FELICE BACCHIARELLO
La Russia
Così man mano che si procedeva, si accendeva maggiormente in noi il più grande dispetto non dissimulato verso i “nostri alleati” perché dimostravano chiaraente di essere non dei guerrieri, come nella nostra propaganda ci venivano dipinti, dei civilizzatori, ma dei vili assassini nei cui cuori non albergava il benché minimo sentimento umano.
Uomini non se ne vedevano più, mentre non mancavano le donne, le quali spinte dall’incredibile fame, si andavano offendo di vagone in vagone per un pezzo di pane e, con loro grande soddisfazione, trovavano ugualmente il pezzo di pane onde sfamarsi, donato disinteressatamente.
Chi abbia visto tante miserie diventa come il chirurgo dinanzi ai suoi malati, che sembra insensibile, indifferente al male, ma in effetti non lo è, anzi comprende meglio di ogni altro il dolore e la meraviglia, solo che non si meraviglia di nulla, poiché pensa che ad ogni male ve n’è uno maggiore.
Si raggiunse Kiev e le altre città, si attraversò la Russia bianca (Bielo Russia) attraversando le immense pianure sulle quali l’occhio spazia come sul mare, senza incontrare ostacolo alcuno, tranne i famosi mulini a vento, fino ad andarsi a perdere nel cielo. La nostra tradotta viaggiò anche notti senza una sola tappa; si dava il caso di non incontrare una stazione magari per 300 o 400 chilometri di ferrovia.
Capitava spesso, o quasi di continuo, di vedere per chilometri e chilometri, centinaia e centinaia di vagoni ribaltati lungo le scarpate della ferrovia, binari divelti, locomotive sfracellate. Quanta povera gente avrà trovato la morte in simili sfaceli!
A migliaia si vedevano uomini e donne costretti al lavoro continuo e forzato sulla ferrovia, lavoro accresciuto da fatto che, essendo le ferrovie russe con binario di 10 centimetri più largo della misura internazionale, per potervi far scorrere i nostri treni era stato indispensabile ridurre tale distanza; operazione ripetuta poi più volte, a seconda del succedersi delle operazioni di occupazione.
Durante il viaggio verso la Russia le operazioni del Caucaso, ove pareva noi dovessimo essere trasportati, sembrarono tanto in favore dei tedeschi che fu ritenuto opportuno noi dover proseguire per altra destinazione, per cui fu deviato il viaggio e fummo scaricati come un gregge sperduto nell’immensa steppa, in attesa degli accordi finali tra il comando tedesco e italiano sul nostro impiego. Così avvenne che noi, mai lasciati in pianura per timore che l’aria fosse troppo pesante, addestrati per anni e anni alla guerra in montagna, fummo destinati alla guerra nella più grande pianura d’Europa, testimone di ecatombe senza precedente.
La zona d’impiego assegnataci era l’ansa del Don; noi eravamo stati scaricati appena oltrepassato il Donez, in quella località dove avvennero le famose battaglie di Izium (città questa di cui si vedeva ancora poco più della superficie occupata), perciò alla bellezza di circa 800 chilometri dalla meta, che dovemmo raggiungere a piedi dopo estenuanti marce attraverso le pianure steppose, in mezzo a nuvole di polvere che la colonna sollevava in cielo, la quale posandosi poi sui nostri volti bagnati di sudore ci rendeva irriconoscibili gli uni agli altri. Fu un susseguirsi di marce per trenta giorni, cioè fino alla terza decade di settembre in mezzo ad ogni sorta di imprecazioni e di disagi; arrivammo sul Don sfiniti, demoralizzati e avviliti più dei prigionieri russi che incontravamo nelle nostre retro linee. Così si portavano le truppe in linea e da esse si volevano poi miracoli di valore, quantunque, nonostante la irrisoria attrezzatura, troppo si sia fatto.
È indescrivibile l’impressione di immensità e nullità che si prova in mezzo a quelle sterminate pianure senza alberatura, all’infuori di poche macchie di magari 50 chilometri quadrati di superficie, a distanze esagerate l’una dall’altra. Un po’ più intense sono le arborature lungo le rive del Don: pino e quercia.
Dopo due soli giorni dall’arrivo nelle vicinanze delle linee occupate da pochi e pigri Tedeschi, una sera verso fine settembre, al chiaro di luna accompagnati da pochi tedeschi indicatori, cui si dava il cambio, si prese posto nelle postazioni (che materialmente non esistevano, poiché per i Tedeschi il lavoro era fatica, e che dovemmo perciò scavare tutte noi nottetempo) proprio in riva al Don, placido tanto che dopo parecchio tempo di permanenza sulla sua sponda non sapevo ancora in quale direzione scorresse . Orizzonte perduto.
Nuovi del posto, ci pareva ad ogni passo che si procedeva di dovere vedere spuntare dal mezzo di ogni sterpaglia un soldato russo, due, cento.
Non intendo descrivere le operazioni belliche sul Don, riguardanti l’Armir, per far la qual cosa occorrerebbe il relatore stesso dell’armata con tutti i relativi documenti e non il sottoscritto, e non basterebbero volumi interi, perché nonostante tutta la capacità di un buon scrittore qualcosa rimarrebbe di incompleto, molti particolari rimarrebbero sconosciuti visto che non sarebbe possibile raccogliere e descrivere l’odissea di ogni uomo, avendo ognuno vissuto particolari sventure e sacrifici inenarrabili.
Il mattino seguente, all’arrivo in postazione, la curiosità di ognuno fu quella di far capolino da qualche punto che offrisse una discreta visuale, senza essere visto, per osservare il famoso Don, placido e navigabile, che serviva da linea divisoria tra due forze nemiche. Per il momento regnava la quasi assoluta calma nelle linee nemiche, allora, dal nostro canto, si approfittò di tale fatto per scavare postazioni, ripari, camminamenti e bunker sia per la difesa dal nemico sia per ripararci dal freddo previsto per la stagione invernale che si avvicinava.
Causa la località scoperta, senza nemmeno una pianta, ci toccava lavorare tutta la notte a costruire postazioni per le armi automatiche nei posti più avanzati, nei quali di giorno non si sarebbe potuto lavorare senza essere fatti segno al fuoco nemico, che peraltro non si evitava completamente nemmeno di notte.
Di giorno, poi, si lavorava alla costruzione dei bunker che dovevano servire per alloggiarci: fosse delle dimensioni di una camera normale, talvolta anche grandissime e comunicanti le une con le altre a mezzo di corridoi pure sotterranei, le quali erano capaci persino di contenere 50 uomini, a seconda anche della profondità, venivano poi ricoperti con lunghi travi di quercia portati talvolta da distanze enormi, uno strato di paglia e sopra, a formare la cupola, tutta la terra fuoriuscita dalla escavazione e dalla fossa.
Il bunker era l’unico mezzo per ripararci dal freddo intenso, perché è risaputo che sotto terra il freddo non penetra così facilmente. Uno stretto corridoio discendente introduceva in questi nostri improvvisati alloggi (vere tane da lupo) resi abitabili e talvolta persino graditi dalla buona volontà nostra, tanto da arrivare persino a fornirli di finestre con tanto di vetri (asportati dalle isbe dei circostanti paesi evacuati), nonché di stufe in mattoni, per costruire le quali volonterosi alpini si recarono a più riprese, con muli, a raccogliere mattoni presso i ruderi di una chiesa, unico fabbricato in muratura nei dintorni, distrutta dal furore bolscevico, in un paese a circa 25 chilometri distante da noi.
È incredibile come la necessità renda attivo l’uomo, capace di ogni sacrificio, anche il più impensato! Così spinti dalla necessità si trascorrevano i giorni, e si può dire che non si dormiva se non a qualche breve intervallo e furtivamente, interrompendo il lavoro di picco e pala per imbracciare il fucile e recarsi a fare il proprio turno di guardia nelle postazioni.
Ogni sacrificio, per essere completo, deve essere accompagnato da un altro, e così al lavoro, al sonno perduto, bisognava anche aggiungere (a disonore e spregio di chiunque ne sia stato il colpevole) ancora la fame, purtroppo. Scarsissimo, il vitto sarebbe stato per un uomo che avesse poltrito su di un giaciglio tutto il giorno; che si deve dire allora per dei giovani al di sotto dei trent’anni i quali, senza esagerazione alcuna, contavano al loro attivo non meno di venti ore di lavoro, diviso tra il servizio di guardia e la costruzione di camminamenti (che per tutto il periodo di permanenza sul fronte non ebbe mai tregua)?
(Continua)
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