UMBERTO BECCARIA.
La Sonata op.111 è la trentaduesima e ultima del corpus sonatistico beethoveniano. ed è dedicata all’arciduca Rodolfo. Tuttavia non è l’ultima composizione pianistica che il maestro di Bonn dedica al pianoforte, ci saranno infatti le Bagatelle op.119 e op.126 oltre alle Variazioni sul tema di Diabelli op.120. Dopo aver affrontato nella sua totalità la forma e la struttura sonata, il compositore tedesco giunge a questa sintesi di suprema bellezza. La composizione si presenta in due movimenti: “Maestoso – Allegro con brio e appassionato” e “Arietta: adagio molto semplice e cantabile”. Beethoven si discosta qui dalla struttura della sonata classica, articolata in quattro movimenti (Allegro – Adagio – Minuetto/Scherzo – Rondò), come già aveva fatto in passato. Molte sono infatti le sue sonate in tre tempi, alcune in due (come ad esempio l’op.78 o l’op.90). I due movimenti sono in netto contrasto tra loro, il primo tempestoso e irrequieto, il secondo dolce e sognante, con guizzi di vitalità tipicamente beethoveniani. Suonando e ascoltando questo capolavoro del maestro di Bonn è possibile riflettere sulla vita, su come essa sia caratterizzata da alti e bassi e denotata da momenti idilliaci come estremamente tristi. La musica più di altre arti riesce a smuovere in ogni animo umano sentimenti forti spesso sopiti e nascosti.
Un concetto meraviglioso, sostenuto dal pianista e direttore d’orchestra Daniel Barenboim, riguarda il fatto che ogni composizione musicale possa essere di carattere allegro e triste allo stesso tempo, possa far piangere o ridere nel giro di poche note. Nella musica colta molto spesso questo accade, anche poiché ogni individuo interiorizza l’espressione artistica. L’uomo ha una concezione estremamente personale della musica poiché è un’entità fluida e fluttuante che non ha caratteri di assoluta oggettività. Per questo si può affermare che una composizione è denotata da gioia e tristezza allo stesso momento. Nell’ultima sonata di Beethoven tutto questo è esemplificato perfettamente. Risulta difficile pensare che il compositore tedesco non abbia voluto con questa composizione tirare le somme della propria esistenza. Di certo la Sonata op.111 è ricca di spunti, riflessioni, implicazioni filosofiche e letterarie; emblematica è la descrizione che Thomas Mann fa della Sonata, nonostante presenti qualche discrepanza a livello musicale è uno dei più meravigliosi racconti letterari riguardanti pagine musicali. Ma torniamo all’analisi dell’opera.
Il primo movimento si apre in modo burrascoso, aggressivo. Beethoven pone qui un’introduzione dalla grande incertezza armonica. La tonalità principale è do minore ma il compositore la annuncia chiaramente soltanto con il Tema della Sonata che arriva dopo un lungo pedale nei suoni gravi. Da qui, rielaborando il materiale tematico, Beethoven costruisce sviluppo, esposizione e ripresa, per poi arrivare alla coda finale. Questa struttura è tipica del primo movimento di sonata classica ed è stata utilizzata dai compositori moltissime volte. Anche se in misura minore rispetto ad altre Sonate dell’ultimo periodo, come ad esempio l’op.106, il compositore di Bonn utilizza nella 111 la forma della Fuga nel suo discorso musicale. Questo termine indica, in ambito musicale, una forma contrappuntistica a imitazione. Il contrappunto consiste nell’arte di sovrapporre differenti melodie giungendo ad un sistema musicale compiuto. Per imitazione, invece, si intende il procedimento secondo il quale vengono ripetuti da più voci nuclei melodici presentati da un’altra voce. La fuga solitamente si articola in tre momenti: l’esposizione, lo svolgimento e lo stretto. Ma non è necessario dilungarsi su questi aspetti.
Il tema tempestoso e grave esposto subito dopo l’introduzione viene dunque rielaborato in differenti modi grazie alla scrittura fugata magistralmente utilizzata da Beethoven, il quale trascende gli schemi tradizionali per arrivare ad un risultato di rara bellezza. Dopo aver percorso la ripresa del tema in altra tonalità rispetto alle battute iniziali, si giunge ad una coda denotata da caratteri di dolcezza e serenità che pare distaccarsi dal carattere del primo movimento per arrivare nei lidi più soavi e miti dell’ “Arietta”.
Il tema in do maggiore del secondo movimento della sonata è di grande semplicità nella sua enunciazione. Da questo materiale tematico Beethoven elabora cinque variazioni con coda di bellezza rara. Il compositore di Bonn apre strade a nuove sonorità, a una differente scrittura pianistica, a pensieri trascendentali. Il maestro ci conduce verso nuovi mondi, fluttuanti, celestiali. In tutto questo, una variazione sorprendente, per ritmica e scrittura, quasi jazz, o ragtime come alcuni sostengono, posta al centro dell’Arietta. Certamente Beethoven sprigiona qui un’energia e una creatività che gli permettono di anticipare i tempi di molti anni.
In questo capolavoro sono presenti tutti gli elementi di innovazione che il compositore di Bonn potesse apportare; è la conclusione naturale e logica di tutto il percorso che Beethoven aveva iniziato con la prima Sonata, ancora influenzata dal suo maestro Haydn. Tornando al secondo movimento della sonata op.111, lascerei la parola Thomas Mann, che descrive nel Doctor Faustus in modo impareggiabile la coda e dunque la conclusione dell’opera. “La caratteristica di questo tempo è il grande distacco fra il basso e il canto, fra la mano destra e la sinistra, e c’è un momento, una situazione estrema in cui sembra che quel povero motivo rimanga sospeso, abbandonato e solitario sopra un abisso vertiginoso – un istante di pallida elevazione cui segue subito una paurosa umiliazione, quasi un trepido sgomento per il fatto che una cosa simile abbia potuto accadere. Ma molte cose accadono ancora prima che si arrivi in fondo. E quando ci si arriva e mentre ci si arriva, dopo tanta collera e ossessione e insistenza temeraria, avviene alcunché d’inaspettato e commovente nella sua dolcezza e bontà. Il ben noto motivo che prende commiato, ed è esso stesso tutto un commiato e diventa una voce e un cenno di addio, questo re-sol sol subisce una lieve modificazione, prende un piccolo ampliamento melodico. Dopo un do iniziale accoglie, prima del re, un do diesis (…); e questo do diesis aggiunto è l’atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare. E’ come una carezza dolorosamente amorosa sui capelli, su una guancia, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo. E’ la benedizione dell’oggetto, è la frase terribilmente inseguita e umanizzata in modo che travolge e scende nel cuore di chi ascolta come un addio, un addio per sempre, così dolce che gli occhi si empiono di lacrime.”
Vi lascio un’esecuzione del grande Arturo Benedetti Michelangeli
https://www.youtube.com/watch?v=CfrapWjLUvM