lidi lontani, ma priva di pegno d’amore ed il cuore le sanguinava di un vecchio e noto dolore che, pure, ogni volta, si rivelava diverso ed ignoto.

Mio Signore, che sarà di me?
Dolce amica, risposta non v’è:
muto sono ai vostri perché.
Mio Signore, restate con me.
Dolce amica, tradire il mio re?

I gabbiani volteggiavano ancora e si libra¬vano in cielo. Nel limpido azzurro di quel mat¬tino, si stagliavano, nitidi e decisi, i contorni delle villette vittoriane: vi si intuivano i suoni del risveglio. L’odore salmastro perforava le narici, ora con essenze aspre e selvagge, ora con fragranze dolci e delicate.

In mare già scendevano le prime imbarca¬zioni e i pescatori, in berretto di lana e stivaloni neri, si apprestavano a governarle con tecnica sapiente ed antica.

Non vi muove la mia pena?
Tessete e filate serena,
non sapete, mia ingenua?
Tutto passa, prima o poi…
Amaro il viver senza voi.
Tessete e filate, serena,
un di’ svanirà questa pena,
tutto passa, prima o poi…
Amaro il viver senza voi.
Tessete e filate, serena,
un dì svanirà questa pena,
tutto passa, prima o poi…

Anche lei aveva tessuto e filato, aspettato e filato, ma il cavaliere aveva mentito: la pena non era svanita.

Tornò ai gabbiani.
Indifferenti e sovrani, dipingevano volute armoniose e studiate, o si tuffavano nel grigio liquido delle onde nordiche per pascersi, crudeli, di pesciolini che inghiottivano ancora stillanti di mare.
I più pigri si stancavano presto ed atterravano, sicuri, vicino ai compagni, per godere del sole.
Rimase a lungo ad osservarli.
Ad un tratto, non sentì più il dolore: la pena si sopì e stemperò in un inatteso e pro¬fondo senso di pace; dai recessi più insondati del suo essere promanò un’energia benefica che, quasi inopinatamente, le regalò una forza imprevista e mai prima provata.
La solitudine non fece più male: divenne composto e consapevole orgoglio.
Di nuovo indugiò ad osservare i gabbiani.
Poi, alzò gli occhi al cielo in un muto Te deum per l’armonia del creato.

 

Da: “Sirene, Chimere ed altri animali”, Solfanelli (Ch), 1993