GABRIELLA MONGARDI.
No, non parlerò proprio di tutte le donne di Don Giovani, quali risultano dalla celeberrima aria del “Catalogo” (se volete contarle, sono in tutto: 640 in Italia + 231 in Germania + 100 in Francia + 91 in Turchia + 1003 in Spagna = 2065, parola di Leporello), ma delle due donne che nell’opera di Mozart, rappresentata per la prima volta a Praga il 29 ottobre di 230 anni fa, sono al suo livello, appartengono alla sua stessa classe sociale, gli tengono testa alla pari: ossia Donna Anna e Donna Elvira.
Un attento esame del testo delle arie, dei duetti e dei recitativi, magistralmente scritti dalla penna di Lorenzo Da Ponte in un italiano di sorprendente modernità, porta a conclusioni inaspettate, e può gettare nuova luce, anche oggi, sui rapporti uomo-donna e sulle dinamiche del desiderio.
Quando si apre il sipario, Leporello fa da sentinella al suo padrone, intento a sedurre qualcuna: ma subito irrompe sulla scena Don Giovanni, tenuto forte per un braccio da Donna Anna.
DONN’ANNA | Non sperar, se non m’uccidi, ch’io ti lasci fuggir mai. |
DON GIOVANNI | Donna folle! Indarno gridi: chi son io tu non saprai. |
DONN’ANNA | Gente!… servi! Al traditore! |
DON GIOVANNI | Taci, e trema al mio furore. |
DONN’ANNA | Scellerato! |
DON GIOVANNI | Sconsigliata! |
DON GIOVANNI | (Questa furia disperata mi vuol far precipitar.) |
DONN’ANNA | Come furia disperata ti saprò perseguitar. |
Donna Anna è la figlia del Commendatore, fidanzata con Don Ottavio, e il padre di lì a poco si batterà in duello per lei con l’ignoto seduttore, rimanendone ferito a morte: ma le prime parole che lei canta non sono proprio l’invocazione di aiuto di una donna che ha subito violenza… Lei cerca di trattenere l’uomo che (dopo averla amata? probabilmente sì, ma non lo sapremo mai con certezza…) vuole fuggire per non rivelarle la propria identità, e lo chiama “traditore”. Perché? Perché lo ha riconosciuto come un amico di famiglia che avrebbe dovuto rispettarla e invece ha tentato di approfittare di lei, o perché lei ama quell’uomo affascinante, che l’ha ‘vivificata’ con le sue parole e le sue carezze come Don Ottavio – ottima ma insipida persona – non ha mai saputo fare, e non vuole essere abbandonata da lui? E la sua “furia disperata” nasce dal sopruso subito o dalla paura di ripiombare nella banalità di una vita prevedibile, scontata? La “persecuzione” che lei minaccia a Don Giovanni è la vendetta di una vittima di violenza o quella di una donna innamorata, a cui la società comunque nega di vivere secondo il suo cuore, di autodeterminarsi?
Né Da Ponte né Mozart danno risposte esplicite a queste domande, che lo spettatore non può non porsi – del resto non possono spingersi molto più in là, siamo ancora nell’Ancien Régime, la mentalità dominante è di un certo tipo, le prime rivendicazioni femministe sono molto di là da venire… Però gli interventi di Donna Anna sono sempre sospesi tra amore e odio. Tra cento affetti e cento / vammi ondeggiando il cor canta alla fine della Scena terza dell’Atto primo, in duetto con Don Ottavio, e non si può escludere che tra questi “affetti” ci sia anche la passione per lo sconosciuto amante di una notte…
Donna Anna racconterà a Don Ottavio cos’è accaduto quella notte nella scena 13 dell’atto primo.
DONN’ANNA | Era già alquanto avanzata la notte, quando nelle mie stanze, ove soletta mi trovai per sventura, entrar io vidi in un mantello avvolto un uom che al primo istante avea preso per voi: ma riconobbi poi che un inganno era il mio… |
DON OTTAVIO | Stelle!… Seguite. |
DONN’ANNA | Tacito a me s’appressa, e mi vuole abbracciar; sciogliermi cerco, ei più mi stringe; io grido. Non viene alcun. Con una mano cerca d’impedire la voce, e coll’altra m’afferra stretta così, che già mi credo vinta. |
DON OTTAVIO | Perfido!… E alfin?… |
DONN’ANNA | Alfin il duol, l’orrore dell’infame attentato accrebbe sì la lena mia, che, a forza di svincolarmi, torcermi e piegarmi, da lui mi sciolsi. |
DON OTTAVIO | Ohimè! respiro. |
DONN’ANNA | Allora rinforzo i’ stridi miei. Chiamo soccorso: fugge il fellon. Arditamente il seguo fin nella strada per fermarlo, e sono assalitrice d’assalita! Il padre v’accorre, vuol conoscerlo; e l’indegno, che del povero vecchio era più forte, compie il misfatto suo col dargli morte. |
La versione di Anna è quella ufficiale, l’unica accettabile… per tutti, inclusa lei. Ma le regie moderne (come quella di Claus Guth a Salisburgo nel 2008, con Christopher Maltman Don Giovanni, Erwin Schrott Leporello, Svetlana Doneva Donna Anna, Pavel Breslik Don Ottavio, Ekaterina Siurina Zerlina, Alex Esposito Masetto, Anatoli Kotscherga Commendatore, Dorothea Röschmann Donna Elvira e i Wiener Philharmoniker diretti da Bertrand de Billy) la pensano ben diversamente.
Altre parole sparse di Donna Anna confermano questo sospetto.
Nella scena 19 del primo atto quando, mascherata insieme con Donna Elvira e Don Ottavio, sta preparando un trabocchetto per smascherare Don Giovanni, canta: temo pe ‘l caro sposo / e per noi temo ancor. Chi è il caro sposo? Ottavio o Giovanni? Ma Ottavio, non è già compreso nel “noi”?
Ancora. Perché, vedendo Zerlina durante il ballo alla fine del primo atto (scena 21), dice Io moro? Di gelosia forse? Perché, nel concitatissimo finale del primo atto, dà di nuovo del traditore a Don Giovanni, senza motivo? E quando, nel secondo atto, alla scena 13, Donna Anna canta a Don Ottavio: «Abbastanza per te mi parla amore», siamo sicuri che nel suo cuore pensi a lui e non piuttosto a Don Giovanni? Infine: quando in chiusura, dopo che Don Giovanni è morto, Donna Anna chiede a Don Ottavio, che vorrebbe sposarla in breve tempo, di lasciarle un anno ancora / allo sfogo del suo cor, viene il dubbio che il suo cuore sia in lutto non solo per il padre, ma anche per Don Giovanni…
Con la figura di Donna Anna Da Ponte si rivela un maestro nello sfruttare l’ambivalenza del linguaggio e l’alone di ambiguità che il contesto riverbera sul discorso: un maestro nell’arte del dire-e-non-dire, sulle orme di quel maestro del doppio senso che fu Torquato Tasso. Con una differenza fondamentale: nel “dramma giocoso” del Settecento il dire-e-non-dire è un modo per sfumare, alleggerire, ammiccare; nell’autore controriformista era l’unico modo per ‘dire’, sottraendosi all’opprimente cappa di piombo della censura e, prima ancora, all’auto-censura. Nel suo poema eroico, la Gerusalemme Liberata, i protagonisti sono tutti prigionieri di un sogno impossibile, in perenne conflitto tra essere e dover essere. È sulle labbra di Erminia, la principessa mussulmana innamorata del Crociato Tancredi, che risuona limpidamente questo tema. I Crociati sono arrivati a Gerusalemme, e il sovrano Aladino sale con Erminia sulle mura perché lei gli indichi i comandanti nemici: Erminia infatti era in grado di riconoscerli perché era stata a lungo prigioniera nel campo cristiano. Proprio durante la prigionia si era innamorata di Tancredi. Queste le sue parole, quando scorge le insegne di Tancredi (Gerusalemme Liberata III, ott. 19-20):
“Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
fra mille riconoscerlo deggia io,
ché spesso il vidi i campi e le profonde
fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
ch’ei faccia, erba non giova od arte maga.
Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero
mio fosse un giorno! e no ’l vorrei già morto;
vivo il vorrei, perch’in me desse al fero
desio dolce vendetta alcun conforto.”
E il narratore commenta:
Così parlava, e de’ suoi detti il vero
da chi l’udiva in altro senso è torto.
Che Da Ponte avesse presente questi versi lo provano le parole cantate da Donna Anna nel finale del secondo atto, in cui è chiaramente avvertibile un’eco tassesca: Solo mirandolo / stretto in catene, / alle mie pene / calma darò.
Al di là delle differenze di tono, il doppio senso in entrambi gli autori non è un modo per simulare o ingannare, ma l’unico strumento per dar voce a un Desiderio altrimenti indicibile, il desiderio erotico femminile – è quindi, per le due donne, l’unico modo per esprimere l’autenticità profonda dell’Io…
***
Tutt’altro personaggio è quello di Donna Elvira. Lei pure di famiglia aristocratica, si considera “l’amante ufficiale” di Don Giovanni e come tale si comporta, fin dalla sua prima apparizione nella scena 5 dell’atto primo, davanti a Leporello e a Don Giovanni, che lì per lì non la riconosce:
Ah! chi mi dice mai / quel barbaro dov’è, / che per mio scorno amai,/ che mi mancò di fé?// Ah! se ritrovo l’empio, / e a me non torna ancor,/ vo’ farne orrendo scempio,/ gli vo’ cavar il cor.
Ma appena lo scorge, Elvira lo inchioda alla sua colpa con un recitativo teso, drammatico, se non fosse per i commenti ironici di Leporello che costituiscono un controcanto equilibratore: perché il dramma, per quanto “dramma”, deve rimanere “giocoso”.
DON GIOVANNI | Signorina! |
DONN’ELVIRA | Chi è là. |
DON GIOVANNI | Stelle! che vedo! |
LEPORELLO | Oh, bella! Donn’Elvira! |
DONN’ELVIRA | Don Giovanni!… sei qui, mostro, fellon, nido d’inganni… |
LEPORELLO | (Che titoli cruscanti! Manco male che lo conosce bene.) |
DON GIOVANNI | Via, cara Donn’Elvira, calmate quella collera… sentite… lasciatemi parlar… |
DONN’ELVIRA | Cosa puoi dire, dopo azion sì nera? In casa mia entri furtivamente. A forza d’arte, di giuramenti e di lusinghe, arrivi a sedurre il cor mio: m’innamori, o crudele, mi dichiari tua sposa. E poi, mancando della terra e del cielo al santo dritto, con enorme delitto dopo tre dì da Burgos t’allontani, m’abbandoni, mi fuggi, e lasci in preda al rimorso ed al pianto, per pena forse che t’amai cotanto. |
LEPORELLO | (Pare un libro stampato.) |
DON GIOVANNI | Oh, in quanto a questo ebbi le mie ragioni. (a Leporello) È vero? |
LEPORELLO | È vero. (ironicamente) E che ragioni forti! |
DONN’ELVIRA | E quali sono, se non la tua perfidia, la leggerezza tua? Ma il giusto cielo volle ch’io ti trovassi per far le sue, le mie vendette. |
DON GIOVANNI | Eh, via, siate più ragionevole… (Mi pone a cimento, costei.) (a Donn’Elvira) Se non credete al labbro mio, credete a questo galantuomo. |
LEPORELLO | (Salvo il vero.) |
DON GIOVANNI | (a Leporello) Via, dille un poco… |
LEPORELLO | (sottovoce a Don Giovanni) E cosa devo dirle? |
DON GIOVANNI | (ad alta voce) Sì, sì dille pur tutto. (partendo senza esser visto) |
DONN’ELVIRA | (a Leporello) Ebben, fa’ presto. |
LEPORELLO | Madama… veramente… in questo mondo conciossiacosaquandofosseché il quadro non è tondo… |
DONN’ELVIRA | Sciagurato! Così del mio dolor gioco ti prendi? (verso Don Giovanni che non crede partito) Ah, voi… (non vedendolo) Stelle! L’iniquo fuggì, misera me!… Dove? in qual parte… |
LEPORELLO | Eh! lasciate che vada. Egli non merta che di lui ci pensiate… |
DONN’ELVIRA | Il scellerato m’ingannò, mi tradì… |
LEPORELLO | Eh! consolatevi: non siete voi, non foste e non sarete né la prima né l’ultima. Guardate questo non picciol libro: è tutto pieno dei nomi di sue belle. Ogni villa, ogni borgo, ogni paese è testimon di sue donnesche imprese. |
Ovviamente il suggerimento di Leporello non può far breccia nella mente di Elvira che, prigioniera del proprio dolore, dell’amore non corrisposto, non può che ragionare in termini di “inganno” e di “vendetta”. La realizzerà nelle scene 10 e 11 dell’atto primo, attraverso un’inedita alleanza femminile, offrendo la sua sofferenza alle ‘sorelle’ sedotte come monito per risparmiarle: prima con Zerlina (aria, n. 8: Ah, fuggi il traditor,/ non lo lasciar più dir:/ il labbro è mentitor,/ fallace il ciglio.// Da’ miei tormenti impara/ a creder a quel cor./ E nasca il tuo timor/ dal mio periglio), e poi con Donna Anna (quartetto, n. 9: Non ti fidar, o misera,/ di quel ribaldo cor./ Me già tradì, quel barbaro:/ te vuol tradir ancor.)
L’io e il tu si intrecciano strettamente in questi versi, a esprimere tutta la solidarietà di Elvira per le altre due ‘vittime’ di Don Giovanni – che rimane il “traditore” per eccellenza (mentitor-fallace-ribaldo-tradì-tradir), da cui ci si può salvare solo con la diffidenza, la fuga (fuggi, timor, non ti fidar). Il diverso ritmo, dei versi e della musica (due quartine di incalzanti, rabbiosi settenari tronchi chiuse da un quinario, nella prima aria – allegro; una quartina di sospirosi ottonari alternati a settenari tronchi, nella seconda – andante) esprime però un mutamento di stato d’animo in Donna Elvira: la furia vendicatrice, l’ira si sta placando – subentra uno stato d’animo più complesso, indecifrabile. Da Ponte è un maestro nel disegnarlo con una quartina di decasillabi, cantata insieme da Don Giovanni e Donna Elvira nella scena 12 come a parte: Sdegno, rabbia, dispetto, spavento/ dentro l’alma girare mi sento… Ma il fatto che i due cantino l’uno all’insaputa dell’altra le stesse parole dice qualcosa di più, dice che sono ‘gemelli’, che Donna Elvira sarebbe davvero la donna di Don Giovanni, se lui fosse in grado di riconoscerla.
Questo può essere forse il significato profondo della scena 2 del secondo atto, al di là della trovata teatrale – comunque grandissima, – dell’ “assassino che ritorna sul luogo del delitto”: Don Giovanni che sotto il balcone di Donna Elvira si dichiara pentito e la supplica di scendere (Vedrai che tu sei quella / che adora l’alma mia) potrebbe essere per un momento, nonostante l’intercalare comico di Leporello, sincero e autentico sotto la maschera del seduttore seriale e recidivo, senza nemmeno saperlo… Ma Donna Elvira, con la sensibilità che solo una donna innamorata possiede, ‘riconosce’ l’uomo che ama e che l’ama e, per quanto cerchi di resistere (Ah, taci, ingiusto core, / non palpitarmi in seno: / è un empio, è un traditore. / È colpa aver pietà.), non può far altro che stare al suo gioco, lasciarsi sedurre, e rispondere di sì: Eccomi a voi.
L’evoluzione di Donna Elvira culmina nella scena 11, aria n. 23: due quartine di ottonari a rima alternata, tutte giocate sull’antitesi, che non è una mera figura retorica ma l’espressione del dissidio interiore di Elvira, da lei analizzato con estrema lucidità.
Mi tradì, quell’alma ingrata:/ infelice, oddio! mi fa. /Ma, tradita e abbandonata,/ provo ancor per lui pietà.// Quando sento il mio tormento,/ di vendetta il cor favella;/ ma, se guardo il suo cimento,/palpitando il cor mi va.
Da un lato c’è la situazione oggettiva: l’ “ingratitudine” di Don Giovanni, i suoi reiterati tradimenti, l’abbandono – dall’altra le contraddittorie ripercussioni psicologiche di essa. Da un lato l’infelicità, il tormento, il naturale desiderio di vendetta dell’io offeso: dall’altro la “pietà” che fa palpitare il cuore di chi veramente ama e che soprattutto sa guardarsi dall’esterno. L’antitesi di fondo è quella tra i due verbi “sento” e “guardo”: Donna Elvira non è solo sensibile alla propria sofferenza, tutta concentrata e chiusa su se stessa; siccome ama, ama veramente, sa guardare, riconoscere il “cimento”, la terribile prova a cui Don Giovanni stesso si sottopone con estrema coerenza fino alla fine, e si commuove, si scinde in due per lui – così come lui è scisso tra passato e futuro.
Infatti, come ha detto Flavio Caroli in un’intervista televisiva, il Don Giovanni di Da Ponte-Mozart non è un archetipo del dongiovannismo: è un archetipo della modernità, dell’Illuminismo e dei nuovi ideali di ragione e libertà individuale, destinati fatalmente a scontrarsi e a soccombere di fronte all’Ordine Costituito e all’autoritarismo dell’Ancien Régime. Ma – nota Quirino Principe sul domenicale del Sole-24Ore – forse non è casuale che quest’opera, diretta da Mozart stesso, sia stata rappresentata in prima assoluta non nella Vienna della dinastia Strauß, ma nella Praga di Kafka nel 1787, due soli anni prima della presa della Bastiglia… E non è casuale che il librettista, Lorenzo Da Ponte, abbia dovuto riparare a New York, nel 1804, perché Vienna e Parigi, le due capitali della cultura europea dell’epoca, non tolleravano la sua modernità.
Modernità che si vede anche nel ruolo e nel peso dei personaggi femminili sulla scena teatrale – così come si misura dal ruolo e dal peso delle donne nella società civile.