GABRIELLA VERGARI.
Nessuno l’avrebbe mai detto.
Men che meno voi, seduti placidi al bar, davanti al vostro solito e solido mondo.
Un cappuccino, un caffè, una brioche e intanto scommettevate che non sarebbe mai potuto accadere. Che prima i fiumi avrebbero risalito le correnti come i salmoni in amore e la terra girato al contrario e la pioggia sarebbe ascesa al cielo per essere risucchiata dalle nuvole plumbee. No, e poi no, non sarebbe potuto accadere. Ne siete stati talmente sicuri che, ad un passo dal baratro, non avete provato nemmeno un’ombra, una lacrima, un ette di tensione. E il tempo vi è fluito leggero e regolare, allegramente scandito dall’orologio sopra il bancone, con le lancette monche ma obbedienti, pronte a scattare come soldatini ben addestrati.
Eppure io l’ho notato che la solfa stava per cambiare di nuovo. Che c’era qualcosa nell’aria. E qualche giorno fa ve l’ho pure detto. Ma voi, tranquilli a sghignazzare e a prendervi ancora una volta gioco di me, chiamandomi come al solito MCVC, la Madama Cassandra dei Vostri Coglioni.
E avete continuato. Nessun dubbio, nessuna incertezza, nessun allarme. Siete andati avanti, tra una brioche ed un caffè, convinti che tutto sarebbe rimasto come prima, nell’illusione che lo spirito del Quercia avrebbe continuato ad aleggiare, proteggendo noi e la sua creatura per sempre.
Una storia come mille, avevano commentato i compaesani, vedendo scendere dalle montagne al seguito dei reduci partigiani, quel ragazzone con le toppe al culo, cui la guerra non aveva lasciato altra scelta che diventare subito uomo, senza quasi nemmeno essersi affacciato all’adolescenza. Se ne erano inteneriti e lo avevano guardato con moto partecipe. Breve, perché allora urgeva la ricostruzione e non restava molto tempo per la conta dei morti e dei danni. Troppi comunque, anche se vi si fosse potuto procedere con tutto l’agio del mondo. Ma, come sappiamo benissimo, quella sua storia, il Quercia, l’aveva presto cambiata, altroché.
Fa’ anche tu come lui, ama quello che sceglierai e fallo con tutto te stesso. Quanti di noi non se lo sono sentito ripetere, fino alla nausea, da ragazzini? Le sue grandi mani callose divenute leggenda. Sembravano gli stivali delle sette leghe, mi raccontava il nonno, con un inusuale slancio ammirato. Sentiva il legno come una seconda pelle e gli cavava fuori l’anima mentre la sua pialla fischiava, fischiava, veloce come il vento.
Aveva cominciato così, senza pretese, in un laboratorio tanto piccino che nessuno si capacitava di come vi potesse entrare tutto intero, con i suoi tronchi, robusti e di prima scelta. Poi, pialla che ti pialla, aveva praticamente arredato le nuove case, che avevano iniziato a sorgere come funghi nella zona, prima quelle dei notabili e poi quelle dei meno abbienti. Solido, attivo, alacre, affidabile. Persino generoso. Se non potevi pagare sull’unghia, aspettava senza troppe storie che ti rimettessi in paglia. Ne aveva viste troppe, diceva, per dare ai soldi più valore di quello che avessero.
Ma che ve lo racconto a fare. Lo conosciamo tutti, questo eroe del paese, di cui vediamo ancora sporgere il ritratto, pomposamente incorniciato, dalle pareti degli uffici dell’Azienda, il glorioso Mobilificio La Quercia che per decenni è stato il nostro nume tutelare, dando da mangiare ai nostri padri, a noi, e perfino ai figli dei più fortunati. L’icona dell’Italia buona, fondata sul lavoro e sulla tempra di chi abbia avuto la forza di farsi da solo.
Sta lì, un po’ impettito e strizzato nella sua fascia tricolore di sindaco, accanto alla stampa del presidente italiano di turno e, una volta, al crocefisso, ma ora che siamo tutti globalizzati la fede, chi ce l’ha, se la tiene per sé, guai a farne sfoggio o ostentazione. Ad osservarlo bene, dietro agli incontestabili segni dell’orgoglio e della fatica gli si intuisce uno sguardo ancora leggermente spaesato, come se l’adolescente che non era mai riuscito ad essere rifacesse malgrado tutto capolino e rivendicasse le sue ragioni di stupore per il mondo.
Mah, chissà che ne penserebbe oggi, del mondo, che tutto intero e massiccio ci è letteralmente piovuto sulle spalle e, convinti di averlo saputo racchiudere nelle nuove scatolette virtuali insieme alla nostra vita, ce lo portiamo sia addosso che appresso, come una quercia poderosa, manco fossimo dei minuscoli Atlanti.
E che direbbe di quella sua voglia d’intraprendenza, ormai incapsulata in leggi, sigle europee e internazionali, coefficienti, Pon, indici e acronimi, nel sacro nome della produttività.
O di noi che, sballottati tra le pieghe della micro- e macro-storia, abbiamo via via lasciato che cambiamenti grevi e confusi trasformassero la sana cura artigianale, di cui ne La Quercia eravamo senza dubbio campioni, in lusso demodé o proibitivo.
Ma voi, figurarsi, sempre là, contenti addirittura che ci stessimo riqualificando, che il nuovo va accolto e salutato con piacere, che era tempo che l’Europa e il mercato ci imponessero di adeguarci a nuovi standard, e soprattutto che l’annuale Tombola dei Dipendenti e la Befana dei Pensionati fossero state finalmente soppiantate dalla serata danzante degli Auguri di Natale.
E quanto vi siete compiaciuti, il Martedì Grasso, di tutto quel, neanche tanto celato, competere della Gina, della Luisa, e persino della Marisa, in scintillii e velami nazional-popolari, per provare ad accaparrarsi, anche così, il favore del dirigente di turno, uno sbarbatello fugace come una meteora, eppure certo di poter, con il suo Master altolocato, polverizzare l’esperienza militante di chi nell’azienda ci stava invece trascorrendo la vita e la conosceva dal buon vecchio sudore della quotidianità.
Come il Franco.
Anche quella, una storia come tante. Aveva cominciato giovanissimo, dotato delle stesse mani del Quercia, e forse persino di più. Ci chiamava tutti per nome, uno ad uno, membra diverse ma solidali dello stesso corpo, e conosceva le nostre vite, quelle dei nostri padri e pure delle nostre madri. Era stato il braccio destro del Quercia, che l’aveva quasi preferito ai propri figli e lo aveva scelto per la direzione del personale. Un uomo giusto, lo riconoscevamo tutti, che per il Mobilificio si sarebbe fatto ammazzare, tanto che, nella crisi del ’73, ci aveva persino rischiato la casa e la piccola eredità di cui era appena entrato in possesso, per aiutare con i mutui e gli interessi. Non ci stava a vederci ridotti a numeri da spremuta, mentre il garrire delle ideologie veniva sempre più preso al laccio delle propagande liberistiche e l’epopea de I funerali di Togliatti, scanzonatamente incaprettata al gaio sgambettìo delle riforme del lavoro.
Così, per la Caterina, gliele aveva ben cantate a quegli altri, tirando nientemeno in ballo parole come coscienza e umanità. E le urla le abbiamo sentite tutti, da dietro le porte serrate, mentre si batteva perché, dopo l’incidente, subentrasse al marito, infischiandosene di costi, statistiche, percentuali, rendimenti e qualifiche.
Ma non abbiamo mosso un dito per sostenerlo e fargli sentire il nostro appoggio. Lo abbiamo lasciato solo a difendere baluardi che sono poi caduti uno dietro l’altro.
Ve lo dicevo che sarebbe stata solo la punta dell’iceberg, mentre tra la solita brioche e il caffè vi guardavate divertiti, lanciandovi cenni d’intesa, certi che La Quercia non fosse né sarebbe mai potuta essere il Titanic, e che, se l’avevano costretto, il Franco, alla pensione, un motivo ci doveva pur essere, ci aveva comunque la sua età, mica se ne poteva stare incatenato all’Azienda.
E non vi accorgevate, o fingevate di non accorgervi, che al bar non si rideva più come prima. Che ai tavolini non ci si sedeva più a casaccio, in gruppi occasionali, ma tra pochi e scelti con grande attenzione. La bonomia spontanea e genuina d’un tempo sostituita da risatine controllate e studiate, le battute non più innocenti e ridanciane come prima, ma volte ora a stuzzicare ora a sottintendere.
I tempi cambiano, non si può essere amiconi di tutti, avete continuato a sostenere, nessun ambiente è privo di veleni.
Meglio, così riposiamo la testa, avete esclamato il giorno in cui molti facevano colazione più silenziosi e guardinghi del solito.
Erano giunte le Pialle dal Nord ed hanno cominciato a sfrondare, solo che loro non passavano su fibre e cortecce. E sono saltate le teste e i posti di lavoro. Giovanni, Domenico, e il Pietro hanno fatto le valigie, in cerca di un futuro migliore.
Il figlio dell’Elena si è lasciato cullare dal fiume.
In men che non si dica il paese ha cambiato volto, come del resto l’Italia, anzi se n’è ritrovato uno fluido, insicuro, vulnerabile, attraversato dall’incertezza, dalla paura e dallo spettro della disoccupazione. E i nostri figli se ne sono andati, uno dietro l’altro, all’estero a svolgere speranzosi lavori che qui avrebbero a stento preso in considerazione.
Ma voi sempre lì, placidi, almeno fino ad oggi che l’accordo col gruppo saudita è definitivamente saltato e la smobilitazione de La Quercia ufficialmente ratificata.
Bene, sapete che vi dico? Godeteveli pure, questo vostro benedetto caffè e questa vostra brioche, che da cassintegrati rischiano di esser l’unica vera saldezza della vostra vita.
O forse nemmeno quello.