L’esperienza del fascino

malaparte-la-pelleGABRIELLA VERGARI.

Una bambina.
Inizia così una delle pagine più intense e sconcertanti de La Pelle (1949), il romanzo di Curzio Malaparte (Prato 1898- Roma 1957) che il Vaticano mise all’indice poco dopo la sua pubblicazione, avvenuta contemporaneamente in Francia e in Italia, e suscitò un acceso dibattito internazionale, costando all’autore pure il bando morale del Consiglio comunale di Napoli, con cui gli fu ingiunto di “astenersi dal frequentare caffè, ristoranti, teatri, cinematografi e alberghi”.
Tanta indignazione può forse oggi colpire ma in fondo non sorprendere, se si riflette su quanto scottante dovessero apparire le tematiche, allora attualissime, messe a nudo dall’impietoso scandaglio dello scrittore, il quale affermava di aver voluto, in questo suo testo, raffigurare l’Europa sotto gli Alleati, specie americani, laddove nel precedente Kaputt aveva rappresentato l’Europa sotto i tedeschi. In una lettera a Bompiani – che alla fine non pubblicherà il romanzo – ammetteva poi lui stesso che ci fossero certe “crudezze”. Ma, aggiungeva, come si fa a dare un quadro della rovina nostra e dell’Europa, senza crudezze? Come si potrebbe capire il resto del libro, che racconta appunto il lento risorgere del senso morale, del senso della giustizia, di bontà, di pietà, in noi, e nei nostri liberatori, se non si parte da quell’inferno? 
Ed ecco che storia e racconto si fondono insieme, fino ad un particolare banchetto, in cui durante il pranzo del Generale Cork, viene tra le pietanze appunto presentata: Una bambina, qualcosa che assomigliava ad una bambina, era distesa sulla schiena in mezzo al vassoio, sopra un letto di verdi foglie di lattuga, entro una grande ghirlanda di rosei rami di corallo. Aveva gli occhi aperti, le labbra socchiuse: e mirava con uno sguardo di meraviglia il Trionfo di Venere […] Era nuda: ma la pelle scura, lucida, dello stesso color viola del vestito di Mrs. Flat, modellava, proprio come un vestito attillato, le sue forme ancora acerbe e già armoniose, la dolce curva dei fianchi, la lieve sporgenza del ventre, i piccoli seni virginei, le spalle larghe e piene.
Poteva avere non più di otto o dieci anni, sebbene a prima vista, tanto era precoce di forme già donnesche, ne paresse quindici. Qua e là strappata, o spappolata dalla cottura, specie sulle spalle e sui fianchi, la pelle lasciava intravedere per gli spacchi e le incrinature la carne tenera, dove argentea, dove dorata: talché sembrava vestita di viola e di giallo, proprio come Mrs. Flat. E come Mrs. Flat aveva il viso (che l’ardore dell’acqua bollente aveva fatto schizzar fuori della pelle come un frutto troppo maturo fuor della sua scorza) simile ad una lucente maschera di porcellana antica, e le labbra sporgenti, la fronte alta e stretta, gli occhi tondi e verdi. Le braccia aveva corte, una specie di pinne terminanti a punta, in forma di mano senza dita. Un ciuffo di setole le spuntava al sommo del capo, che parevan capelli, e rade scendevano ai lati del piccolo viso, tutto raccolto, e come aggrumato, in una specie di smorfia simile a un sorriso, intorno alla bocca. I fianchi, lunghi e snelli, finivano, proprio come dice Ovidio, in piscem, in coda di pesce. Giaceva quella bambina nella sua bara d’argento e pareva che dormisse. Ma, per un’imperdonabile dimenticanza del cuoco, dormiva come dormono i morti cui nessuno ha avuto la pietosa cura di abbassare le palpebre: ad occhi aperti. E mirava i tritoni di Luca Giordano soffiar nelle loro conche marine, e i delfini, attaccati al cocchio di Venere, galoppar sulle onde, e Venere nuda seduta nell’aureo cocchio, e il bianco e roseo corteo delle sue Ninfe, e Nettuno, col tridente in pugno, correr sul mare trainato dalla foga dei suoi bianchi cavalli, assetati ancora dell’innocente sangue d’Ippolito. Mirava il Trionfo di Venere dipinto nel soffitto, quel turchino mare, quegli argentei pesci, quei verdi mostri marini, quelle bianche nuvole erranti in fondo all’orizzonte, e sorrideva estatica: era quello il suo mare, era quella la sua patria perduta, il paese dei suoi sogni, il felice regno delle Sirene.
     Era la prima volta che vedevo una bambina cotta, una bambina bollita: e tacevo, stretto da un timor sacro. Tutti, intorno alla tavola, erano pallidi d’orrore[i].

Nell’impietosa descrizione dello scempio della sirena dell’acquario di Napoli, fastosamente ma oscenamente adagiata nel suo letto di coralli, laddove i corpi delle bambine povere della città non si possono forse nemmeno permettere un misero catafalco, ancora una volta la dialettica tra verità e apparenza, peculiare di ogni seduzione “sirenesca” dai tempi di Odisseo ai giorni nostri, si conferma dunque percorso volto alla conoscenza, ovvero esperienza per antonomasia sapienziale. E poco importa che, in questa sequenza certamente particolare e indimenticabile, Malaparte proponga l’ inquietante e stupefacente rovesciamento a sorpresa di una  sirena vittima piuttosto che predatrice. La fascinazione che ella è in grado, anche da morta, di  attuare “cattura” comunque gli astanti,  frastornandoli e confondendoli con le ambiguità del reale ma pure con la materia nascosta, la carne tenera, che si intravede dagli spacchi e dalle fenditure della sua pelle. La caduta di questa fragile protezione meglio anzi espone, senza rimedio né remissione, gli astanti alla “malia” del disorientamento, dello smarrimento, dell’equivoco, perfino dell’orrore. Così si può pure spiegare il motivo per cui, il corpo sfatto della sirena, scambiata per una bambina morta, venga a tingersi degli stessi colori dell’abito di Msr. Flat, quasi essa divenisse a sua volta specchio e rifrazione[ii] della vulnerabilità della donna stessa, che a conclusione dell’episodio si ritrova inevitabilmente pallida e con le lacrime agli occhi, sconvolta da quello che ha visto e provata da una terra  che, come sa imbandire ai vincitori le sue perle e le sue  Sirene alla maionese con contorno di coralli, sa anche generare pesci liberi, che non son obbligati ad assomigliare ad un pesce.
E se, da una parte, questo momento straordinario può facilmente lasciar comprendere perché G. Vigarelli, giungesse a definire La Pelle “un documento apocalittico” e il critico Cecchi riscontrasse in Malaparte “una fondamentale empietà”, dall’altra esso ci conferma come pure la letteratura novecentesca più ardita e trasgressiva abbia avvertito il richiamo degli esseri ibridi – quali, senza dubbio le sirene – per renderlo emblema dell’eterno confronto tra l’uomo e i propri limiti.
Le creature straordinarie del mito si prestano infatti agevolmente a rivelarsi come “figure buone da pensare” all’interno del contesto culturale di riferimento. Con grande efficacia essi riescono a rappresentare, spesso in senso normativo, ciò che sta fuori e ai confini della cultura, ridefinendo nel contempo l’ordine che essa ha disegnato per il mondo. Sia nel mito che nel rituale, perciò, la costruzione di queste figure costituisce un’esperienza cognitiva della cultura, confermando e proteggendo dalla contraddizione modelli di pensiero intensamente partecipati al suo interno.”[iii]
Una cosa sembra ad ogni buon conto ferma: icona di ciò che resta inaccessibile e insieme attira senza fine, le Sirene sia che le varie tradizioni le abbiano rappresentate come -uccello, -pesce, -ape, -cavallo, -demone, -musica celeste[iv], non hanno mai cessato, né cesseranno  di sedurre (e spaventare) gli umani, destinate a riaffiorare, chissà quante altre volte e in quanti altri modi, nei racconti e nelle narrazioni di tutti i tempi, autentico e inesauribile laboratorio dell’immaginario.
Neanche Malaparte si sottrae, come si vede,  al loro fascino, ma fedele al suo ruolo di scrittore che non vuole, da una parte, ipocritamente indietreggiare davanti a realtà scomode e perturbanti e, dall’altra, neppure in alcun modo compiacersene, lo traduce in un’occasione – benché non sia  la sola  nel romanzo – di fortissimo straniamento ma anche di innegabile, intensa compassione.
Non pare perciò che si possa concordare con Cecchi, quando sostiene: Non ha odiosamente deriso, ma ha scoperto con mani profane qualcosa ben più sconcia e lacrimevole della nudità e ubbriachezza (sic) di Noè, bensì riflettere con lo scrittore stesso: Se io non fossi un artista, ma uno storico, mi si potrebbe rimproverare di narrare i fatti in tutto il loro orrore? A quanto io so, nessuno ha mai mosso un tale rimprovero, ad esempio, a Tucidide, per la sua descrizione della peste di Atene. Eppure Tucidide, in quelle pagine, si mostra altrettanto  grande artista quanto grande storico.
L’arte dunque e la sua capacità di sublimazione restano l’unico possibile strumento per non  passare sotto silenzio gli orrori e le tragedie della vita, soprattutto quando queste sembrino rovesciare e sconvolgere qualunque possibile valore e scampolo di civiltà.

Con  toni e  modi che lo hanno fatto definire, dal critico americano R. Pick, come “il più epico di tutti i grandi scrittori europei”, Malaparte si prefigge di ribadirlo, avvalendosi di un coraggio da antesignano e senza curarsi di limiti e frontiere, nell’ardua denuncia della decadenza dell’Europa e delle grandi menzogne della Storia del secondo dopoguerra, e nondimeno pure nella sottesa ma costante sua commozione per lo spettacolo dell’umana sofferenza e degradazione.


[i] Cfr., C. Malaparte, Opere scelte, Mi 20093,  pag. 1197-98.

[ii] Con una valenza che era già insita nell’episodio omerico, cfr., e. g., le osservazioni in merito di G. A. Privitera, Il ritorno del guerriero, To 2005, p. 183: «La prova imposta a Odisseo è doppia: Odisseo si confronta con un canto sovrumano e si confronta con la propria stessa storia. Si trova dinanzi ad uno specchio».

[iii] Cfr., e.g., le riflessioni in merito di D. Sperber, Animali perfetti, ibridi e mostri (ed. or. Pourquoi les animaux parfaits, les hybrides et le mostre son-ils bons à penser symboliquements?, in «L’Homme» 2/1975, pagg.5-34), Roma-Napoli 1986. E quanto sostiene L. Cherubini, Mostri vicini, mostri di casa. Di alcune creature straordinarie del mito antico, in Per un atlante antropologico della mitologia Greca e Romana, I Quaderni del Ramo d’Oro on-line, Numero Speciale 2012, pag. 137. 

[iv] Per una felice sintesi e un’aggiornata bibliografia sul mito delle Sirene, cfr. M. Bettini e L. Spina, Il mito delle Sirene, Torino 2007.