GABRIELLA VERGARI.
In una celeberrima sequenza della sua Nascita della tragedia greca (Leipzig, 1872), Nietzsche fa che Sileno, il pedagogo di Dioniso, risponda alla domanda del re Mida, su quale sia la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo, con una rivelazione terribile e spiazzante.
Rigido e immobile il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “ Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire?” […] “ Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.”
Non so se, a fronte d’un responso di tal fatta, possa risultare consolante la constatazione che l’episodio abbia poi indotto, l’allora giovanissimo filosofo, alla sua mirabile contrapposizione tra “apollineo” e “dionisiaco”, così come al complesso della sua riflessione sulla “saggezza popolare greca” e la “potenza artistica eterna e originaria, che suscita in genere, all’esistenza, tutta l’apparenza…”. Né so se, al momento di ideare il suo Nel guscio (Nutshell, 2016; tr. it., 2017), lo scrittore inglese Ian McEwan tutto ciò se lo sia sentito risuonare, da qualche parte, di dentro.
Certo si è che, all’ universo della tragedia, questo straordinario (proprio nell’accezione etimologica del termine) romanzo resta vincolato fin dalle premesse che gli danno vita e che – credo per la prima volta nel panorama dei Mondi Paralleli Letterari – gli ispirano un protagonista ancora non-nato, parente strettissimo di Oreste e Amleto, giusto così per citarne un paio.
Fugando ogni dubbio, la quarta di copertina rimanda anzi esplicitamente allo shakespeariano Principe del Dubbio, colto nel momento in cui proclama: “Potrei essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito – se non fosse la compagnia di brutti sogni”.
E di brutti sogni, lo speciale io narrante di questa particolarissima proposta narrativa non ha davvero che l’imbarazzo della scelta.
Per le sette si addormentano. Loro; io no. I miei pensieri girano insieme al mondo di mia madre. Il rifiuto da parte di mio padre, il possibile destino che l’aspetta, la mia responsabilità nel suo avverarsi, e infine il mio destino stesso, la mia incapacità di metterlo in guardia come pure di agire.
Diremmo di trovarci nel cuore stesso di un’Elsinora uterina, se non fosse che il non-nato protagonista, novello erede della lezione di Sileno, subito dopo prosegue con uno dei suoi non rari momenti di sconforto: Non vedo alcun sistema, nessun percorso che possa condurre a una qualsiasi felicità. Non voglio nascere, mai.
E dunque il cerchio potrebbe così chiudersi, senza troppi drammi né patemi ( Nascere morti – pacato ossimoro di una tragedia – ha un suo fascino austero.), se annientare il cervello non coincidesse con l’annientamento della volontà di annientarlo.
Non appena comincio a spegnermi i pugni si allentano e la vita ritorna […] Non sono i parchi a tema Paradiso e Inferno a terrorizzarmi di più – né le giostre celesti né le bolge infernali – e potrei anche vivere nell’insulto dell’oblio eterno. Non mi dispiace neppure non sapere quale mi toccherà. Quello che mi dispiace è perdermi qualcosa. Che si tratti di un sano desiderio o di mera ingordigia, prima voglio la mia vita, quanto mi è dovuto, la mia infinitesimale fettina di eternità e una discreta opportunità di coscienza. Mi spetta qualche decennio per sfidare la sorte su un pianeta mulinante a ruota libera. Ḕ questo il mio giro in giostra – il Muro della Vita. Voglio la mia corsa. Voglio diventare.
Conscia o inconscia che sia, come non sentire, pure qui piena, la consonanza con quanto affermato da Nietzsche: “Dire di sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più aspri […] per essere noi stessi, al di là del terrore e della compassione, l’eterno piacere del divenire – quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento.” (cfr. Crepuscolo degli idoli. Come fare filosofia col martello, 1888, passim.)
Se dunque, per il filosofo tedesco, la tragedia diviene istanza contraria al pessimismo, straripante senso di vita e di forza, all’interno del quale persino il dolore agisce come uno stimolante (cfr. Crepuscolo, cit.), a maggior ragione la vita stessa, pur se filtrata attraverso liquido amniotico, placenta e cordone ombelicale si traduce, per il non-nato di McEwan, in un campo privilegiato di scoperta e indagine, di continua sollecitazione e curiosità, perfino di piacere edonistico e sensoriale.
Una raccolta di sogni, con qualche tocco di orrore. Ma sarà anche di certo una storia d’amore, e un racconto epico pieno di invenzioni geniali […] E poi entrino in scena le intramontabili meraviglie del genere umano: il sesso e l’arte, il vino e la scienza, le cattedrali, il paesaggio, la ricerca di un senso più elevato. E infine, l’oceano dei desideri personali, come i miei: piedi nudi su una spiaggia davanti al fuoco, pesce alla griglia, succo di limone, musica, la compagnia di amici, qualcuno che mi ama […] Il libro che mi spetta per diritto di nascita.
Un “libro” peraltro complesso nella sua imprevedibilità, e per di più caratterizzato da una delle verità più limitanti: che è sempre e solo adesso, sempre e solo qui, e mai né là né dopo.
Ma, come ben ci rammentano, non solo l’insostituibile, fondamentale siepe del L’Infinito leopardiano, ma pure le molteplici, fertili declinazioni dell’antichissimo topos de Lo Stare nel Ventre di un Grande Pesce, quale capitale momento liminare di riflessione e crescita interiore, sono forse proprio le dimensioni e gli spazi ristretti a dare i risultati più originali e interessanti.
Vivere confinati in un guscio di noce, vedere il mondo in due pollici di avorio, in un granello di sabbia. Perché no, quando la letteratura tutta, e l’arte, e ogni impresa umana altro non sono che puntini nell’universo del possibile? Quando l’universo stesso potrebbe rivelarsi un puntino in una moltitudine di universi reali e possibili?
Un puntino, questo di McEwan, che intriga e coinvolge ad ogni nuova sequenza passando, con estrema maestria e abilità narrativa, oltre che da un genere letterario all’altro – il thriller in prima battuta, come di rigore –, da un piano prospettico all’altro, senza mai perdere di intensità e livello, ma senza neppure far eccessivamente pesare l’arditezza della proposta.
Da leggere, assolutamente, se non altro per scoprire se un nuovo Oreste o un nuovo Amleto possano una volta ancora ritrovare un proprio senso, nel caos dell’attuale post-modernità.